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domenica 2 dicembre 2007

Ricerca, ancora ultimi nell'Ocse

Ricevo da Carlo, che ringrazio, e pubblico volentieri


Ancora ultimi, come accade da anni. Il sistema di ricerca scientifica italiano continua a fare acqua da tutte le parti e a soffrire per un insufficiente livello di stanziamenti: solo l’1,1 % (rapporto tra R&S e Prodotto interno lordo) del 2004 è una cifra che colloca l’Italia all’ultimo posto nei Paesi Ocse, a pari merito con la Spagna. Nella graduatoria, Israele è al primo posto con il 4,4%, la Svezia investe il 4,0%, la Finlandia il 3,5%, il Giappone 3,2%, la Svizzera e la Corea il 2,9%. Gli altri paesi oscillano tra il 2,7% degli Stati Uniti e l’1,2% dell’Irlanda. In valore assoluto i 15.252 milioni di euro complessivi di stanziamenti tra comparto pubblico e imprese collocano l’Italia al nono posto: al primo posto compaiono gli Stati Uniti con 312,5 miliardi di dollari Usa (a parità di potere di acquisto), seguono con 118 il Giappone e la Cina con 94, Germania (59,2) Francia (38,9) e Regno Unito (32,2), Corea (28,3), Canada (20,8).
Questi dati – elaborati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche in occasione della presentazione di un data book dal titolo ‘Scienza e tecnologia in cifre. Statistiche sulla ricerca e sull'innovazione’ – segnano comunque un aumento rispetto al 2003 dell’1,2 per cento, dopo una generale diminuzione negli anni Novanta.
“I mali della ricerca sono molto più vecchi – spiega il prof. Franco Berrino, responsabile del dipartimento di medicina preventiva e predittiva dell’Istituto Tumori di Milano – ma possiamo farli partire proprio dagli anni Novanta, almeno per quanto riguarda la ricerca in ambito medico. Da allora i finanziamenti pubblici sono andati progressivamente scomparendo. Non credo sia solo una scelta politica, ma una conseguenza di una crisi finanziaria generale del Paese sulla quale non voglio entrare. Però a volte è più facile tagliare in questo che in altri settori. Tanto che ormai l’80% dei fondi per la ricerca proviene da fonti “extra” nazionali, dagli Stati Uniti, dalla Comunità Europea, attraverso ‘charity’ internazionali o da finanziamenti privati”.
E non è solo una questione di quantità di finanziamenti. Al centro dell’attenzione ci sono anche i metodi con cui questi fondi vengono resi disponibili. “I fondi nazionali – continua Berrino – sono molto modesti anche perché vengono suddivisi troppo spesso tra molti richiedenti, non tutti qualificati per riceverli. È questo il vero vizio italiano: cercare di accontentare un po’ tutti, anche chi non se lo merita. Il mio sogno sarebbe un Paese con regole certe, che mette in competizione i progetti con criteri di valutazione ineccepibili. E chi vince, vince una somma che consente di lavorare, come avviene in quasi tutto il resto del mondo”.
Il criterio del merito raramente viene applicato anche nella scelta del personale universitario. “L’università italiana – racconta il prof. Berrino – è un miscuglio di centri di eccellenza e di centri poverissimi. Eppure si continua a vedere il drammatico fenomeno di selezione del personale sulla base di criteri che non sono quelli del merito. Viviamo con tassi enormi di nepotismo. Anche questo è molto strano. Pur avendo un sacco di vincoli, all’Italia manca la capacità di collocare in una posizione importante una persona di grande prestigio e competenza. In questo settore gli Stati Uniti sono serissimi: i migliori – conosciuti o no – sono contesi dalle università, dalle aziende e dalle Istituzioni”.
A questo discorso si lega il dato sull’occupazione nel settore, sempre fornito dal CNR: nel 2004 il personale italiano impegnato in attività di ricerca era di 164.000 unità a tempo pieno, di cui 72.000 ricercatori. Un confronto imbarazzante con altri paesi europei: la Germania segna 270.700 ricercatori, quattro volte l’Italia. Paesi di dimensioni molto più ridotte, in termini di popolazione, rispetto all’Italia, come Svezia, Finlandia e Paesi Bassi, hanno circa la metà dei nostri ricercatori.
Alla quantità l’Italia supplisce con la qualità, e i dati delle pubblicazioni su riviste scientifiche ottenute da ricercatori italiani testimoniano una produttività della ricerca pubblica a livelli confortanti e in crescita nel tempo. La percentuale di citazioni di articoli scientifici di ricercatori italiani nelle pubblicazioni scientifiche è notevolmente aumentata fra il 1992 e il 2003: si è passati da 2,04% al 3,01% sul totale mondiale delle citazioni. Meglio di Spagna, Paesi Bassi, Svezia, Canada, Cina e Svizzera.
“Non è un caso che l’Italia esporti molti dei suoi cervelli – continua il prof. Berrino –. All’estero sono bravi e ambiti. E vengono pagati molto bene, contrariamente a ciò che accade qui da noi. Ma una soluzione a tutto questo ‘torpore’ che pervade il nostro Paese ci sarebbe: trasferire tutto ciò che riguarda la ricerca scientifica, quindi leggi e regolamenti, a livello europeo. Una legislazione europea sulla ricerca scientifica che costringa l’Italia al rispetto di certe regole, ci potrebbe infatti togliere da questo gap terribile che abbiamo nei confronti di altri Paesi vicini. Inoltre, questo potrebbe rendere l’Europa stessa più efficiente e favorire una maggiore trasparenza anche nell'attribuzione dei finanziamenti europei. Con questo passo in più, alcuni problemi potrebbero essere risolti”.

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