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sabato 15 settembre 2018

L'Avversario


Mi son ricordato de L’Avversario di Emmanuel Carrère perché la scorsa settimana il protagonista di questa storia allucinante ha inoltrato richiesta al giudice per usufruire del regime di semilibertà. L’Avversario è il racconto di un fatto di cronaca nera tra i più efferati di sempre, non solo in Francia, del relativo processo e della relazione epistolare che l’autore ha avuto con il protagonista. Jean Claude Romand, il 9 gennaio 1993, ha ucciso moglie, figli e genitori, tentando poi, senza riuscirci, di togliersi la vita. Definire Jean Claude Romand è quasi impossibile. Lo è stato anche per gli psichiatri che l’hanno seguito negli anni. Per comodità, in questa breve sinossi, mi limito a dire che era un bugiardo, travolto e fagocitato dalle sue stesse bugie, che l’hanno mangiato dentro fino all’epilogo finale. Tutto è iniziato ai tempi dell’università: un esame non sostenuto è poi diventata la laurea in Medicina, quindi un lavoro di prestigio nientemeno che a Ginevra, all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Diciotto anni di falsità. Una vita parallela vissuta in un’agghiacciante solitudine con sé stesso, senza progetti e senza testimoni, nei parcheggi delle stazioni di servizio, nei bar, in albergo, mentre la moglie, i parenti più stretti, gli amici, credevano, con orgoglio e ammirazione, che fosse al lavoro o all’Università di Digione, dove il giovedì teneva le lezioni, o ancora ad importanti congressi scientifici. Una sceneggiatura talmente assurda, inverosimile, falsa da risultare paradossalmente impossibile metterne in dubbio la verità. Per questo nessuno l’ha mai fatto: una verifica, una telefonata, un’improvvisata al lavoro. Durante il processo è sembrato incredibile alla stessa corte, eppure è andata così. Per mantenersi e soprattutto mantenere la famiglia come la sua posizione richiedeva, Jean Claude Romand aveva convinto i genitori ad affidargli i propri risparmi da investire. Così aveva fatto con lo zio, i suoceri. Infine l’amante. Del resto come non fidarsi del brillante ricercatore dell’OMS? Il figlio che ogni genitore vorrebbe avere o vorrebbe come marito della propria di figlia. Ma un giorno succede l’imponderabile, il granellino di sabbia che fa inceppare il meccanismo. Allora non c’è più tempo. Perché gli altri non devono guardarlo con i suoi stessi occhi: vedere quello che lui vede tutti i giorni da 18 anni. Jean Claude Romand è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dei genitori, della moglie e dei due figli. Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti sconvolti dalla precisione con cui si esprimeva e dalla preoccupazione che aveva di dare di sé un’immagine positiva. Un autocontrollo disumano, un automa incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni adeguando ad essi le proprie reazioni. Nel tempo pare abbia mostrato segni di pentimento e si sia avvicinato a Dio e alla preghiera. Carrère ha assistito alle udienze, ha studiato il fascicolo processuale, ha intrapreso una corrispondenza con Jean Claude Ramond e una volta l’ha incontrato in carcere. Solo tre anni dopo ha iniziato a scrivere un libro magistrale nel racconto di una atroce disumanità di un uomo tutto sommato banale. Scrive Carrère: *Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario”.
 


martedì 11 settembre 2018

Una sera di maggio un sedicenne

Ho raccontato questa storia durante una serata tra amici. Il tema era: qual è l’esperienza più assurda che ti sia capitata. Uno di questi amici mi ha poi invitato a scriverla. Il fatto è realmente accaduto. Mi sono solo preso alcune licenze nella narrazione per renderlo più leggero e, spero, divertente.


Una sera di maggio del 1980 rientro a casa dopo aver dato il mio quotidiano fondamentale contributo al tavolo permanente su schemi, tattica e, ovviamente, fighe, materie per le quali condivido la docenza con altri intellettuali del centro sportivo del paese, e mia mamma mi dice: ha chiamato una al telefono. Una chi? Una, non le solite. E cosa voleva? Cercava te. La logica di mia madre è sempre stata spiazzante. Bene. Ci provo, anche se so già che la richiesta si rivelerà del tutto inutile: se richiama chiedile il nome, magari scopriamo chi è. E infatti potevo risparmiarmi il fiato. Per altre 5-6 volte nell’arco di un paio di settimane, mia mamma, a giorni alterni, mi annuncia che la misteriosa ragazza - “una”, che nel gergo della genitrice era un identificativo più che sufficiente - aveva telefonato di nuovo. Via via anche un po’ incazzata, mia madre, intendo, perché non c’ero mai e toccava sempre a lei rispondere e che figura ci faceva, visto che non sapeva nemmeno dove fosse suo figlio e bla bla bla. Mamme. Finalmente alla sconosciuta riesco a dare un volto e un nome, come direbbero al telegiornale locale. Sto aspettando il pullman che mi riporterà a casa dopo le lezioni e mi sento chiamare. “Sono giorni che ti cerco”. Mi giro. Statura media, mora, capelli raccolti, fermati con una matita. Non bella, ma nemmeno brutta. Diciamo che i miei ormoni al galoppo non avrebbero rallentato la corsa. Soprattutto, mai vista prima. “Scusa?”. “Ti ho telefonato almeno 5 volte, anche ad orari diversi, e non sei mai a casa. Si può sapere dove vai tutto il giorno? Quando studi? Comunque io sono Antonella e volevo invitarti alla mia festa sabato sera. Se vuoi, puoi portare il tuo amico”. Chiude senza darmi possibilità di replica e raggiunge due ragazze che guardano la scena e ridono ad una decina di metri di distanza. Prima però mi dà l’indirizzo. Fondamentale, visto che fino a quel momento non avevo avuto il piacere. Il mio amico in questione, che aveva assistito al siparietto un po’ in disparte, si avvicina, fa un apprezzamento politicamente scorrettissimo e mi chiede a sua volta: chi è?. “Boh, si chiama Antonella. Comunque sabato siamo invitati alla sua festa”. “Dove?”. Glielo dico. “E come ci arriviamo, secondo te?” Ci andiamo in autostop, come del resto si faceva sempre nei fine settimana, prima di avere la patente, per spostarci dal nostro paese verso i centri della movida dell’epoca.
E qui inizia davvero la storia. Ci stiamo alternando all’autostop nel cazzeggio più totale quando vediamo la A112 di una persona conosciuta e che il buon senso ci suggerirebbe di evitare. Troppo tardi. Quello inchioda facendo imprecare gli avventori del bar dall’altro lato della strada e si ferma un bel pezzo più avanti, sbandando leggermente. Porca troia. Spero, anzi speriamo entrambi che la sua meta non coincida con la nostra, così da declinare l’offerta di passaggio. Invece, visto che non ha niente da fare, dice, si offre di accompagnarci. Riparte lasciando sull’asfalto un chilo di pneumatici. Nei venti minuti successivi confesso di aver vigliaccamente abiurato il materialismo storico di Carlo Marx, per abbracciare senza vergogna la religione cattolica, recitando, più o meno correttamente, le preghiere che da bambino aveva cercato di insegnarmi il buon don Melotti. Se Dio vuole, e qui direi che l’esclamazione ci sta bene, arriviamo. Il nostro uomo guarda l’ora e butta lì che intorno a mezzanotte dovrebbe ripassare. “Grazie, andiamo ad una festa e faremo sicuramente più tardi”. A meno di incontrare Aaron Kosminki, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jack lo Squartatore, per quella sera pensiamo di aver già dato.
Antonella, che ha un anno meno di me, scoprirò poi, ci accoglie sorridente ed euforica. La mia impressione, condivisa dagli ormoni di cui sopra, rimane inesorabilmente quella di qualche giorno prima. E agli ormoni, ahimè, non si comanda. Ma è oltre quella soglia che ci aspettano le vere sorprese della serata. La prima è che nella stanza principale della festa troviamo una ventina di ragazzini. L’età media è imbarazzante. E la musica lo è di conseguenza. Se non bastasse, a sorvegliare sulle mutande di tutti ci sono anche la sorella della padrona di casa e il marito. Quando li vede, il mio amico mi manda a fare in culo, nemmeno troppo velatamente. Se Dio vuole – e siamo a due: l’effetto del viaggio non si è evidentemente ancora esaurito - Il buffet è invitante e visto che ci siamo prendiamo posizione. “Puoi venire un attimo?” Antonella, con la quale ho dovuto ballare due lenti sotto lo sguardo attento dei parenti e quello divertito del mio amico, ormai fisso ai vassoi, mi prende per mano e mi guida verso la cucina. E’ in quel momento che, non so perché, probabilmente l’istinto, l’angelo custode, Carlo Marx, o tutti e tre insieme, ho una strana sensazione, come di disagio. Passando di fianco allo stronzo, che continua imperterrito ad abbuffarsi, ma che trova il tempo di dirmi: “non vorrai mica, spero?”, accompagnando il concetto con l’inequivocabile gesto corrispondente, riesco a ribattere: “massimo 5 minuti e torno”. Eiaculazione precoce? Fanculo. La cucina è una stanza abbastanza ampia. C’è addirittura un divano sul quale sono seduti la sorella di Antonella e il cognato. Lo guardo per la prima volta. E’ un uomo alto, con i baffi, un aspetto e un look antichi, nonostante a occhio non abbia più di 25-30 anni. Antonella mi lascia improvvisamente al centro e si mette alla mia destra, più o meno a metà tra il divano e il sottoscritto. La porta è alle mie spalle. Aperta. Dettaglio che avrà una sua importanza. Aspetto che il baffo mi chieda che busta voglio: la uno, la due o la tre. Invece mi saluta. Anche lui conosce il mio nome. Penso alle buste e mi vien da ridere. E in effetti quello che sta per andare in scena, io non lo so ancora, sarà a dir poco surreale. Intuisco che non è il caso di fare il buffone perché il baffo ha la postura di chi si appresta a fare un discorso importante. Anche se all’inizio non realizzo dove voglia andare a parare. Forse perché la busta l’ha scelta lui e comanda il gioco. In effetti la prende un po’ alla larga: dalla festa passa ad una concione sulla scuola, all’importanza dello studio, poi improvvisamente vira sulla famiglia e si commuove quasi parlando delle unioni solide, come la sua e quella della moglie. Per me, che oltretutto sono un fighetto del classico, quelli del baffo sono discorsi da bar, ma sorrido e annuisco ebete. La cosa divertente e preoccupante insieme è che il baffo sembra essere fiero della sua prolusione. Per non ridergli in faccia, pare brutto, faccio quello che faccio tuttora quando sono costretto ad una cosa di cui mi importa meno di zero. Tolgo l’audio. E aspetto che passi. Vedo le labbra muoversi sotto i baffi, le espressioni del viso, il modo di gesticolare. Guardo la sorella di Antonella che tiene costantemente gli occhi bassi. Per tutto il tempo, non ho idea quanto sia durato: probabilmente cinque minuti, ma avrebbero potuto essere 5 ore o 5 giorni, non ha aperto bocca. In effetti se ci penso non so che voce abbia. Forse è muta. Oppure si vergogna di quello che sta dicendo il marito. E questo sarebbe un punto a suo favore. Decido di riattivare l’audio, sperando abbia finito. Non ha finito. “Tu stai facendo il liceo classico, quindi dovrai andare per forza all’università: il tuo diploma, diciamolo, non vale niente”. Vorrei dissentire, prima di tutto perché non si dice facendo ma frequentando: l’italiano è importante. Ma, ahimè, il copione prevede che sia sempre lui a parlare. “La facoltà l’hai già scelta? Sai già se andrai a Milano o a Brescia?” Dico sì, ma non riesco ad aggiungere: filosofia. E col senno di poi sarebbe stato meglio. Un filosofo è poco più di un barbone, nessuno aspira a tirarselo in casa. Che il mio sogno sia da sempre fare il giornalista – e qui il verbo è più che indicato - lo tengo per me. Anche perché, chi ti conosce baffo? Cosa sono tutte queste domande? Non capisco. Ed è strano che non capisca, perché sono un ragazzino sveglio e intuitivo. Invece, evidentemente, in quella casa mi sto trasformando, o forse lo sono già, nel figlio scemo di Tarzan delle scimmie. Con tutto il rispetto per Tarzan. E anche per le scimmie. Sono bloccato al centro della stanza, il baffo non mi fa parlare e, soprattutto, non mi ha lasciato scegliere la busta, cosa che peraltro ho sempre sognato di fare. “Antonella fa segretaria d’azienda “: ancora, ma allora è un vizio. “Dopo il diploma verrà a lavorare nell’azienda del padre”. Scopro così che il padre ha l’aziendina, dove lavorano tutti, baffo compreso, il quale dà per scontato che io sappia di cosa si tratta. Non lo chiedo perché ho paura che apra un altro capitolo. “Nel frattempo tu puoi decidere se dedicarti solo allo studio o venire a dare una mano da noi: ti paghiamo naturalmente, perché anche se sei il fidanzato di Antonella, noi non sfruttiamo nessuno”. Alt. Fermi tutti. Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Lo ripeto a me stesso tre volte, anticipando di un paio d’anni l’urlo della vita di Nando Martellini. E anch’io sto per urlare: voi siete matti, ma matti tanto. Ho sedici anni, mi piace giocare a calcio, tra l’altro sono anche bravo, studiare, mi piacciono le ragazze (va beh, ho pensato fighe), in ogni caso Antonella, sorry, non rientra in nessuna di queste categorie. E poi la vedo stasera per la seconda volta. Non abbiamo neanche limonato, per dire. Valuto però che quest’ultimo concetto non solo c’entra nulla ma darebbe modo al baffo di intentare un processo alle intenzioni. Meglio evitare. Sento un rumore alle spalle. Il mio amico è appoggiato alla porta con un piatto in mano. Sorride. Ahhhh, allora è uno scherzo, penso. Siete dei bastardi. Comunque mi sento sollevato e verbalizzo il pensiero: “Ok è uno scherzo. Cazzo, mi stavo spaventando. Bravi. Beh adesso possiamo tornare di là. Mi è venuta sete”. No, non è uno scherzo. Il cognato si incazza pure e dice qualcosa sui pranzi della domenica e sul fatto che appena mi laureo e trovo un posto di lavoro, ci saremmo sposati. “Sposati chi, scusa?”: finalmente riprendo pienamente possesso delle mie facoltà mentali. “Tu e Antonella, di cosa abbiamo parlato finora?”. Mi giro di nuovo. Il mio amico non sorride più. Non so se è il neon ma mi sembra impallidito. Tiene il milionesimo tramezzino in mano e la bocca semiaperta. Questo è uno sciroccato. Sono tutti sciroccati. So solo che non devo contraddirlo perché chissà cosa potrebbe fare. E che devo pensare in fretta a come sganciarmi. Visto il prologo a questo punto mi aspetto che per lasciarmi andare mi faccia sottoscrivere qualcosa. Un impegno. Una lettera che verrà ceralaccata da un notaio e che mi legherà per sempre a questi pazzi scatenati. Dentro di me lo so che non è possibile. Ma mettetevi nei miei panni. Ho 16 anni. Sono uscito per andare ad una festa, libero e bello, quantomeno libero, e mi trovo fidanzato e promesso sposo a mia insaputa, anche qui anticipando di decenni eventi ben più gravi per il Paese. Concedete che non fossi preparato? In quel momento temo che nemmeno Carlo Marx possa aiutarmi. Mi viene in soccorso la sorte. Nella stanza da ballo si sentono delle voci e dei rumori. Il baffo scatta, urtando il mio amico, che posa il piatto e mi trascina letteralmente fuori. Antonella piange. La sorella mi guarda e lì capisco che se potesse verrebbe via con noi. Mi ritrovo per strada e iniziamo a correre. Ci fermiamo dopo un chilometro su una panchina seminascosta a riprendere fiato. Sia mai che il baffo venga a cercarci. Il mio socio mi chiede di spiegargli cosa cazzo è successo. Non si capacita. Lui. Figuratevi io. Mi racconta quello che ha sentito. Io la parte che non conosce. E’ tutto talmente assurdo che non riusciamo nemmeno a ridere. Per rientrare dobbiamo affidarci all’autostop. Apro la porta di casa ad un orario insolito per essere sabato sera. Ma va bene così. Non dimentichiamo che c’è sempre Aaron Konsminski a piede libero. Antonella l’ho poi intravista un paio di volte. Abbiamo evitato entrambi di incrociarci e non è stato difficile. L’ho incontrata dopo anni: passeggiava sul lungolago abbracciata ad un uomo più grande di lei. Mi ha sorriso senza salutare. Ho fatto altrettanto

lunedì 3 settembre 2018

La belva nel labirinto


Giuseppe Lombardi, detto il Pepp, da 40 anni il miglior idraulico di Lambrate, si prepara per una serata in balera, ma in mente ha un obiettivo che prescinde dal ballo. Anche Gabriel si prepara, come fa tutte le sere, a diventare Gabriela e ad andare in balera, ma anche il suo di obiettivo prescinde dalle danze. I due si incontrano e recitano la loro parte almeno fino a un certo punto. Quando l’idraulico già pregusta una notte di follie erotiche, lei gli sfila il portafoglio ...e se la dà a gambe. Lui prova a inseguila ma l’età e la forma fisica non sono dalla sua parte. Al Pepp non resta che appoggiarsi ad un’auto in sosta per riprendere fiato. All’interno c’è il cadavere di un uomo, ucciso con 4 colpi di pistola. E accanto al cadavere, scopriranno gli uomini del vicequestore Norberto Melis, c’è una carta, un arcano dei tarocchi, contrassegnato da due M e da un’annotazione che sembra una data. Ma quello dell’uomo non è il solo cadavere nell’auto. Nel bagagliaio c’è il corpo di una ragazza, uccisa dopo essere stata seviziata. Per il vicequestore della Mobile di Milano l’indagine si presenta da subito complicata, un’indagine più sociale e sociologica che di polizia. Di morti ammazzati ce ne saranno altri, complessivamente cinque: un giovane studente di famiglia bene con simpatie nazifasciste, due ragazze qualunque, quelle che la cronaca definirebbe acqua e sapone, un travestito e un prete di strada. Persone agli antipodi, senza alcun legame, con esistenze lontane anni luce. Perché dunque proprio loro? Cosa le lega una all’altra? Perché un legame ci deve essere per forza. Forse mai come stavolta bisognerebbe ricordare quello che disse Simenon: il delitto non conta, conta quello che accade o è accaduto nella testa di chi lo commette. Melis impiegherà oltre 3 mesi, da inizio giugno a fine settembre ‘87, per mettere insieme i tasselli necessari a identificare i responsabili, o meglio: il contesto allucinante che ha alimentato il crimine e dove i colpevoli sono probabilmente l’ultimo dei mali.
Hans Tuzzi ha una scrittura elegante, ricercata nelle citazioni e nei riferimenti letterari anche se mai esibita. Il commissario Norberto Melis è un uomo altrettanto raffinato, di buone letture, con un alto senso etico e della giustizia, pur non dedicandosi anima e corpo alla professione. Melis non è un eroe maledetto, con una vita sfasciata: ha una compagna, Fiorenza, altrettanto colta e alla sera gli capita di frequentare gli amici. Il protagonista dei gialli di Tuzzi esce cioè dai cliché: forse non è nemmeno bello e simpatico, o perlomeno non fa nulla per esserlo. Pensa molto, si aiuta con i classici e arriva a scrivere verità mai belle e spesso scomode. La belva nel labirinto è ambientato a Milano alla fine degli anni ‘80. Ma in realtà è senza tempo, perché parla di cattiveria, di odio per la diversità, di anaffettività. Sostanzialmente della banalità del male: perché basta solo un attimo di distrazione

sabato 1 settembre 2018

Così giocano le bestie giovani

La verità non si trova in natura, è un lavorato. Ma prima o poi viene sempre a galla. Anche dopo trent’anni. Così giocano le bestie giovani di Davide Longo è un noir “politico” che ci riporta indietro agli anni di piombo, tra terrorismo rosso e nero, segreti di Stato, rampolli di buona famiglia che giocano alla rivoluzione, prima di andare in banca a lavorare, e idealisti veri che ammazzano e si fanno ammazzare. Ma l’abbrivio della storia è datato 2008. Siamo nelle campagne t...orinesi. In un cantiere ferroviario vengono rinvenuti gli scheletri di una decina di persone, tutte ammazzate con un colpo alla nuca. Per rispondere ai quesiti che rimanda questa fossa comune viene chiamato il commissario Arcadipane. Il caso rimane però nelle sue mani soltanto una notte. Il tempo necessario ad una task force di arrivare sul posto con l’intento (il mandato?) di archiviare al più presto l’indagine facendo risalire i morti alla Seconda guerra mondiale. Arcadipane è in un periodo buio della sua vita, tra crisi personali e famigliari, ma non è stupido e tutta questa fretta lo insospettisce. Anche perché nella fossa trova il bottone di un paio di jeans, sicuramente non databile agli anni 40 del secolo scorso. Così come la placca di ferro, i cui segni sono stati riscontrati su un femore che il commissario ha sottratto e fatto analizzare, è sicuramente più recente rispetto all’epoca del conflitto bellico. Arcadipane decide di proseguire le indagini in autonomia. Chiede aiuto per questo ad una giovane poliziotta, ai margini della Mobile per il pessimo carattere, e al suo predecessore e mentore. L’ex commissario Corso Bramard intuisce subito che gli scheletri potrebbero essere collegati a un vecchio caso, che proprio lui aveva seguito quando era un giovane agente appena arrivato a Torino. Da qui in poi l’autore fa un lungo flashback che ci porta indietro nel tempo, in una Torino fumosa, fatta di giovani universitari idealisti, lotte politiche, attentati. Fino alla scoperta di un’antica verità, che non dico per non togliere il piacere della lettura. Davide Longo è bravo. Chi ama la bella scrittura, i periodi lunghi, l’attenzione all’aggettivazione, la cura nelle descrizioni, dei luoghi e dei sentimenti, apprezzerà molto questo thriller, che non dà alcun giudizio di parte sui fatti: solo il racconto delle persone e delle loro azioni.