Pietro
e Giulio. Il primo, maresciallo dei carabinieri alle soglie della pensione, il
secondo, poco più che ventenne, studente di giurisprudenza. Si incontrano in un
centro riabilitativo. Pietro sta recuperando da un intervento di protesi
all’anca, Giulio da un incidente in auto. Iniziano a parlare, ma non di
banalità o del tempo. Il loro è quasi un dialogo platonico. Pietro Fenoglio nella
parte di Socrate guida il suo Teeteto a riflettere sulla conoscenza, sui
concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull’idea stessa del potere. Qualcuno
ha scritto, e io sono d’accordo, che questo ultimo lavoro di Carofiglio è un
manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da
personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si
mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. La trama si regge sulle storie del
maresciallo, personaggio un po’ fuori dagli schemi: colto, interessato all’arte
e alla letteratura, un uomo con un altissimo senso della giustizia. Pietro e
Giulio sono in un momento delicato della loro esistenza: entrambi non sanno
cosa li aspetta. Il maresciallo non osa immaginare la sua vita in pensione.
Giulio non sa cosa farà da grande. Nei loro incontri, e nel loro raccontarsi,
troveranno insieme alcune risposte ma inevitabilmente
anche nuove domande. Unico appunto: in alcuni momenti sembra che i due
protagonisti perdano di autenticità: il loro modo di parlare, di interrogarsi,
stride un po’ con quello a cui siamo abituati. E non solo nei romanzi. La
versione di Fenoglio è un piacere, intellettuale ed estetico: per chi ha voglia
di concedersi pagine belle.
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venerdì 15 novembre 2019
lunedì 11 novembre 2019
Effetto domino
Ho scoperto di recente nel mio
tour quotidiano da Feltrinelli della trasposizione cinematografica del libro di
Romolo Bugaro, film presentato anche alla Mostra di Venezia. Romolo Bugaro è un
avvocato di Padova, per professione si occupa di fallimenti: tanti negli ultimi
anni, conseguenza della decrescita repentina che ha travolto centinaia di
attività nate alcuni decenni fa in pieno boom economico. La cronaca ne parla
quotidianamente, in termini anche tragici, con imprenditori che si tolgono la
vita perché non riescono a far fronte agli impegni o per vergogna. “Effetto
domino”, che ho letto l’anno scorso, racconta la crisi economica nel Nord Est e
lo fa senza sconti: una narrazione cruda quella di Bugaro, un pugno nello
stomaco che non ti dà scampo fino alla fine. Al centro della storia c’è una
speculazione edilizia o per meglio dire l’operazione della vita dei due
protagonisti: la riqualifica di duecentomila metri cubi di terreno, che dovrebbero
diventare una nuova prestigiosa area urbana nella campagna veneta. Un progetto
enorme, che si alimenta e vive
dell’ambizione e della voglia famelica di uomini che si nutrono solo di
business, che si alzano al mattino con l’unico scopo di legare il loro nome, e
il portafogli, a qualcosa di grandioso, indipendentemente dalla sua reale
utilità, non parliamo dell’etica. Ma ad un certo punto qualcosa si rompe, e non è colpa di nessuno. Divergenze interne a una
delle banche finanziatrici bastano a far andare tutto a rotoli: per gli
imprenditori a capo dell’impresa e poi giù a catena, per i fornitori, i
fornitori dei fornitori, che a loro volta avevano investito, anticipato, dato
credito, le loro famiglie, il contesto sociale. L’effetto domino, appunto. Che
nessuno ha voluto arginare, quando forse si era ancora in tempo. Perché
“fermarsi voleva dire perdere tutto (…). E nessuno avrebbe distrutto
l’investimento più importante della sua vita”. Lo consiglio e sono curioso di
vedere il film.
giovedì 7 novembre 2019
Niente caffè per Spinoza
Ho amato “Niente caffè per
Spinoza” da subito, dal titolo. Ne ho letto una 30ina di pagine da Feltrinelli
a Parma dove mi capita, per ragioni famigliari, di passare del tempo in attesa.
Al primo piano ci sono poltroncine confortevoli, si può attingere dagli
espositori e leggere tranquillamente. Al piano terra c’è invece una zona
riservata ai ragazzi per studiare. Amo la Feltrinelli di Strada Farini anche
per questo. Sto divagando, ma mi sembrava importante dirlo. Giro tra le corsie
e mi lascio guidare dalle emozioni. Sono convinto che siano i libri a
chiamarci, non il contrario. Ed è assolutamente inutile opporsi. In un primo
momento “Niente caffè per Spinoza” l’ho visto e gli ho girato intorno come
Gatto Silvestro con Titti, perché quel giorno avevo un altro obiettivo. Il
tempo di sedermi e di non riuscire a concentrarmi sull’obiettivo e son tornato
sui miei passi. Di solito, quasi sempre, sempre, quando inizio un libro da
Feltrinelli poi lo compro. Mai come stavolta però sono contento di essermi
fatto guidare dall’istinto. Elisa è una donna giovane, alla ricerca di tante
cose, ma prima di tutto di una ragazza che si occupi della casa e di suo padre
anziano, cieco e malato. Elisa vive in Svizzera, con un marito, più o meno, e
due figlie adolescenti. Anche Maria Vittoria è alla ricerca di tante cose, per
esempio di fare pulizia nella sua vita, a partire dai pesi inutili, il marito e
la suocera. E per farlo ha bisogno di trovare un lavoro. Il signor Luciano,
anzi il Professore, ex insegnante di filosofia, ha invece bisogno di
continuare, per quanto gli rimane, a trovare le risposte giuste dai maestri del
pensiero: da Epitteto, Epicuro, Aristotele, da Galilei, Hume, Spinoza,
Schopenhauer, ma soprattutto dall’amato Pascal. Nasce tra i due una complicità
bellissima, a tratti commuovente. Mentre Maria Vittoria, tra un caffè e una
minestra, gli legge i filosofi, il Professore, che ha imparato a vedere nel
buio, o forse lo sa da sempre, le insegna la cosa fondamentale: nei libri si
possono trovare le idee per riordinare anche la vita. Sul palcoscenico del
romanzo, scritto benissimo, ambiente tra Livorno e Pisa, ruotano altri
personaggi: gli amici del Professore, ex insegnanti a loro volta, che
quotidianamente vengono a prelevarlo per una passeggiata e per discutere di quanto
scrivono i giornali. C’è la Vally, l’anziana cognata, c’è la vicina di casa e
il medico al piano di sotto, che cerca con discrezione di occuparsi del suo
corpo malandato. I segni e le ombre di quando era ancora viva la moglie. Ci
sono 2 ex allievi che passano periodicamente, perché non si finisce mai di
imparare. Le giornate trascorrono così, apparentemente tutte uguali, cadenzate
dalle abitudini e dalle piccole manie tipiche degli anziani: ma sono giornate
impreziosite dalle citazioni, che in modo discreto danno un senso al procedere
del tempo. Così sino alla fine, che poi non è mai un assoluto, perché è la
conoscenza che guida. E quella si impara ma soprattutto si trasmette. Il
Professore l’ha fatto per tutta la vita e trova fino all’ultimo il modo di
farne dono. Sia materialmente, regalando i libri: uno alla volta, per dare
tempo al tempo, sia maieuticamente: anche Maria Vittoria, come Teeteto con
Socrate, è travolta dalla fame di conoscenza e l’ultima sera gli confida che
riprenderà a studiare. Il romanzo di Alice Cappagli, laurea in filosofia,
violoncellista nell’orchestra della Scala, ha un unico difetto. L’ho
finito.
giovedì 31 ottobre 2019
Ogni riferimento è puramente casuale
L’aspirante scrittore che ce
la fa ma poi non regge la pressione. Lo scrittore affermato e venerato. Le
logiche e i rituali delle presentazioni, anzi delle presentation. Quelli del
firma copie. Gli interessi degli editori e quelli degli uffici stampa. Ma anche
dei critici, tra frustrazioni e orgoglio: la normalità sconosciuta, chiamiamola
così. Perché anche il mondo che sta attorno e chi governa i libri ha i suoi
scheletri: c’è chi scrive di suo e chi scrive per altri, c’è chi ha successo,
le copertine, i riflettori con la panna montata perché è stato deciso così e
poi c’è il gruppo, i gregari, si direbbe nel ciclismo. Un mondo che Antonio
Manzini conosce bene, essendo uno dei giallisti di maggior successo, e che
mette a nudo con ironia e sarcasmo. Ogni riferimento è puramente casuale è una
raccolta: 7 racconti brevi molto coinvolgenti e piacevoli da leggere, che non
spoilero proprio per questo. Rimane la morale un po’ amara. Il libro non è
cultura, approfondimento, condivisione di idee, o perlomeno non solo. E’
marketing. Per questo, aggiungo io, bisogna diffidare degli osanna e passare
del tempo a cercare le chicche in libreria o in biblioteca. Sperando che queste
chicche siano arrivate fin lì. Ma su questo noi lettori non possiamo farci
nulla.
lunedì 28 ottobre 2019
Noir all'italiana
Del Codice dei Cavalieri di
Cristo e di Confusione morale ho già parlato in due post dedicati. Un accenno
l’ho già fatto anche sull’Uomo liquido, lettura esilarante: Morozzi ha grandi
doti narrative, per due libri è stato capace di tenere in piedi la storia,
drammatica, di quest’uomo che a causa di una rarissima malattia ha perso pene e
testicoli, rimanendo in pratica liscio – L’uomo liscio era il titolo del primo
romanzo – riuscendo comunque a mantenere integra la sua fama di donnaiolo. Le
altre 4 letture sono tutti noir e le vorrei riassumere brevemente qui,
dichiarando sin da subito le mi preferenze, tra conferme, belle sorprese e
piccole delusioni.
La conferma è Roberto Perrone
con il terzo romanzo della serie che ha per protagonista Annibale Canessa,
libri da leggere in sequenza perché altrimenti si perdono alcuni riferimenti,
soprattutto i rapporti tra i personaggi che ruotano intorno al colonnello in
pensione. Nell’Ultima volontà, il finto suicidio di un giovane ricercatore
porta Annibale e la sua strana squadra, che ricorda un po’ quella
dell’Alligatore di Massimo Carlotto, in Emilia, negli anni della guerra
partigiana, per fare luce su una vicenda allora sotterrata in fretta e furia e
poi caduta nell’oblio. Perrone mette il dito in questioni politiche ancora
sensibili sulla lotta di Liberazione, ma lo fa con grande maestria e abilità,
senza la pretesa di voler riscrivere la storia o dare giudizi. In attesa del
prossimo Canessa, una bella opera prima:
Il seme della violenza di
Ludovico Paganelli. Siamo nella Milano dell’Expo, alla vigilia di Natale. Un
broker viene assassinato e il commissario Margot Blanchard, donna tutta da
declinare al superlativo, a partire da bellissima, si ritrova man mano immersa
in una storia torbida, che va oltre la finanza, i soldi liquidi e le perdite in
borsa, come possibile movente del delitto. Racconta di donne violate,
connivenze e abusi di potere che riporteranno il commissario Blanchard a fare i
conti con un passato personale doloroso, sotterrato per anni in un armadio
insieme alle foto e le lettere che ne danno contezza ma che ora è chiamata ad
affrontare, per sé e per non perdere gli affetti più cari. Lo consiglio.
Su Il cuoco dell’Alcyon ho
qualche remora. Il testo nasce come sceneggiatura per una coproduzione italo
americana e si vede, nonostante Camilleri abbia rivisto la scrittura per darle
la dimensione del romanzo, Il Maestro ci consegna però un Montalbano diverso da
quello che conosciamo e a mio avviso poco credibile. I temi sono quelli cari a
Camilleri, a partire dal malaffare ai più alti livelli, che si incontra su una
barca a vela e che un duo quasi comico, Montalbano Fazio, è chiamato a
sgominare in appoggio all’FBI. Ho letto recensioni molto positive su
quest’ultimo Montalbano, con argomentazioni peraltro condivisibili, per esempio
le riflessioni sulla società attuale, nel caso specifico il mondo del lavoro,
che sempre contraddistinguono i romanzi di Camilleri. Ferma restando la
scrittura magnetica e le contaminazioni tra giallo e spy story continuo però a
non essere convinto e a preferire il vecchio Commissario.
Chiudo con Farinetti che ha da
sempre abituato a trame solide e coinvolgenti, immerse nei profumi e nelle
atmosfere piemontesi – nello specifico
delle Langhe - e che a quattro anni dall’ultimo romanzo ci consegna
questo La Bella Sconosciuta, che devo confessare mi ha lasciato un po’ l’amaro
in bocca. Nel libro ci sono più o meno tutti i personaggi farinettiani, sempre
ben disegnati e caratterizzati con precisione e ironia, ci sono come detto le
Langhe e i suoi paesaggi, c’è la storia - il morto che più o meno tutti
avrebbero potuto ammazzare e un colpevole che non ti aspetti – ma.
Personalmente non mi convince la parte, chiamiamola così, sociale, sempre
presente anche in Farinetti. Nel caso specifico un tema delicato e tuttora
sensibile come il cambio di sesso, che comporta un percorso interiore e di
accettazione e che qui finisce per risultare una provocazione e una punizione –
vendetta? – verso un certo conformismo borghese.
domenica 27 ottobre 2019
La confusione morale
L’impianto è quello del
giallo. C’è un morto ammazzato, un geometra del comune di Milano iscritto al
PCI. Ma La confusione morale è un libro politico. Lodovico Festa è stato un
funzionario del partito comunista milanese, ne conosceva l’ambiente, le
dinamiche, l’impronta burocratica quasi militaresca e come nel precedente La provvidenza rossa gli viene
naturale parlare di quegli anni per darne una lettura e un’analisi storica – e
politica – più ragionata e obiettiva. Siamo nel 1984, Berlinguer è appena morto
lasciando un vuoto e probabilmente una confusione morale nei suoi eredi. Al
governo c’è Bettino Craxi. Milano è guidata da una giunta di sinistra con
socialisti e comunisti. Iniziano a farsi strada figure imprenditoriali che
contribuiranno a modificare il tessuto sociale ed economico del Paese. La
trasformazione urbanistica del territorio milanese è legata a doppio filo a
costruttori chiacchierati. In questo contesto matura l’omicidio. Un omicidio
che, si capisce sin da subito, diventa un fatto marginale o di contorno
rispetto alle implicazioni politiche che potrebbero derivare se la morte del
geometra fosse in qualche modo legata al Piano case del Comune, cosa che non
dispiacerebbe a Botteghe Oscure. E qui si sviluppa l’inchiesta di Mario
Cavenaghi, il presidente dei probiviri lombardi, una sorta di polizia interna,
che cerca di dirimere tutte le questioni spinose, a salvaguardia del partito.
Cavenaghi non cede alla facile e comoda ricostruzione che ha l’obiettivo di
screditare Craxi sacrificando al contempo il governo del capoluogo lombardo.
L’indagine è anzi un’occasione per rivedere alcune posizioni. Il mondo stava
cambiando e il PCI sbagliava – sostiene Festa – a leggerlo e giudicarlo con
logiche e schemi superati. Forse, fa dire l’autore ad alcuni protagonisti,
valeva la pena prendere in considerazione alcune idee lungimiranti di Bettino
Craxi e aprire un dialogo diverso con il PSI. I destini della Prima Repubblica
sarebbero stati diversi, non solo perché affidare alla magistratura la surroga
della politica comporta la morte di quest’ultima, ma anche perché la storia
successiva dell’Italia sarebbe stata diversa, sia a sinistra che soprattutto a
destra. La confusione morale è un bel libro ed è una lettura interessante per
chi ha vissuto quegli anni, magari un po’ macchinosa: l’autore la scrive
volutamente con la lentezza tipica delle meditazioni, dei dubbi e delle
ricostruzioni di un burocrate del partito comunista, ma quando si entra nella
narrazione la sostanza compensa lo sforzo.
venerdì 25 ottobre 2019
Il Codice dei Cavalieri di Cristo
C’è il cadavere di un uomo sul
monte Pellegrino a Palermo, la gola tagliata e degli strani segni sul petto. A
dare l’allarme è Julien Brunner, docente di Geoscienze dell’Università di
Losanna, che rilascia la sua deposizione, poi esce dalla Questura e sparisce
nel nulla. Il giorno successivo altri due cadaveri, a Cefalù: un uomo e una
donna, appartenenti ad una setta esoterica, gli stessi segni sul petto, che si
scoprirà poi essere simboli di un alfabeto antichissimo, l’enochiano. Quando
gli inquirenti cercano di rintracciare Brunner per capirne di più, scoprono che
il professore, di origine portoghese, è in realtà morto il giorno prima di
comparire vivo e vegeto sul monte siciliano. Inizia così la nuova indagine del
vicequestore Giovanni Barraco, capo della Mobile di Palermo. Un caso che lo
porta a Lisbona ad indagare dapprima in un convento – il primo morto era un
frate – e poi indietro nel tempo nell’Ordine dei Cavalieri di Cristo, che nella
capitale portoghese viene tenuto in vita dai discendente diretti appartenenti
alla nobiltà locale, in teoria con l’obiettivo statutario di fare opere di
bene, in realtà non tutti in quel consesso la pensano allo stesso modo. Ci
saranno altri morti, a partire proprio da uno di questi Cavalieri, in un
susseguirsi di colpi di scena orchestrati con maestria e abilità da Carmelo Nicolosi, che
vedono il suo Barraco impegnato in una delicatissima partita a scacchi, dove ad
ogni mossa si rischia il matto (o il morto): il vicequestore non solo deve
sciogliere la matassa sempre più ingarbugliata di un caso internazionale -
anche la mafia marsigliese entrerà nel gioco e la storia si intreccerà con
un'altra vicenda: il traffico illegale di gioielli dal Congo - ma è costretto a
guardarsi le spalle perché nella polizia portoghese c’è chi potrebbe fare il
doppio gioco. Per venirne a capo Giovanni Barraco può contare solo sui suoi
uomini a Palermo, su Gisella Bruno, che lo raggiungerà a Lisbona, sul tenente
Celia Moreira, avvenente collega con la quale nascerà qualcosa di più della
semplice colleganza e Paulo Mafra, agente della polizia locale. Barraco alla
fine troverà il colpevole, il burattinaio di tutti i morti ammazzati – e sono
tanti - ma la cosa interessante è che fino alle ultime pagine non si riesce a
capire chi è e perché. E quello che mi sento di dire è che anche il mio amico
Carmelo credo l’abbia deciso solo agli ultimi 300 metri. Come in una gara di
ciclismo ha portato sul rettilineo finale i 4-5 velocisti più forti, nel nostro
caso i papabili colpevoli, e alla fine ne ha scelto uno. Al fotofinish. Inutile
dire che lo consiglio.
giovedì 24 ottobre 2019
Non c'è stata nessuna battaglia
Romolo Bugaro, avvocato
padovano della mia generazione, l’ho scoperto per caso più di 20 anni fa mentre
vagavo per la città del Santo. Presentava ad una festa del libro il suo primo
romanzo La brava e buona gente della nazione, finalista del Campiello. Poi l’ho
perso di vista. Lo scorso anno ho letto Ragazze del Nordest; Bea vita. Crudo
Nordest e Effetto domino. Adesso questo Non c’è stata nessuna battaglia. Le
storie di Bugaro sono vere, crude, te le senti addosso: sono quelle della
provincia, dove le dinamiche sono uguali ovunque e il disagio è un profumo
indelebile sulla pelle. Le amicizie, i bar, i motorini truccati, le compagnie,
gli amori, i riti di iniziazione. Qui al centro del racconto, in un flash back
amaro e doloroso, ci sono le vite di 5 amici, 4 ragazzi e una ragazza – il
vecchio Andrea, Nick The Best One, GMT, Tod e la Canova - le loro ambizioni, le
speranze, i tormenti. C’è il mondo dei 15enni della fine degli anni 70, che,
come tutti, vivono il per sempre ma finiscono per perdersi, a volte senza
volerlo, disegnando una realtà altra, che per qualcuno è un buco nero dal quale
non riesce più ad uscire, per altri una nuova possibilità, o forse solo un
ripiego. Sullo sfondo, anche se non espresso, c’è quello che avrebbe potuto
essere, che per due dei protagonisti
viene riportato a galla dopo 30 anni. Una trasmissione vista in tv e una mail
inaspettata, fanno tracimare un fiume di malinconia, mai verbalizzata, mai elaborata, di una
giornata in particolare, da dove tutto è iniziato ed ha finito per segnare i
loro destini. Romolo Bugaro è indubbiamente bravo, esce tra l’altro dalla
“scuola” di Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini; Pao Pao, Rimini; Camere
separate), altro autore che mi sento di consigliare. Chi come me ha superato i 50 ed è nato e
vissuto per anni in provincia, può trovare in Non c’è stata nessuna battaglia
un po’ della propria adolescenza.
mercoledì 23 ottobre 2019
Lavoro a mano armata
Pierre Lemaitre è un maestro
assoluto e “Lavoro a mano armata” è uno dei noir più belli che ho letto. Il
tema di fondo è il lavoro: necessario, importante, fondamentale, la vera
ragione di vita di ogni essere umano, tanto che quando non c’è più, per tutta
una serie di ragioni, nel caso specifico per una ristrutturazione aziendale,
anche un uomo come Alain Delambre - colto, sensibile e integerrimo – è disposto
ad armarsi per riconquistare quella dimensione personale e sociale che solo il
posto fisso sembra dare. La cosa straordinaria di questo romanzo è che cambia
registro almeno 4 volte e la storia prende forma su altri percorsi. Alain
Delambre ha cinquantasette anni, una moglie e due figlie ormai adulte. Una vita
passata a lavorare come responsabile delle risorse umane. Poi la crisi, il
licenziamento, la disoccupazione. Si adatta per un po’ a quello che gli viene
proposto dall’ufficio collocamento, scivolando però sempre di più nella
depressione. Poi, inaspettata, la seconda chance, quella che può ridare un
senso a tutto. Per essere assunto Alain deve
superare un test. Deve partecipare da osservatore ad un gioco di ruolo:
un finto sequestro di persona, organizzato per mettere alla prova i quadri di
una grande azienda. Un’assurdità? Forse. Sua moglie infatti non è d’accordo, ma
il signor Delambre non vuole diventare l'ennesima vittima della crisi, vuole
lavorare e il lavoro è pronto a prenderselo, se necessario, anche a mano
armata. Non rivelo ovviamente il finale. Dico solo che Alain Delambre da
osservatore diventa sequestratore vero dei partecipanti al gioco, che viene
fermato e arrestato. E che a quel punto inizia un’altra storia. Quella vera.
mercoledì 5 giugno 2019
Per questo mi chiamo Giovanni
Quando frequentavo le scuole medie c’era l’ora
di narrativa. Dovevamo leggere un libro, uno all’anno, non ricordo più quali.
Si leggeva un po’ in classe, un po’ a casa e se ne discuteva. La scelta dei
docenti si orientava su testi che consentissero di fare delle riflessioni di
carattere etico e sociale così da fornire gli strumenti critici e far crescere
personcine a modo, uno dei compiti secondo me più importanti della scuola. Su
invito di un amico, ieri ho letto “Per questo mi chiamo Giovanni”, di Luigi
Garlando, caporedattore della Gazzetta dello Sport. E’ la storia di Giovanni
Falcone, raccontata da un padre al figlio Giovanni, appunto, nato il giorno
dell’attentatuni, della strage di Capaci. Non so se oggi esiste più l’ora di
narrativa, ma sicuramente il lavoro di Garlando sarebbe la lettura ideale per
far capire ai ragazzi che il male lo si sconfigge prima di tutto con i
comportamenti, che significa rettitudine morale, attenzione all’altro e alla
cosa pubblica, ma anche non accettare e denunciare qualsiasi sopruso. Poi c’è
la storia affascinante e un po’ romanzata di un uomo straordinario che è
diventato patrimonio di tutti solo dopo morto, come spesso accade in questo
malandato Paese, storia che aiuta a capire tante cose e comunque, soprattutto
per i Millenial, conoscerla male non fa
martedì 28 maggio 2019
La guerra dei nostri nonni
Il libro è di qualche anno fa, ma anche gli avvenimenti che narra non sono recentissimi. La cifra distintiva è che qui non ci sono eroi da venerare, ma uomini e donne, i nostri nonni, contadini e braccianti, mandati al massacro da un colpo di stato che esautorò il Parlamento. Aldo Cazzullo racconta la Grande Guerra attraverso le storie e le vicende delle persone normali, la forza morale di cui furono capaci, protagonisti e vincitori della prima sfida dell’Italia unita, non più solo un nome sulla carta geografica. Senza dimenticare le responsabilità di politici, generali e affaristi che portarono il Paese al massacro, Cazzullo narra questa genesi conducendo il lettore nell’abisso del dolore, in una sofferenza che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare: i mutilati al volto, le decimazioni degli innocenti, l’esercito dei folli, le donne friulane e venete violentate dagli invasori, l’istituto degli “orfani dei vivi”, dove le mamme italiane andavano a vedere di nascosto i piccoli tedeschi, che erano pur sempre loro figli. L’Italia nacque allora – scrive Cazzullo - Nelle trincee. Sul Grappa e sul Piave. Eravamo un popolo giovane. Non ci capivamo neppure tra di noi: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo essere spazzati via, dimostrammo di essere una nazione. Un consiglio di lettura, soprattutto per i più giovani.
lunedì 27 maggio 2019
Sinistri
antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto,
che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario
della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo,
arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da
un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un
componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di
potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato
che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per
intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non
lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso Siamo nel 2023. L’Italia è stata ormai traghettata nella Terza Repubblica. Al governo c’è il Partito della Felicità che ha messo al bando tutte le altre forze politiche in nome di una fantomatica pace sociale. Una “risoluzione programmatica” iniziata qualche anno prima e culminata nel 2019 con l’arresto, la condanna per terrorismo e la sparizione fisica di quella che all’epoca venne ribattezzata la Banda dei Nove: i leader del principale Movimento d’opposizione nato dal blog antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto, che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo, arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso Siamo nel 2023. L’Italia è stata ormai traghettata nella Terza Repubblica. Al governo c’è il Partito della Felicità che ha messo al bando tutte le altre forze politiche in nome di una fantomatica pace sociale. Una “risoluzione programmatica” iniziata qualche anno prima e culminata nel 2019 con l’arresto, la condanna per terrorismo e la sparizione fisica di quella che all’epoca venne ribattezzata la Banda dei Nove: i leader del principale Movimento d’opposizione nato dal blog antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto, che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo, arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri”
non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il
futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve
essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto
che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte,
basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite
Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un
antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e
deriso.antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto,
che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario
della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo,
arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da
un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un
componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di
potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato
che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per
intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non
lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso
lunedì 13 maggio 2019
La logica della lampara
Non sempre quello che si vede è quello che si vede.
A volte è solo apparenza di una verità costruita ad arte. Ci sono due testimoni
attendibili che all’alba vedono gettare dagli scogli una valigia trasportata a
mano con grande difficoltà. C’è subito appresso una telefonata anonima che
denuncia alla polizia un possibile omicidio in una villetta a mare. C’è del
sangue in quella casa che corrisponde al sangue trovato nella valigia e
soprattutto c’è la ragazza che aveva affittato quella casa che non si trova
più: una giovane avvocato occupata del principale studio della città. E guarda
caso nella valigia c’è il suo iphone, dal quale la scientifica riesce a
recuperare tutto il contenuto: chat, messaggi vocali, immagini e quant’altro
sufficienti a chiudere in faccia le porte del carcere, per non aprirle mai più,
al titolare dello studio, un notabile in odore di mafia. L’unica cosa che manca
è il cadavere, che rimane sullo sfondo, più che in fondo al mare. E questo in
un’indagine di omicidio non è indifferente. Troppo semplice comunque, troppo
facile per Vanina Guarrasi, vicequestore della Mobile di Catania. Nonostante
sia convinta che il grande avvocato mammasantissima la galera la meriterebbe a
prescindere, per un’accusa così grave ci vogliono dei riscontri più solidi. E
in effetti le cose sono molto più complicate di quanto qualcuno vuol far
credere. Anche per questo caso sarà determinante l’appoggio dell’ottuagenario
commissario in pensione Biagio Patanè, che già in Sabbia Nera aveva riportato
alla luce una storia antica nella quale c’erano i prodromi dell’indagine in vetrina.
La verità verrà ricostruita poco alla volta grazie alle intuizioni della
Guarrasi e non sarà la verità dell’apparenza. Ecco, io sono ufficialmente
innamorato di Vanina Guarrasi e la colpa è di Max di Domenico che conoscendo la
mia passione per la Sicilia me l’ha fatta conoscere. Per gli amanti del genere,
“La logica della lampara” di Cristina Cassar Scalia è da leggere.
martedì 26 febbraio 2019
L'unica storia
“Abbiamo quasi tutti
un'unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una
cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo
in altrettante storie. Ma ce n'è una sola che conta, una sola da raccontare, alla
fine”. Questa è la storia d’amore di Paul, studente inglese di 19 anni. Quella con
Susan, 48 anni, madre di famiglia, conosciuta un’estate al circolo del tennis. Con
lei, per lei, Paul impara l’amore per sempre e il suo contrario più doloroso.
Che non è l’odio, ma la consapevolezza che nemmeno un sentimento sconfinato è in
grado di salvare dall’autodistruzione la donna della sua vita: di proteggerla dall’alcol,
dalle bugie e dalle verità nascoste che giorno dopo giorno si sono accomodate
nella loro cucina. Fino allo strazio dell’abbandono, perché per entrambi non
c’è salvezza e per non affogare Paul è costretto a restituirla – restituirla,
fa male solo dirlo - alla sua vecchia famiglia. Paul la sua unica storia la
racconta a distanza di 50 anni, quando i protagonisti sono quasi tutti
scomparsi. Lo fa all’inizio in prima persona, completamente immerso in una dimensione
nuova, fantastica, inebriante, trasgressiva. Passa quindi ad alternare la prima
alla seconda persona quasi volesse raccontare prima di tutto a sé stesso i
fatti e leggerli con maggiore obiettività. Per arrivare poi definitivamente
alla terza, dove l’io narratore scompare e quello che è successo viene
presentato nella sua cruda realtà. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo,
che come ne “Il senso di una fine”, l’elemento dominante del romanzo di Julian Barnes
è il tempo, che trasforma le persone e i sentimenti, esalta e avvilisce le
relazioni, alimenta e distrugge l’amore. E al concetto del tempo è legata la
funzione della memoria, che permette di rivivere il passato con nostalgia ma
con più equilibrato e corretto distacco. “L’unica storia” non è un romanzo di
iniziazione sessuale: è un approfondito esame dell’animo umano e di come esso reagisce
di fronte ad un sentimento totalizzante, che a volte, come in questo caso, si
presenta nel suo aspetto meno convenzionale. (…) ciascuno ha la propria storia
d’amore. Anche se è stata un fallimento, anche se si è ormai spenta, o non è
mai riuscita a partire, o se fin dal principio era tutta e solo mentale, questo
non la rende meno vera. E’ l’unica storia (…).
domenica 24 febbraio 2019
Mio padre è stato anche Beppe Viola
(…) Lì, nella chiesa dove avevo fatto la prima
comunione e la cresima, dove ero andata a confessarmi per tutte le palle che
raccontavo ai miei, o perché giocavo al dottore con Fabio e sapevo bene che era
peccato, in quella chiesa lì, appunto, vidi per la prima volta la cassa da
morto, bella lucida, davanti all’altare. E lì dentro c’era papà. Come fa a
uscire da lì? Fino ad allora per me era morto Beppe Viola, quello della
televisione, quello che fa ridere. Fu solo in quel momento che mi resi conto
che a morire era stato il mio papà, e cominciai a stringere io la mano a Enzo,
e la gola stringeva me, e finalmente avvertii la prima lacrima calda, lenta,
densa e pesante di un dolore e di una solitudine che sarebbero diventati miei
compagni per tutta la vita (…). Fu la mamma, dopo aver lanciato una rosa rossa
nella fossa, sopra la bara, a rompere il silenzio. “Ciao, Peppi”, disse.
L’ultimo loro momento di intimità. Quel “ciao Peppi” lo sento rimbombare dentro
di me, un’eco che non si è ancora placata (…). Non disse addio perché nessuno
di noi era pronto per un addio. Fu semplicemente un ciao, un ci vediamo, un a
dopo. Quasi come una speranza. Un’illusione che questo non fosse altro che uno
di quegli scherzi che ci faceva lui, che poi ricompare e tutti ridiamo come
matti (…).
Marina Viola, la seconda della 4 figlie di
Beppe, a oltre 30 anni dalla morte del padre ha cercato di ricostruirne
l’identità attraverso i racconti degli amici più cari, quelli noti e quelli
sconosciuti: del bar, dell’ippodromo, della strada. L’ha fatto perché quando muore
tuo padre e tu sei ancora una bambina i ricordi con il tempo si affievoliscono e
il rischio è che rimanga solo il mito. Ma anche per lasciarlo finalmente andare
quel papà che è stato anche Beppe Viola. E’ un bel libro questo firmato da
Marina: sull’uomo, sul padre, sul marito, con tutti i suoi pregi e i tanti
difetti. A me manca Beppe Viola, manca tanto, come credo manchi a chi fa il
giornalista. Immagino alle figlie. Non arriverà mai il momento di dirgli addio.
giovedì 10 gennaio 2019
Il mio Novecento
Una lectio magistralis di una sessantina di pagine che racconta un secolo, il 900, che ha visto - cito a memoria- due guerre mondiali, 187 milioni di morti, dissolversi 4 imperi, la caduta del Muro, la disgregazione del sistema coloniale, l’implosione dell’Unione Sovietica, il Vietnam, la Corea, il conflitto nell’ex Jugoslavia, quello tra Iran e Iraq, l’ancora irrisolta questione palestinese, l’era atomica che oggi impone l’equilibrio mondiale. Bernardo Valli racconta da cronista e da testimone oculare e di penna il suo e il nostro Novecento. Un saggio breve, anzi un libretto di istruzioni da mettere in tasca alle generazioni che non hanno visto e agli scettici d’Europa, che hanno perso la coscienza della vittoria che l’Unione rappresenta in 70 anni di pace.
domenica 6 gennaio 2019
Blackout
Domenica di ferragosto, periferia di Bologna. Nell’atrio
di un palazzo di 20 piani stanno per incrociare le loro vite un ragazzo di 16
anni, una giovane donna poco più che ventenne e un uomo di quasi 50. Il 16enne
sta per salire per l’ultima volta a casa sua: in stazione a Parma lo aspetta la
fidanzata con la quale ha deciso di fuggire: forse a Parigi, o ad Amsterdam,
comunque lontano da lì. La donna ha appena finito il turno in un bar del
centro. Non vede l’ora di togliersi la divisa volgare con cui è costretta a
muoversi tra i tavoli e passare la prossima mezzora sotto la doccia. L’uomo è
l’unico a non vivere nel palazzo. L’appartamento che ha affittato nasconde la
sua seconda vita, lontana anni luce da quella conosciuta del padre di famiglia
e dell’imprenditore di successo. In quel momento, è il primo pomeriggio,
nessuno di loro sa ancora che quella torrida giornata di festa sta per
diventare il loro incubo per sempre. I tre salgono in ascensore portando con sé
sogni e progetti. E lì ci rimarranno per le successive 10 ore. Un tempo
infinito, durante il quale nessuno si accorgerà di loro, nessuno li andrà a
liberare. Blackout è il primo dei romanzi scritti da Gianluca Morozzi. Se fosse
un film, prima della proiezione apparirebbe la scritta: per le immagini e i
contenuti è consigliabile solo ad un pubblico adulto. Perché in 10 ore, in quei
pochi metri (e non solo) accadrà l’inimmaginabile, con un crescendo emotivo che
l’autore racconta con grande abilità, fino all’epilogo finale. Sul quale non mi
soffermo, perché anche quello è oltre ogni ragionevolezza, e forse proprio per
questo drammaticamente vicino alla realtà, tanto da fare di Blackout, mi sia
concesso, un romanzo quasi sociologico, su chi siamo, cosa siamo disposti a
fare per, a sopportare e, soprattutto, a non vedere. E se tutto ciò presuppone
o pretende il sacrificio di qualcosa o di qualcuno, pazienza.
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