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mercoledì 3 agosto 2016

La meraviglia della diversità


Claudia de Lillo, alias Elasti, mi piace. Elasti cura il blog Nonsolomamma e tiene una rubrica settimanale su D di Repubblica, il primo e, a volte, unico articolo che leggo dell’allegato del sabato. In uno degli ultimi pezzi parla di famiglia, partendo da una sua esperienza personale di figlia di genitori separati e di un fratello solo di padre. Fratello amato e negato, da bambina, per la mancanza di parole per giustificare una normalità spezzata e non più condivisa con gli amichetti. E lo fa con la consueta grazia e intelligenza. Chiude poi ragionando su come saranno o potrebbero essere le famiglie di domani. Ci sono due passaggi che riporto fedelmente perché sono molto belli, oltre a rispecchiare il mio pensiero.

Un giorno un’amica, madre, insieme alla sua compagna, di 4 figli mi disse: “La nostra specificità dovrebbe essere un’occasione per ampliare gli orizzonti di chi ci sta intorno”. Tuttavia spesso “chi esula dal modello dominante rappresenta un problema, non una ricchezza”.

Ignoro come saranno le famiglie di domani. Più che immaginazione ho desideri e auspici: vorrei che i figli dei miei figli non avessero nulla da nascondere. Vorrei che se avessero segreti, fossero tesori e non paure. Che domani la diversità possa essere considerata sempre un valore. Vorrei che un fratellastro, un cromosoma in più, due mamme, due papà, un colore diverso, la religione altrui, una lingua incomprensibile, riempissero il mondo di meraviglia, di curiosità e di nient’altro.

giovedì 23 giugno 2016

Antonio, che non voleva sapere


E’ giusto dire ad un malato: hai il cancro. O è meglio tacere, negare, mentire anche? Non credo ci sia una regola assoluta: dipende dalla storia e dall’emotività della persona in questione, dalla sua capacità di reggere e di reagire ad una battaglia durissima. A mio padre ho sempre taciuto la verità. Ho negato e mentito. Mi sono preso arbitrariamente la responsabilità di questa scelta, sopra di lui, di mia madre e di mia sorella. E anche oggi, a distanza di quasi 11 anni, non me ne pento. Sono assolutamente sicuro che papà sapesse. Tutti, in fondo, sanno. Se però non ne parlano apertamente o non affrontano mai l’argomento – e lui non l’ha mai fatto, se non all’inizio - probabilmente è perché  preferiscono non sapere, perché vogliono delegare ad altri il peso emotivo. L’ultima bugia gliel’ho raccontata il giorno che l’hanno trasferito dal centro ematologico, dove era ricoverato, all’hospice, dove avrebbe trascorso quelli che, purtroppo, sarebbero stati i suoi ultimi giorni. L’exitus mi era ben chiaro, me l’avevano detto i medici e io non ho mai creduto ai miracoli. Sai papà, qui hai finito il ciclo di terapie, adesso andiamo in una struttura riabilitativa e poi torni a casa. Ero sicuro che non mi avrebbe risposto, ma mi ero preparato a reggere il suo sguardo. L’intera giornata era poi trascorsa nel silenzio più assoluto. Nei giorni successivi, sarà stata la sospensione delle bombe di chemioterapia, sarà stata la tranquillità del posto, mio padre aveva riacquistato un po’ di forza e di colore. Tanto che aveva ripreso a parlare e sembrava quasi credere alla bugia del suo ritorno a casa. E anch’io avevo iniziato a farlo.

Oggi, 23 giugno, mio papà avrebbe compiuto 82 anni.

lunedì 6 giugno 2016

Questione di postura


In treno per Verona, come ogni mattina, conversavo con la mia amica libraia, quando è passato il controllore. Ha verificato i biglietti dei presenti, poi ha guardato noi e, sorridendo, ha detto: voi siete abbonati. Si, come fa a saperlo? Dalla postura. La famigliarità con i luoghi, qualsiasi essi siano, la si vede da come uno sta, si muove, occupa lo spazio, ne diventa in un certo senso padrone, trasmettendo questa sicurezza alle persone che lo circondano. Accade, ed è naturale, nella propria abitazione, in un paese o in una città che si conoscono, ma anche in auto, o in treno, appunto. Dopo dieci anni di pendolarismo quotidiano su rotaia posso dire di aver affinato la capacità di osservazione e di catalogazione dei clienti trenitalia da come si muovono. E dalla postura. Chi ha consuetudine con il mezzo lo si vede già sul marciapiede: guarda il monitor e soprattutto sta attento gli annunci. Che da qualche anno non si limitano solo a informare dei ritardi e del binario di arrivo di un treno, ma indicano anche la posizione delle carrozze: dalla 7 alla 9 testa treno, dalla 4 alla 6 centro treno, dalla 1 alla 3 coda treno. Questo consente al passeggero di orientarsi e di attendere più o meno in prossimità della carrozza di pertinenza, che si conosce perché il suo numero, così come quello del posto a sedere, sono scritti sul biglietto. Le stazioni più evolute hanno addirittura monitor che segnalano dove le carrozze si fermeranno. Il buon senso suggerirebbe che se uno non conosce le regole, o le conosce poco, dovrebbe a maggior ragione stare attento a tutte le indicazioni, gli stimoli, gli input che gli vengono dati. Non è così. Succede invece che una persona, all'apparenza di intelligenza normale, in stazione, e poi sul treno, si trasforma in un mentecatto. Quando arriva al binario si posiziona a bibone, indifferente a tutto quello che gli (o le: più gli che le a dir la verità) accade accanto. E soprattutto ha una capacità imbarazzante di posizionare se stesso e le valigie dove sicuramente romperanno i coglioni. Ora, ci sono regole non scritte anche sui binari, come nelle corsie del supermercato, dove è facile distinguere gli habitué della spesa e chi al contrario affronta per la prima volta i gironi danteschi della grande distribuzione: solitamente sono quelli che girano contromano con i carrelli, si fermano all’improvviso cambiando direzione, lasciano il suddetto carrello in mezzo alle corsie mentre si aggirano in stato confusionale alla ricerca del viakal, per dire, questuando a caso un aiuto mentre contemporaneamente cercano di chiamare la moglie al telefono, con l’unico risultato di farsi cazziare, a volte in viva voce. Quando sono in branco i viaggiatori poco viaggianti raggiungono livelli imbarazzanti. Combattono l'ansia raccontando puttanate, aneddoti da oratorio, a voce alta, immancabilmente in sincrono quasi perfetto con gli annunci. E siccome tu sai già come andrà a finire ti vien voglia di urlare: ma chiudi quella bocca di merda e ascolta. Quando poi arriva il treno, leggi loro in faccia il panico. La carrozza 7? chiede il capobranco a chi transita in quel momento nel suo campo visivo, fosse anche un cinese mandarino o la signora con cane (e viceversa). Lo so ma non te lo dico, coglione: la prossima volta stai attento invece di fare il blagor. L’apertura delle porte è l’accesso ad un'altra dimensione. Regola vuole, di fisica più che di bon ton, che prima di salire si deve permettere agli altri passeggeri di scendere. Dopo essere stato bloccato con già il piede sul predellino, il nostro eroe difende la posizione con il corpo e invita il seguito a posizionarsi di conseguenza, valigie comprese. Che si fa passare una volta guadagnato il disbrigo tra le carrozze, impedendo la salita agli altri passeggeri. E 10 volte su 10 quella battezzata non è nemmeno la sua carrozza. Qui inizia la fase 2, la ricerca del posto. (To be continued)


lunedì 30 maggio 2016

Proud


La vita, le scelte, che siano intellettuali o molto più banalmente logistiche - basta per esempio vivere in un’altra città - cambiano i rapporti. La quotidianità, che è fatta di contatti anche fisici, di affetto e di scontro, finisce per annacquarsi  in incontri periodici o risolversi in telefonate quasi di cortesia: ciao come stai, cosa hai fatto oggi, hai mangiato, sei andato dal medico. Non so se sia giusto, e se sia giusto chiederselo. A volte è la vita, con tutti i suoi annessi e connessi, a chiederti conto e puoi ritenerti già fortunato se riesci a seguirne il corso che ti sei scelto. L’importante, in fondo, è che tutti stiano bene. Certo la lontananza fa perdere tanti aspetti, tanti piccoli gesti, che se non stupiscono quando a posteriori te li raccontano, perché rientrano nel carattere, nel modo di stare al mondo di una persona, nondimeno stringono il cuore, addolciscono il ricordo, danno il senso di un’appartenenza, ideale e di valori. Mia sorella ed io non abbiamo avuto figli e i miei genitori hanno finito per fare i nonni di tutti i bambini del condominio, bambini extracomunitari peraltro ( poi spiego il senso dell’avverbio), perché la crisi dell’industria tessile sulla quale si reggeva l’economia del paese, aveva finito per far emigrare tante famiglie, accogliendo negli appartamenti liberi i rifugiati delle guerre nell’ex jugoslavia e in albania. Il peraltro è riferito al fatto che mi son sempre chiesto (e  lo stesso faceva anche mio padre) come questi bambini, e i loro genitori, riuscissero a interloquire con mia madre, che parla quasi esclusivamente dialetto. Ma forse la risposta è molto più semplice di quanto si possa pensare: la comprensione viaggia su canali dove la verbalizzazione è una delle possibilità e in alcuni casi nemmeno la più importante o la prioritaria. Resta il fatto che questi bambini, e queste donne, hanno imparato i rudimenti dell’italiano, lingua non certo facile, dialogando con mia madre. E questo ha del miracoloso. Che i miei si fossero mostrati solidali con queste persone non mi ha stupito, come dice Alda Merini, “… l’amore della povera gente brilla più di una qualsiasi filosofia. Un povero ti dà tutto e non ti rinfaccia mai la tua vigliaccheria”. Il piatto di minestra, la verdura dell’orto, la legna per la stufa, i vestitini per i bambini e i regali a Natale o a Santa Lucia. Non sapevo però, me l’ha raccontato proprio mia mamma poco tempo fa,  che mio padre per un periodo si è alzato alle 4 del mattino per accompagnare due ragazzi kossovari che avevano trovato lavoro in un cantiere a 20 chilometri. Non avevano l’auto e papà pensava che quel posto fosse un’opportunità che non potevano lasciarsi scappare, per mantenere la famiglia, per rialzare la testa, per rifarsi una vita in un paese lontano e non sempre solidale. E lui, papà, non ha esitato. Accettatelo quel lavoro, vi porto io al cantiere, almeno finché non trovate un’altra soluzione.

sabato 21 maggio 2016

Riccardo ed Ezetelia

Il soldato tedesco addetto alla stazione radiotrasmittente le dichiarò il suo amore, ma Ezetelia disse di no.  Del resto come avrebbe potuto sposare un nazista, lei che nascondeva i partigiani in casa e che aveva ancora negli occhi il carro con decine di corpi trucidati passare per l'unica strada del paese? Alcuni anni dopo la fine della guerra Ezetelia sposò invece Riccardo, tornato miracolosamente dall'inferno di ghiaccio della Russia. Da allora sono sempre rimasti a vivere in provincia di Vicenza. Hanno avuto una bella vita, Ezetelia e Riccardo. Lei casalinga, lui operaio in un lanificio fino alla pensione. Quattro figli e un buon numero di nipoti. D'accordo su tutto, meno che su una cosa. Ezetelia era sempre pronta a raccontare l'orrore della guerra, Riccardo no: da quando aveva rimesso piede in Patria non ne aveva più voluto sapere. L'unica a rompere questo muro di silenzio e dolore, una decina d'anni fa, è stata una nipote, insegnante di una scuola media. E Riccardo ha iniziato a parlare e i ragazzi ad ascoltare, imparare e commuoversi. Alcune settimane fa Riccardo ed Ezetelia hanno festeggiato i 65 anni di amore. A distanza di qualche giorno Riccardo è stato ricoverato in ospedale. Era lì quando Ezetelia è mancata. Nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo. Riccardo non sapeva, ma è morto il pomeriggio dello stesso giorno.
E' una piccola storia di provincia che ho letto stamattina su una vecchia copia di un settimanale e mi ha commosso. L'ho solo scritta con parole mie.

venerdì 20 maggio 2016

Marco, il disobbediente


Marco Pannella ha diviso molto, perché ha quasi sempre sollevato argomenti sensibili che mettevano in discussione il Truman show sceneggiato da chi deteneva il potere. Un disobbediente, come titola il Manifesto, con il quale personalmente non sono sempre stato d’accordo ma a cui va dato il merito di aver promosso battaglie dirimenti e guidato trasformazioni storiche di questa società. Mi piace ricordarlo con le parole che Luciana Castellina ha utilizzato per salutarlo nell’ultima parte del suo pezzo di oggi



(…) una vita assieme e però mai d’accordo. Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco.

Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.

Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto.

La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.

Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.

Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.

Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto.



 

giovedì 28 aprile 2016

Ci chiamavamo compagni

Il 28 aprile 1971 usciva in edicola Il Manifesto. Per celebrare questi 45 anni copio il primo editoriale di Luigi Pintor che spiega perché allora aveva senso un quotidiano comunista, come veniva rimarcato fieramente in testata. La prosa oggi può fare un po' sorridere, un po' meno l'analisi politica di un mondo che è sicuramente cambiato in superficie, ma che ha mantenuto se non allargato le diseguaglianze, mettendo all’angolo la speranza e pregiudicando il futuro.
L’ultimo articolo di Pintor si chiudeva invece così: “Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste”,
Luigi Pintor morirà poco dopo, il 17 maggio 2003. Sono passati 13 anni da allora. Siamo ancora fermi lì.


Un giornale comunista


Luigi Pintor

28 aprile 1971
Molti ci hanno domandato in queste settimane a volte con simpatia, altre volte con astio: ma perché fate un giornale quotidiano? Come pensate di riuscirci? E a che cosa potrà servire?
Una nostra risposta a queste domande, ormai, sarebbe inutile e pedante. Una risposta seria potrà venire solo dalla vita stessa di queste quattro pagine, che da oggi non sono più un’idea ma una realtà esposta al giudizio di tutti.
Ma le intenzioni che ci hanno mosso, ad ogni modo, non sono un mistero.
Sono le stesse intenzioni che ci hanno spinto, trenta anni fa, a rompere con la tradizione borghese che ci aveva regalato il fascismo e la guerra. Sono le stesse che ci hanno animato nella lunga milizia nel partito e nella stampa comunista per la rivoluzione italiana.
Sono le stesse che ci hanno fatto vedere nella ribellione operaia e studentesca di questi anni una nuova occasione storica per l’avanzata del comunismo.
C’è chi ama la società in cui viviamo perché è al decimo posto nella produzione industriale mondiale.
Per noi, è una società impastata di sfruttamento e di diseguaglianza, di cui sono vittime milioni di operai di fabbrica, le popolazioni meridionali prive di speranza, le giovani generazioni senza avvenire.
C’è chi giudica democratico lo stato che abbiamo, solo perché non è fascista e non ha cancellato le libertà formali.
Per noi, è uno stato fondato su leggi e strutture repressive dove polizia e istituzioni, scuola e cultura ufficiale, forze politiche e maggioranze al potere, sono modellate per colpire o ingannare gli sfruttati e gli esclusi.
O ancora c’è chi vive a suo agio nel mondo contemporaneo, giudicandolo passabilmente pacifico.
Per noi è invece un mondo odiosamente segnato dal genocidio imperialista, che solo un rilancio del processo rivoluzionario mondiale può mutare.
Se dunque questo giornale dovesse soltanto servire a una protesta, a una battaglia ideale contro l’ordine di cose esistente, già questa non sarebbe una fatica sprecata. In fondo la stampa operaia ha sempre avuto prima di tutto questa funzione: di stabilire una linea di demarcazione, con animo che Gramsci chiamava partigiano, tra chi è contro l’ordine costituito e chi in esso si adagia.
Ma questo non potrebbe bastare.
Il quadro politico che abbiamo oggi di fronte esige molto più di un rifiuto.
E’ aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio per un intero periodo storico. Se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo, ora, questo giornale.
Tutti ci accorgiamo, ogni giorno, di nuovi pericoli incombenti, di cui la ripresa del teppismo fascista è solo un sintomo. Padroni e governo Agnelli e Colombo, democristiani e presunti socialisti, moltiplicano gli sforzi per chiudere in gabbia il movimento delle masse, intrecciando repressione ed elemosine.
L’imperialismo americano regola il nostro destino, secondo le leggi della divisione del mondo in sfere di influenza.
Il quadro europeo che ci sta attorno è oscurato, come mai nel dopoguerra, dall’involuzione delle società dell’est e dall’azione controrivoluzionaria dei gruppi che vi esercitano il potere.
E sulle grandi organizzazioni del movimento operaio pesa l’antica illusione del riformismo, l’illusione maledetta che cinquant’anni fa condusse a una tragica sconfitta.
Ma anche ci accorgiamo ogni giorno delle grandi possibilità di riscossa esistenti.
Si è da poco celebrata la ricorrenza di una gloriosa insurrezione armata che non ebbe solo una ispirazione antifascista, ma un’ispirazione anticapitalista e rivoluzionaria che ha formato la nostra generazione ed è tuttora viva nella coscienza di grandi masse.
Abbiamo alle spalle un decennio straordinario di offensiva operaia e di rivolta giovanile, che ha dimostrato come le fortezze dell’occidente possono essere prese d’assalto e scosse nelle fondamenta. Ancora oggi duecentomila operai del più grande complesso produttivo nazionale riscendono in lotta contro il vero nemico, contro l’organizzazione capitalistica del lavoro e del consumo. Su scala mondiale, lo scontro di classe non cede il passo né alla ferocia della guerra imperialista né alle insidie della diplomazia delle grandi potenze, e anzi ritrova nuovo alimento nella crescita della rivoluzione cinese.
In questa situazione, noi pensiamo che l’orientamento delle grandi organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia, e per un altro verso i limiti e le divisioni dei gruppi della sinistra, non ridanno la forza necessaria a una prospettiva socialista, e neppure lasciano sperare in un esito vittorioso dello scontro in atto.
Siamo convinti che c’è bisogno e urgenza di una forza rivoluzionaria rinnovata, di un nuovo schieramento, di una nuova unità della sinistra di classe, di un nuovo orientamento strategico complessivo.
Pensiamo che solo per questa via sarà possibile mettere a frutto il patrimonio che le esperienze del passato e del presente hanno accumulato. Perciò ci siamo costituiti in gruppo politico, perciò vogliamo dar vita – con tutte le forze disponibili ma anche con le sole nostre forze – a un movimento politico organizzato come tappa di un processo più generale.
Questo è il nostro programma, e non ci sfiora l’idea che un foglio stampato possa supplire a questo lavoro di costruzione politica.
Ma se questo giornale potrà favorire e accelerare un tale lavoro, offrire uno strumento di conoscenza, di intervento, di mobilitazione, segnare una presenza e stabilire un punto fermo già in questa fase cruciale dello scontro di classe, allora la sua ragione d’essere e la sua verità saranno chiare.
Questo è tutto.
Ed è qualcosa che appare a noi così essenziale che nessun limite, nessun ostacolo e nessun rischio ci è sembrato proibitivo.
Perciò usciamo con solo quattro pagine, senza null’altro che un notiziario politico, senza abbellimenti o manipolazioni, nella persuasione che uno sforzo di semplicità e di chiarezza può valere più di tutto il resto.
Perciò usciamo senza altro denaro che quello che ci è venuto e ci verrà dai compagni e dai lettori, dai quali interamente dipende la vita o la morte di questa impresa.
Perciò ci accontentiamo di forze limitate e inesperte, ma fino in fondo disinteressate e impegnate, scontando difetti e lacune certe.
In fin dei conti, non ci affidiamo ad altro che a un lavoro collettivo: a una passione militante: a ciò che molti chiamano utopia estremismo e noi fiducia nelle masse e tranquilla coscienza: al sostegno di chiunque riconoscerà in queste pagine un impegno comunista e questo impegno vorrà condividere.

venerdì 15 aprile 2016

Nello

Si chiamava Conelio, ma per tutti era Nello. Era un omone alto e grosso che fino alla fine prematura dei suoi giorni è stato considerato un personaggio, diciamo così, stravagante. Quando l’ho conosciuto io poteva avere sì e no 35 anni, viveva con i genitori e passava il suo tempo camminando su è giù per l’allora statale che tagliava in due l’abitato. Mai sul marciapiede, sempre sul ciglio della strada. Ogni tanto, nel suo girovagare, si fermava a guardare noi ragazzi giocare a calcio, senza mai dire nulla. Quindi riprendeva la sua marcia, strofinandosi le grandi mani. All’inizio devo dire che Nello un po’ di timore lo incuteva, poi è diventato una presenza normale. Certo noi ragazzi un po’ si rideva, ma mai con cattiveria. Cornelio, l’ho scoperto poi da adulto, era un ragazzo normale, almeno fino al ginnasio, dopodiché è probabilmente caduto in depressione. Ed è diventato Nello, con le sue stranezze, nella sua solitudine. Nel corso degli anni non ha mai modificato di molto le sue abitudini. Al mattino andava a comprare il pane, o meglio: entrava dal panettiere che nel frattempo gli aveva già preparato il sacchetto e lo ritirava, senza fare alcuna coda. Poi macinava chilometri. Lo potevi trovare ovunque. Mio padre, che difetti ne aveva ma non raccontava balle, mi disse un giorno di averlo visto alla periferia di Brescia che risaliva la strada e di essersi fermato per offrirgli un passaggio in auto. Nonostante l’insistenza Nello aveva declinato l’invito. Faccio due passi. Da  Brescia il nostro paese dista 60 chilometri.

All’epoca il punto di ritrovo degli amici di sempre, studenti sfaccendati come il sottoscritto o lavoratori come nella maggioranza, era il bar del  centro sportivo. Pierangelo era vicino di casa di Nello e quell’uomo sempre solo e silenzioso lo incuriosiva. Quando, soprattutto d’estate, arrivava al centro e noi si era lì sotto l’ombrellone a rinfrescarci e a discutere di calcio, di tennis, o di fighe, argomenti di cui avevamo, chi più chi meno, una libera docenza, Pierangelo lo invitava ad unirsi, gli chiedeva se voleva bere qualcosa. Nello declinava gentilmente, faceva il solito giro e ripartiva per nessuna meta. Ad un certo punto l’abbiamo visto fumare. Un fumo compulsivo: una sigaretta via l’altra, dalla mattina alla sera, la causa poi della sua morte a nemmeno 60 anni.  Un giorno avvenne l’inimmaginabile. Non l’avevamo nemmeno visto arrivare, impegnati com’eravamo nella nostra prolusione giornaliera di schemi, tattica e, logicamente, fighe: Pierangelo, hai una sigaretta. Silenzio. 5,4,3,2,1. Ha parlato. Certo. Ecco. Anzi, tieni il pacchetto, tanto ne ho un altro. E mi offriresti anche un caffettino? Un caffè per Nello. Da quel giorno la sigaretta e il caffè a Nello sono diventati un rito. Non si è però mai seduto con noi. All’inizio accettava l’offerta solo da Pierangelo, ben presto la necessità della nicotina l’avrebbe costretto a chiedere anche ad altri. In caso di rifiuto, e mi stringeva il cuore quelle volte che mi capitava di assistere, non insisteva: semplicemente si girava e se ne andava.

Nello è stata la prima persona ad entrare nella nuova biblioteca che io e altri due amici avevamo riorganizzato e riaperto in paese. Non so come avesse fatto o scoprirlo, perché non c’era insegna, non era stata fatta alcuna pubblicità se non un passaparola, non c’era stata inaugurazione, l'ingresso non era sulla via principale. Alle 15 di un giorno qualsiasi ho riaperto la porta dopo un lavoro certosino di ricatalogazione e alle 15.05 il primo, ed unico, ad entrare quel giorno è stato Nello. Ha osservato uno per uno gli scaffali dell’unica stanza, ha preso un libro e, dandomi le spalle, ha iniziato a leggerlo. Ho lasciato passare qualche minuto. Se lo vuoi leggere con calma lo puoi portare a casa. Quello o un altro, come vuoi, sono qui apposta. Nello, senza nemmeno guardarmi, mi ha detto una cosa che a distanza di anni mi commuove ancora: anch’io posso prenderlo? Anch'io posso prenderlo. Certo. Anzi sei il primo della nuova gestione e per me è un onore. Non gli ho fatto compilare la scheda, perché sono sicuro che avrebbe rimesso il libro a posto. L’ho fatto io. Questo rimane uno dei ricordi più belli che ho del mio paese.

giovedì 31 marzo 2016

Nonni


I nonni della casa di riposo hanno sempre gli occhi bassi. Non penso lo facciano perché per la maggior parte sono costretti in carrozzina, e la loro prospettiva visiva ne risulta condizionata. Sono più propenso a credere che sia dignità la loro: la volontà di tenere per sé la tristezza e il peso di una sconfitta, ancora più della consapevolezza di vivere un ultimo tempo, scandito dalla monotonia di gesti sempre uguali e da un’ineluttabilità maligna e perversa, che ogni giorno bussa alla porta per portarsi via qualcuno, il compagno o il vicino di stanza. Hanno quasi tutti figli questi nonni, che hanno cresciuto probabilmente con sacrificio. Hanno nipoti, che spesso hanno accudito meglio di quanto hanno fatto con i figli, e al posto loro. Figli e nipoti a cui hanno voluto e continuano a voler bene. Lo si legge negli sguardi di quei pochi che hanno il piacere di una visita non di cortesia.  A volte mi trovo a incrociare qualcuno di questi figli e nipoti e a sentire le conversazioni, meglio: ne ascolto i silenzi. E’doloroso pensare di non aver nulla da dire ad un genitore, ad un nonno, non avere un argomento che possa fargli dimenticare per un’ora la violenza dell’abbandono. Vergogna? E’ il minimo che possa capitare. Del resto ognuno alla fine deve fare i conti con la propria coscienza. Di una cosa sono sicuro. Tutti  questi parenti non sapranno mai cosa si stanno perdendo.

sabato 19 marzo 2016

Auguri papà


Durante i primi mesi della sua malattia ci vedevamo con mio padre almeno una volta alla settimana. Mia sorella lo accompagnava in ospedale ed io passavo del tempo con lui nella sala d’aspetto del Day Hospital, in attesa che venisse visto dal medico. L’appuntamento era tassativamente per tutti i pazienti alle 7.30 per il prelievo del sangue. Dopodichè, il passaggio in ambulatorio, con il verdetto sul fixing dei globuli bianchi e la chiacchiera con il dottore, veniva stabilito in base a criteri rigidi: prima chi doveva essere sottoposto a chemioterapia, poi le situazioni più critiche, a valle tutti gli altri. Questo significava che se quella settimana eri considerato alla stregua di un codice bianco potevi stare ad aspettare il tuo turno anche fino alle 14. Un sollievo, in senso assoluto, una passione dover stare più di 6 ore seduti su sedie di plastica. Quel periodo rientra comunque tra i ricordi più piacevoli. Papà tutto sommato non stava malissimo, sembrava che dopo una prima fase critica, i medici avessero finalmente trovato la cura giusta: un vecchio chemioterapico orale che non solo gli aveva stabilizzato il numero dei globuli bianchi, ma gli aveva ridato fiato e appetito. Il cammino, gli era stato detto dal primario, sarebbe stato lungo. In ogni caso non c’era da temere: sarebbe tornato ad una vita accettabile. Di più, nessuno poteva dire di cosa sarebbe morto, perché tutti si muore prima o poi: sicuramente però non di quella malattia che aveva in corpo e che alla prima diagnosi era stata identificata come una mastocitosi. Una bella iniezione di fiducia, no? Di quel periodo ricordo le chiacchierate e il suo sorriso quando arrivavo.  Riponeva gli occhiali, chiudeva il giornale e iniziava a parlare. Parlava dell’ultimo libro letto, del suo orto, sempre con molto orgoglio, e delle bocce, la passione di un tempo.  Era capace di raccontarti partite, tornei interi, accosto dopo accosto, spigandoti la scelta tattica di ogni singola giocata, quelle degli avversari di turno, in un crescendo epico anche fisico e gestuale. Molti di quegli aneddoti li avevo già sentiti, a volte con le stesse parole. In quei momenti però non si ricordava che era in ospedale. E soprattutto del perché era lì.
Auguri papà. Sono passati più di dieci anni da quando te ne sei andato ma non passa giorno senza pensarti.


venerdì 11 marzo 2016

Il campo della chiesolina


Negli anni ‘60 se nascevi nella periferia del mondo non avevi alternative: o giocavi bene a pallone o non eri nessuno. E io, fortunatamente, a pallone giocavo bene. Al campo di fianco alla chiesetta di San Filippo, patrono del paese, che noi monelli, chissà poi perché, chiamavamo chiesolina, di solito ero tra i due che facevano le squadre, o comunque ero sempre la prima scelta di chi vinceva il bim bum bam. Diciamo che gli anni tra il 63 e il 66 sono stati prolifici di ragazzini che ci sapevano fare con il fobal e un paio di noi sono anche finiti in serie A. Comunque non è questo il tema del post. Il tema è il campetto dell’oratorio. Campo a 7 (a stare larghi), dove noi passavamo interi pomeriggi in partite di minimo 2 ore, esclusi i supplementari, fino al "chi segna questo vince", inventandoci sfide intestine tra contrada di sopra e contrada di sotto, quando non eravamo impegnati a difendere con orgoglio l’onore del paese contro i coetanei dei centri limitrofi, a cui ricambiavamo poi la visita a qualche giorno di distanza. Trasferta rigorosamente in bicicletta. Gli accordi su giorno e ora degli incontri venivano presi al telefono da chi all’epoca aveva la fortuna di avere l’apparecchio in casa. Per l’occasione segnavamo anche il campo con la calce, recuperata da un cantiere vicino e apparecchiavamo la porta con la segatura che, già vestiti con le scarpe bullonate, andavamo a prendere con una carriola, sempre del cantiere, nella segheria del padre di uno di noi. Al campo non c’erano spogliatoi a disposizione, quindi si arrivava da casa già in tenuta da calcio. Che poi la tenuta da calcio consisteva in una maglietta più o meno dello stesso colore e i calzoncini, quelli che la mamma non ti aveva messo a lavare nel frattempo. I due lati lunghi del campo erano delimitati, da una parte da un muro a secco e da una rete di un paio di metri che si affacciava sulla via che portava alla parte più vecchia del paese, la contrada alta. Dal lato opposto da un altro muro e da una rete che separava il rettangolo di gioco dall’orto della caserma dei carabinieri e dal cortile di un’altra casa semi abbandonata. In entrambi i casi lo spazio tra il muro e la riga del fallo laterale era largo poco più di un paio di scarpe 42. Uno dei lati corti era protetto da una rete abbastanza alta ma non sufficiente per impedire ad alcuni palloni di andare a finire nella casa dell’invalido (ne ho già parlato in un post passato) e da lì scomparire, malgrado le suppliche e le scuse, o venire restituiti bucati. Di fianco alla casa dell’invalido c’era la mia scuola elementare. L’altro lato corto si apriva invece direttamente sulla facciata di due case: al primo piano di una c'era il bar della signora Rara, l’altra era un casermone abitato solo al 5° e ultimo, ma comunque sempre a rischio vetri se la palla sorvolaba la traversa, come dicevano i cronisti di Tutto il calcio minuto per minuto. Già allora, rispetto ai campi degli altri paesi, era una cosa inguardabile, senza tanto senso. Ma era il nostro campo, il nostro San Siro, l’Olimpico, dove, fieri, non permettevamo a nessuno di venire a vincere. La cosa che mi ricordo di più di quelle sfide era il clima. Cessavano le rivalità tra contrade e nel Cogno giocavano quelli più bravi, che erano riconosciuti da tutti, senza polemiche. Il campo era la mia vera casa, sin dal mattino. Dalla prima alla quinta, in qualsiasi stagione, con qualsiasi clima, prima di entrare alle 8 si tiravano due calci al pallone che tenevamo gelosamente in classe e all’intervallo delle 10.30 si organizzava la partita. A mezzogiorno suonava la campana e all’una la maggior parte di noi era già al campo della chiesolina pronta per il consueto pomeriggio di calcio. Nell’attesa del numero sufficiente si faceva una partita a biglie in uno degli angoli o si scambiavano le figurine dei calciatori. Oggi quel campo non c’è più. Al suo posto han costruito due villette. La caserma dei carabinieri è diventata un piccolo condominio. Così la scuola elementare. Il bar della Rara è chiuso da tempo. La casa dell’invalido invece è sempre lì. Senza più l’invalido. L’ho scoperto di recente perché al paese vado solo a salutare mia madre e non mi è più capitato di fare a piedi i percorsi della mia infanzia. Non so come dire, ma ho provato un dolore quasi fisico, la tristezza di una perdita. Un pezzo non banale della mia storia era stato cancellato per sempre. La maggioranza degli abitanti di oggi il campo della chiesolina, la caserma dei carabinieri, le scuole elementari non li ha mai visti. Del bar della Rara e dell’invalido non hanno probabilmente mai sentito parlare. Dai facciamo una partita. Chi fa le squadre? Bim bum bam. Chi segna questo vince.

sabato 30 gennaio 2016

Le parole sono importanti

Le parole sono importanti e bisognerebbe pensare a quello che si dice, al dolore che si può procurare con i propri pregiudizi, gli egoismi, le chiusure becere al dialogo, al confronto delle idee, semplicemente perché ci si arroga il diritto di accomodarsi sempre dalla parte del giusto, per potere o religione. Ricopio Michele Serra perchè quello che scrive sull'argomento mi sembra meraviglioso.


"Per avere definito "feccia" Carlo Giuliani, il ragazzo di Genova ucciso da un suo coetaneo in divisa mentre lanciava un estintore contro un gippone dei carabinieri, un ex senatore di Alleanza nazionale è stato condannato a congruo risarcimento. È una buona notizia. Delle proprie parole bisogna essere responsabili: specie di quelle che versano acido sul dolore altrui. Giuliani non era un criminale né un rifiuto della società (come il termine "feccia" vuole intendere). Era un ragazzo incazzato per l'andazzo delle cose, e incazzarsi per l'andazzo delle cose è sovente una qualità tipica dell'essere un ragazzo. Se in tanti hanno chinato il capo di fronte alla sua morte, è perché in tanti non hanno dimenticato di avere avuto vent'anni. Perfino un adulto di estrema destra, come la persona condannata ieri, dovrebbe essere nelle condizioni (umane ben prima che politiche) di capirlo. Né feccia né eroe, Giuliani è stato spesso trattato come un farabutto che se l'è cercata o come un modello da emulare. Credo che siano entrambe distorsioni puerili che fanno torto alla sua vita e alla sua morte. Non si lanciano estintori contro i gipponi; non si spara ai manifestanti. Si tratta di due torti (il secondo più grave del primo) ma sono stati trattati come due ragioni per pura cecità politica. Se si dovesse piangere solo per gli eroi, avremmo gli occhi quasi sempre asciutti".

mercoledì 13 gennaio 2016

Mia bu du (2)


Claudio era il più bravo. Infatti arrivava sempre con soltanto una biglia in tasca. E se malauguratamente capitava che la perdesse se ne faceva prestare un’altra da uno di noi e immancabilmente iniziava la raccolta. In verità capitava raramente, non solo che perdesse ma anche che qualcuno fosse disposto a confrontarsi con lui. Inutile dire che io non mi tiravo mai indietro: vedere giocare Claudio, che era un po’ più grande di me e di tutti i miei sodali delle biglie (o cicche, nell’idioma autoctono) era uno spettacolo. In ogni caso delle biglie perse mi sarei rifatto in seguito con i miei pari. Poi, vuoi mettere vincere una biglia a Claudio: diventavi l’eroe di giornata e quella biglia, che era stata nelle mani del campione del me paes, era un trofeo da esibire e da utilizzare nelle partite successive, per sfruttarne la magia. Ognuno di noi aveva una biglia preferita, con la quale giocava: in caso di perdita consegnava all’avversario una di quelle di scorta che teneva in tasca. Ogni tanto qualcuno arrivava con la marmorina, la regina delle biglie: bianca, con sfumature di colore, che logicamente non veniva mai messa in palio dal proprietario, almeno fino a quando rimaneva a secco. Solo allora, a fronte di minimo 10 ciccate, in caso logicamente di partita testa a testa, la mitica marmorina poteva passare di mano. La mia biglia portafortuna aveva sfumature arancioni e me la son sempre tenuta, anche perché non faceva gola a nessuno. Il campo di gioco preferito era ai margini del piazzale della grande fabbrica dove lavoravano tutti i nostri genitori, poco prima del canale che scorreva a fianco della parete sud del cotonifico e degli orti, a disposizione dei residenti nelle case operaie, dove sempre i nostri genitori coltivavano la verdura e allevavano galline e conigli. Approfittando di una riasfaltatura avevamo scavato una piccola buca che, come dicevo nella puntata precedente, rappresentava il cuore del gioco, l’abbrivio di tutto, in un certo senso metafora della vita, ma all’epoca non arrivavo a tanto. E fortunatamente questo potrebbe rappresentare un’attenuante. Quella era la buca per antonomasia. A cicche si giocava lì. Il campo principale, il Maracanà, il Bernabeu delle biglie era il piazzale dell’Olcese. Lì venivano i bambini da tutte le contrade, persino dall’estremo Nord, dalla località Prada, terra di nessuno tra i paesi di Cogno e di Cividate. Arrivavano in bici e comunque giocavano sempre fuori casa. I padroni del campo eravamo noi delle case operaie. E Claudio era uno dei nostri.

(Continua)

venerdì 8 gennaio 2016

Libri letti nel 2015

Libri che ho letto nel 2015 e che mi sento di consigliare. Di alcuni ho anche scritto una breve recensione in post precedenti.


Gabriele Polo: Il mese più lungo
Gianluca Morozzi: L'età dell'oro; L'amore ai tempi del telefono fisso
Giorgio Fontana: Per legge superiore
Antonio Manzini: Non è stagione; Era di maggio
Alessia Gazzola: Una lunga estate crudele
Stefano Benni: Le beatrici
Pierre Lemaitre: Irene; Alex; Camille
Alessandro Robecchi: Dove sei stanotte
Marco Missiroli: Atti osceni in luogo privato
Paula Hawkins: La ragazza del treno
Diego De Silva: Voglia di guardare; La donna di scorta
Andrea Camilleri: La giostra degli scambi; La relazione
Roberto Banzato: Non connesso
Massimo Carlotto: La banda degli amanti; Per tutto l'oro del mondo
Piergiorgio Pulixi: Il canto degli innocenti; L'appuntamento
Alicia Gimenez-Bartlet: Sei casi per Petra Delicado
Massimo Lugli: Nel mondo di mezzo
Carlo Lucarelli: PPP - Pasolini, un segreto italiano
Paolo Nori: Mi compro una Gilera
Sasha Arango: La verità e altre bugie
Aldo Cazzullo: La guerra dei nostri nonni

venerdì 1 gennaio 2016

Poeti

L'ha scritto Tiziano Terzani, grande giornalista e scrittore, e Gianni Mura, anche lui un maestro, l'ha opportunamente ricordato ieri su Repubblica. Mi sembra il miglior augurio di buon anno.
"Mi piaceva l'idea che i problemi dell'umanità potessero essere risolti da una congiura di poeti: un piccolo gruppo si prepara a prendere le redini del mondo perché solo dei poeti ormai, solo della gente che lascia il cuore volare, che lascia libera la propria fantasia senza la pesantezza del quotidiano, è capace di pensare diversamente. Ed è questo di cui oggi avremmo bisogno: pensare diversamente".