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venerdì 15 novembre 2019

La versione di Fenoglio


Pietro e Giulio. Il primo, maresciallo dei carabinieri alle soglie della pensione, il secondo, poco più che ventenne, studente di giurisprudenza. Si incontrano in un centro riabilitativo. Pietro sta recuperando da un intervento di protesi all’anca, Giulio da un incidente in auto. Iniziano a parlare, ma non di banalità o del tempo. Il loro è quasi un dialogo platonico. Pietro Fenoglio nella parte di Socrate guida il suo Teeteto a riflettere sulla conoscenza, sui concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull’idea stessa del potere. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo, che questo ultimo lavoro di Carofiglio è un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. La trama si regge sulle storie del maresciallo, personaggio un po’ fuori dagli schemi: colto, interessato all’arte e alla letteratura, un uomo con un altissimo senso della giustizia. Pietro e Giulio sono in un momento delicato della loro esistenza: entrambi non sanno cosa li aspetta. Il maresciallo non osa immaginare la sua vita in pensione. Giulio non sa cosa farà da grande. Nei loro incontri, e nel loro raccontarsi, troveranno insieme alcune  risposte ma inevitabilmente anche nuove domande. Unico appunto: in alcuni momenti sembra che i due protagonisti perdano di autenticità: il loro modo di parlare, di interrogarsi, stride un po’ con quello a cui siamo abituati. E non solo nei romanzi. La versione di Fenoglio è un piacere, intellettuale ed estetico: per chi ha voglia di concedersi pagine belle.

lunedì 11 novembre 2019

Effetto domino


Ho scoperto di recente nel mio tour quotidiano da Feltrinelli della trasposizione cinematografica del libro di Romolo Bugaro, film presentato anche alla Mostra di Venezia. Romolo Bugaro è un avvocato di Padova, per professione si occupa di fallimenti: tanti negli ultimi anni, conseguenza della decrescita repentina che ha travolto centinaia di attività nate alcuni decenni fa in pieno boom economico. La cronaca ne parla quotidianamente, in termini anche tragici, con imprenditori che si tolgono la vita perché non riescono a far fronte agli impegni o per vergogna. “Effetto domino”, che ho letto l’anno scorso, racconta la crisi economica nel Nord Est e lo fa senza sconti: una narrazione cruda quella di Bugaro, un pugno nello stomaco che non ti dà scampo fino alla fine. Al centro della storia c’è una speculazione edilizia o per meglio dire l’operazione della vita dei due protagonisti: la riqualifica di duecentomila metri cubi di terreno, che dovrebbero diventare una nuova prestigiosa area urbana nella campagna veneta. Un progetto enorme, che si alimenta e vive  dell’ambizione e della voglia famelica di uomini che si nutrono solo di business, che si alzano al mattino con l’unico scopo di legare il loro nome, e il portafogli, a qualcosa di grandioso, indipendentemente dalla sua reale utilità, non parliamo dell’etica. Ma ad un certo punto qualcosa si rompe, e non è colpa di nessuno. Divergenze interne a una delle banche finanziatrici bastano a far andare tutto a rotoli: per gli imprenditori a capo dell’impresa e poi giù a catena, per i fornitori, i fornitori dei fornitori, che a loro volta avevano investito, anticipato, dato credito, le loro famiglie, il contesto sociale. L’effetto domino, appunto. Che nessuno ha voluto arginare, quando forse si era ancora in tempo. Perché “fermarsi voleva dire perdere tutto (…). E nessuno avrebbe distrutto l’investimento più importante della sua vita”. Lo consiglio e sono curioso di vedere il film.

giovedì 7 novembre 2019

Niente caffè per Spinoza


Ho amato “Niente caffè per Spinoza” da subito, dal titolo. Ne ho letto una 30ina di pagine da Feltrinelli a Parma dove mi capita, per ragioni famigliari, di passare del tempo in attesa. Al primo piano ci sono poltroncine confortevoli, si può attingere dagli espositori e leggere tranquillamente. Al piano terra c’è invece una zona riservata ai ragazzi per studiare. Amo la Feltrinelli di Strada Farini anche per questo. Sto divagando, ma mi sembrava importante dirlo. Giro tra le corsie e mi lascio guidare dalle emozioni. Sono convinto che siano i libri a chiamarci, non il contrario. Ed è assolutamente inutile opporsi. In un primo momento “Niente caffè per Spinoza” l’ho visto e gli ho girato intorno come Gatto Silvestro con Titti, perché quel giorno avevo un altro obiettivo. Il tempo di sedermi e di non riuscire a concentrarmi sull’obiettivo e son tornato sui miei passi. Di solito, quasi sempre, sempre, quando inizio un libro da Feltrinelli poi lo compro. Mai come stavolta però sono contento di essermi fatto guidare dall’istinto. Elisa è una donna giovane, alla ricerca di tante cose, ma prima di tutto di una ragazza che si occupi della casa e di suo padre anziano, cieco e malato. Elisa vive in Svizzera, con un marito, più o meno, e due figlie adolescenti. Anche Maria Vittoria è alla ricerca di tante cose, per esempio di fare pulizia nella sua vita, a partire dai pesi inutili, il marito e la suocera. E per farlo ha bisogno di trovare un lavoro. Il signor Luciano, anzi il Professore, ex insegnante di filosofia, ha invece bisogno di continuare, per quanto gli rimane, a trovare le risposte giuste dai maestri del pensiero: da Epitteto, Epicuro, Aristotele, da Galilei, Hume, Spinoza, Schopenhauer, ma soprattutto dall’amato Pascal. Nasce tra i due una complicità bellissima, a tratti commuovente. Mentre Maria Vittoria, tra un caffè e una minestra, gli legge i filosofi, il Professore, che ha imparato a vedere nel buio, o forse lo sa da sempre, le insegna la cosa fondamentale: nei libri si possono trovare le idee per riordinare anche la vita. Sul palcoscenico del romanzo, scritto benissimo, ambiente tra Livorno e Pisa, ruotano altri personaggi: gli amici del Professore, ex insegnanti a loro volta, che quotidianamente vengono a prelevarlo per una passeggiata e per discutere di quanto scrivono i giornali. C’è la Vally, l’anziana cognata, c’è la vicina di casa e il medico al piano di sotto, che cerca con discrezione di occuparsi del suo corpo malandato. I segni e le ombre di quando era ancora viva la moglie. Ci sono 2 ex allievi che passano periodicamente, perché non si finisce mai di imparare. Le giornate trascorrono così, apparentemente tutte uguali, cadenzate dalle abitudini e dalle piccole manie tipiche degli anziani: ma sono giornate impreziosite dalle citazioni, che in modo discreto danno un senso al procedere del tempo. Così sino alla fine, che poi non è mai un assoluto, perché è la conoscenza che guida. E quella si impara ma soprattutto si trasmette. Il Professore l’ha fatto per tutta la vita e trova fino all’ultimo il modo di farne dono. Sia materialmente, regalando i libri: uno alla volta, per dare tempo al tempo, sia maieuticamente: anche Maria Vittoria, come Teeteto con Socrate, è travolta dalla fame di conoscenza e l’ultima sera gli confida che riprenderà a studiare. Il romanzo di Alice Cappagli, laurea in filosofia, violoncellista nell’orchestra della Scala, ha un unico difetto. L’ho finito. 

giovedì 31 ottobre 2019

Ogni riferimento è puramente casuale


L’aspirante scrittore che ce la fa ma poi non regge la pressione. Lo scrittore affermato e venerato. Le logiche e i rituali delle presentazioni, anzi delle presentation. Quelli del firma copie. Gli interessi degli editori e quelli degli uffici stampa. Ma anche dei critici, tra frustrazioni e orgoglio: la normalità sconosciuta, chiamiamola così. Perché anche il mondo che sta attorno e chi governa i libri ha i suoi scheletri: c’è chi scrive di suo e chi scrive per altri, c’è chi ha successo, le copertine, i riflettori con la panna montata perché è stato deciso così e poi c’è il gruppo, i gregari, si direbbe nel ciclismo. Un mondo che Antonio Manzini conosce bene, essendo uno dei giallisti di maggior successo, e che mette a nudo con ironia e sarcasmo. Ogni riferimento è puramente casuale è una raccolta: 7 racconti brevi molto coinvolgenti e piacevoli da leggere, che non spoilero proprio per questo. Rimane la morale un po’ amara. Il libro non è cultura, approfondimento, condivisione di idee, o perlomeno non solo. E’ marketing. Per questo, aggiungo io, bisogna diffidare degli osanna e passare del tempo a cercare le chicche in libreria o in biblioteca. Sperando che queste chicche siano arrivate fin lì. Ma su questo noi lettori non possiamo farci nulla.

lunedì 28 ottobre 2019

Noir all'italiana


Del Codice dei Cavalieri di Cristo e di Confusione morale ho già parlato in due post dedicati. Un accenno l’ho già fatto anche sull’Uomo liquido, lettura esilarante: Morozzi ha grandi doti narrative, per due libri è stato capace di tenere in piedi la storia, drammatica, di quest’uomo che a causa di una rarissima malattia ha perso pene e testicoli, rimanendo in pratica liscio – L’uomo liscio era il titolo del primo romanzo – riuscendo comunque a mantenere integra la sua fama di donnaiolo. Le altre 4 letture sono tutti noir e le vorrei riassumere brevemente qui, dichiarando sin da subito le mi preferenze, tra conferme, belle sorprese e piccole delusioni.

La conferma è Roberto Perrone con il terzo romanzo della serie che ha per protagonista Annibale Canessa, libri da leggere in sequenza perché altrimenti si perdono alcuni riferimenti, soprattutto i rapporti tra i personaggi che ruotano intorno al colonnello in pensione. Nell’Ultima volontà, il finto suicidio di un giovane ricercatore porta Annibale e la sua strana squadra, che ricorda un po’ quella dell’Alligatore di Massimo Carlotto, in Emilia, negli anni della guerra partigiana, per fare luce su una vicenda allora sotterrata in fretta e furia e poi caduta nell’oblio. Perrone mette il dito in questioni politiche ancora sensibili sulla lotta di Liberazione, ma lo fa con grande maestria e abilità, senza la pretesa di voler riscrivere la storia o dare giudizi. In attesa del prossimo Canessa, una bella opera prima:

Il seme della violenza di Ludovico Paganelli. Siamo nella Milano dell’Expo, alla vigilia di Natale. Un broker viene assassinato e il commissario Margot Blanchard, donna tutta da declinare al superlativo, a partire da bellissima, si ritrova man mano immersa in una storia torbida, che va oltre la finanza, i soldi liquidi e le perdite in borsa, come possibile movente del delitto. Racconta di donne violate, connivenze e abusi di potere che riporteranno il commissario Blanchard a fare i conti con un passato personale doloroso, sotterrato per anni in un armadio insieme alle foto e le lettere che ne danno contezza ma che ora è chiamata ad affrontare, per sé e per non perdere gli affetti più cari. Lo consiglio.

Su Il cuoco dell’Alcyon ho qualche remora. Il testo nasce come sceneggiatura per una coproduzione italo americana e si vede, nonostante Camilleri abbia rivisto la scrittura per darle la dimensione del romanzo, Il Maestro ci consegna però un Montalbano diverso da quello che conosciamo e a mio avviso poco credibile. I temi sono quelli cari a Camilleri, a partire dal malaffare ai più alti livelli, che si incontra su una barca a vela e che un duo quasi comico, Montalbano Fazio, è chiamato a sgominare in appoggio all’FBI. Ho letto recensioni molto positive su quest’ultimo Montalbano, con argomentazioni peraltro condivisibili, per esempio le riflessioni sulla società attuale, nel caso specifico il mondo del lavoro, che sempre contraddistinguono i romanzi di Camilleri. Ferma restando la scrittura magnetica e le contaminazioni tra giallo e spy story continuo però a non essere convinto e a preferire il vecchio Commissario.

Chiudo con Farinetti che ha da sempre abituato a trame solide e coinvolgenti, immerse nei profumi e nelle atmosfere piemontesi – nello specifico  delle Langhe - e che a quattro anni dall’ultimo romanzo ci consegna questo La Bella Sconosciuta, che devo confessare mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Nel libro ci sono più o meno tutti i personaggi farinettiani, sempre ben disegnati e caratterizzati con precisione e ironia, ci sono come detto le Langhe e i suoi paesaggi, c’è la storia - il morto che più o meno tutti avrebbero potuto ammazzare e un colpevole che non ti aspetti – ma. Personalmente non mi convince la parte, chiamiamola così, sociale, sempre presente anche in Farinetti. Nel caso specifico un tema delicato e tuttora sensibile come il cambio di sesso, che comporta un percorso interiore e di accettazione e che qui finisce per risultare una provocazione e una punizione – vendetta? – verso un certo conformismo borghese.

domenica 27 ottobre 2019

La confusione morale


L’impianto è quello del giallo. C’è un morto ammazzato, un geometra del comune di Milano iscritto al PCI. Ma La confusione morale è un libro politico. Lodovico Festa è stato un funzionario del partito comunista milanese, ne conosceva l’ambiente, le dinamiche, l’impronta burocratica quasi militaresca e come  nel precedente La provvidenza rossa gli viene naturale parlare di quegli anni per darne una lettura e un’analisi storica – e politica – più ragionata e obiettiva. Siamo nel 1984, Berlinguer è appena morto lasciando un vuoto e probabilmente una confusione morale nei suoi eredi. Al governo c’è Bettino Craxi. Milano è guidata da una giunta di sinistra con socialisti e comunisti. Iniziano a farsi strada figure imprenditoriali che contribuiranno a modificare il tessuto sociale ed economico del Paese. La trasformazione urbanistica del territorio milanese è legata a doppio filo a costruttori chiacchierati. In questo contesto matura l’omicidio. Un omicidio che, si capisce sin da subito, diventa un fatto marginale o di contorno rispetto alle implicazioni politiche che potrebbero derivare se la morte del geometra fosse in qualche modo legata al Piano case del Comune, cosa che non dispiacerebbe a Botteghe Oscure. E qui si sviluppa l’inchiesta di Mario Cavenaghi, il presidente dei probiviri lombardi, una sorta di polizia interna, che cerca di dirimere tutte le questioni spinose, a salvaguardia del partito. Cavenaghi non cede alla facile e comoda ricostruzione che ha l’obiettivo di screditare Craxi sacrificando al contempo il governo del capoluogo lombardo. L’indagine è anzi un’occasione per rivedere alcune posizioni. Il mondo stava cambiando e il PCI sbagliava – sostiene Festa – a leggerlo e giudicarlo con logiche e schemi superati. Forse, fa dire l’autore ad alcuni protagonisti, valeva la pena prendere in considerazione alcune idee lungimiranti di Bettino Craxi e aprire un dialogo diverso con il PSI. I destini della Prima Repubblica sarebbero stati diversi, non solo perché affidare alla magistratura la surroga della politica comporta la morte di quest’ultima, ma anche perché la storia successiva dell’Italia sarebbe stata diversa, sia a sinistra che soprattutto a destra. La confusione morale è un bel libro ed è una lettura interessante per chi ha vissuto quegli anni, magari un po’ macchinosa: l’autore la scrive volutamente con la lentezza tipica delle meditazioni, dei dubbi e delle ricostruzioni di un burocrate del partito comunista, ma quando si entra nella narrazione la sostanza compensa lo sforzo.

venerdì 25 ottobre 2019

Il Codice dei Cavalieri di Cristo


C’è il cadavere di un uomo sul monte Pellegrino a Palermo, la gola tagliata e degli strani segni sul petto. A dare l’allarme è Julien Brunner, docente di Geoscienze dell’Università di Losanna, che rilascia la sua deposizione, poi esce dalla Questura e sparisce nel nulla. Il giorno successivo altri due cadaveri, a Cefalù: un uomo e una donna, appartenenti ad una setta esoterica, gli stessi segni sul petto, che si scoprirà poi essere simboli di un alfabeto antichissimo, l’enochiano. Quando gli inquirenti cercano di rintracciare Brunner per capirne di più, scoprono che il professore, di origine portoghese, è in realtà morto il giorno prima di comparire vivo e vegeto sul monte siciliano. Inizia così la nuova indagine del vicequestore Giovanni Barraco, capo della Mobile di Palermo. Un caso che lo porta a Lisbona ad indagare dapprima in un convento – il primo morto era un frate – e poi indietro nel tempo nell’Ordine dei Cavalieri di Cristo, che nella capitale portoghese viene tenuto in vita dai discendente diretti appartenenti alla nobiltà locale, in teoria con l’obiettivo statutario di fare opere di bene, in realtà non tutti in quel consesso la pensano allo stesso modo. Ci saranno altri morti, a partire proprio da uno di questi Cavalieri, in un susseguirsi di colpi di scena orchestrati con maestria e abilità da Carmelo Nicolosi, che vedono il suo Barraco impegnato in una delicatissima partita a scacchi, dove ad ogni mossa si rischia il matto (o il morto): il vicequestore non solo deve sciogliere la matassa sempre più ingarbugliata di un caso internazionale - anche la mafia marsigliese entrerà nel gioco e la storia si intreccerà con un'altra vicenda: il traffico illegale di gioielli dal Congo - ma è costretto a guardarsi le spalle perché nella polizia portoghese c’è chi potrebbe fare il doppio gioco. Per venirne a capo Giovanni Barraco può contare solo sui suoi uomini a Palermo, su Gisella Bruno, che lo raggiungerà a Lisbona, sul tenente Celia Moreira, avvenente collega con la quale nascerà qualcosa di più della semplice colleganza e Paulo Mafra, agente della polizia locale. Barraco alla fine troverà il colpevole, il burattinaio di tutti i morti ammazzati – e sono tanti - ma la cosa interessante è che fino alle ultime pagine non si riesce a capire chi è e perché. E quello che mi sento di dire è che anche il mio amico Carmelo credo l’abbia deciso solo agli ultimi 300 metri. Come in una gara di ciclismo ha portato sul rettilineo finale i 4-5 velocisti più forti, nel nostro caso i papabili colpevoli, e alla fine ne ha scelto uno. Al fotofinish. Inutile dire che lo consiglio.

giovedì 24 ottobre 2019

Non c'è stata nessuna battaglia



Romolo Bugaro, avvocato padovano della mia generazione, l’ho scoperto per caso più di 20 anni fa mentre vagavo per la città del Santo. Presentava ad una festa del libro il suo primo romanzo La brava e buona gente della nazione, finalista del Campiello. Poi l’ho perso di vista. Lo scorso anno ho letto Ragazze del Nordest; Bea vita. Crudo Nordest e Effetto domino. Adesso questo Non c’è stata nessuna battaglia. Le storie di Bugaro sono vere, crude, te le senti addosso: sono quelle della provincia, dove le dinamiche sono uguali ovunque e il disagio è un profumo indelebile sulla pelle. Le amicizie, i bar, i motorini truccati, le compagnie, gli amori, i riti di iniziazione. Qui al centro del racconto, in un flash back amaro e doloroso, ci sono le vite di 5 amici, 4 ragazzi e una ragazza – il vecchio Andrea, Nick The Best One, GMT, Tod e la Canova - le loro ambizioni, le speranze, i tormenti. C’è il mondo dei 15enni della fine degli anni 70, che, come tutti, vivono il per sempre ma finiscono per perdersi, a volte senza volerlo, disegnando una realtà altra, che per qualcuno è un buco nero dal quale non riesce più ad uscire, per altri una nuova possibilità, o forse solo un ripiego. Sullo sfondo, anche se non espresso, c’è quello che avrebbe potuto essere,  che per due dei protagonisti viene riportato a galla dopo 30 anni. Una trasmissione vista in tv e una mail inaspettata, fanno tracimare un fiume di malinconia,  mai verbalizzata, mai elaborata, di una giornata in particolare, da dove tutto è iniziato ed ha finito per segnare i loro destini. Romolo Bugaro è indubbiamente bravo, esce tra l’altro dalla “scuola” di Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini; Pao Pao, Rimini; Camere separate), altro autore che mi sento di consigliare.  Chi come me ha superato i 50 ed è nato e vissuto per anni in provincia, può trovare in Non c’è stata nessuna battaglia un po’ della propria adolescenza.


mercoledì 23 ottobre 2019

Lavoro a mano armata


Pierre Lemaitre è un maestro assoluto e “Lavoro a mano armata” è uno dei noir più belli che ho letto. Il tema di fondo è il lavoro: necessario, importante, fondamentale, la vera ragione di vita di ogni essere umano, tanto che quando non c’è più, per tutta una serie di ragioni, nel caso specifico per una ristrutturazione aziendale, anche un uomo come Alain Delambre - colto, sensibile e integerrimo – è disposto ad armarsi per riconquistare quella dimensione personale e sociale che solo il posto fisso sembra dare. La cosa straordinaria di questo romanzo è che cambia registro almeno 4 volte e la storia prende forma su altri percorsi. Alain Delambre ha cinquantasette anni, una moglie e due figlie ormai adulte. Una vita passata a lavorare come responsabile delle risorse umane. Poi la crisi, il licenziamento, la disoccupazione. Si adatta per un po’ a quello che gli viene proposto dall’ufficio collocamento, scivolando però sempre di più nella depressione. Poi, inaspettata, la seconda chance, quella che può ridare un senso a tutto. Per essere assunto Alain deve  superare un test. Deve partecipare da osservatore ad un gioco di ruolo: un finto sequestro di persona, organizzato per mettere alla prova i quadri di una grande azienda. Un’assurdità? Forse. Sua moglie infatti non è d’accordo, ma il signor Delambre non vuole diventare l'ennesima vittima della crisi, vuole lavorare e il lavoro è pronto a prenderselo, se necessario, anche a mano armata. Non rivelo ovviamente il finale. Dico solo che Alain Delambre da osservatore diventa sequestratore vero dei partecipanti al gioco, che viene fermato e arrestato. E che a quel punto inizia un’altra storia. Quella vera.

mercoledì 5 giugno 2019

Per questo mi chiamo Giovanni


Quando frequentavo le scuole medie c’era l’ora di narrativa. Dovevamo leggere un libro, uno all’anno, non ricordo più quali. Si leggeva un po’ in classe, un po’ a casa e se ne discuteva. La scelta dei docenti si orientava su testi che consentissero di fare delle riflessioni di carattere etico e sociale così da fornire gli strumenti critici e far crescere personcine a modo, uno dei compiti secondo me più importanti della scuola. Su invito di un amico, ieri ho letto “Per questo mi chiamo Giovanni”, di Luigi Garlando, caporedattore della Gazzetta dello Sport. E’ la storia di Giovanni Falcone, raccontata da un padre al figlio Giovanni, appunto, nato il giorno dell’attentatuni, della strage di Capaci. Non so se oggi esiste più l’ora di narrativa, ma sicuramente il lavoro di Garlando sarebbe la lettura ideale per far capire ai ragazzi che il male lo si sconfigge prima di tutto con i comportamenti, che significa rettitudine morale, attenzione all’altro e alla cosa pubblica, ma anche non accettare e denunciare qualsiasi sopruso. Poi c’è la storia affascinante e un po’ romanzata di un uomo straordinario che è diventato patrimonio di tutti solo dopo morto, come spesso accade in questo malandato Paese, storia che aiuta a capire tante cose e comunque, soprattutto per i Millenial, conoscerla male non fa

martedì 28 maggio 2019

La guerra dei nostri nonni

Il libro è di qualche anno fa, ma anche gli avvenimenti che narra non sono recentissimi. La cifra distintiva è che qui non ci sono eroi da venerare, ma uomini e donne, i nostri nonni, contadini e braccianti, mandati al massacro da un colpo di stato che esautorò il Parlamento. Aldo Cazzullo racconta la Grande Guerra attraverso le storie e le vicende delle persone normali, la forza morale di cui furono capaci, protagonisti e vincitori della prima sfida dell’Italia unita, non più solo un nome sulla carta geografica. Senza dimenticare le responsabilità di politici, generali e affaristi che portarono il Paese al massacro, Cazzullo narra questa genesi conducendo il lettore nell’abisso del dolore, in una sofferenza che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare: i mutilati al volto, le decimazioni degli innocenti, l’esercito dei folli, le donne friulane e venete violentate dagli invasori, l’istituto degli “orfani dei vivi”, dove le mamme italiane andavano a vedere di nascosto i piccoli tedeschi, che erano pur sempre loro figli. L’Italia nacque allora – scrive Cazzullo - Nelle trincee. Sul Grappa e sul Piave. Eravamo un popolo giovane. Non ci capivamo neppure tra di noi: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo essere spazzati via, dimostrammo di essere una nazione. Un consiglio di lettura, soprattutto per i più giovani.
 
 

lunedì 27 maggio 2019

Sinistri


antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto, che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo, arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso
Siamo nel 2023. L’Italia è stata ormai traghettata nella Terza Repubblica. Al governo c’è il Partito della Felicità che ha messo al bando tutte le altre forze politiche in nome di una fantomatica pace sociale. Una “risoluzione programmatica” iniziata qualche anno prima e culminata nel 2019 con l’arresto, la condanna per terrorismo e la sparizione fisica di quella che all’epoca venne ribattezzata la Banda dei Nove: i leader del principale Movimento d’opposizione nato dal blog antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto, che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo, arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso.antieroi.org. Solo l’ideologo, Adelos, l’uomo senza volto, che nessuno ha mai visto, sfugge alla cattura. Il 15 maggio 2023, anniversario della caduta del Movimento, sul tavolo del capo della Polizia, Egidio Servillo, arriva un plico. Contiene 10 racconti, apparentemente slegati tra loro. Da un’attenta lettura Servillo capisce però che ognuno si riferisce ad un componente della Banda. E tutti insieme raccontano a loro volta una storia di potere, di violenza, di orrore. È evidente che a scriverli non può essere stato che Adelos. E a quel punto Egidio Servillo ha anche tutti gli elementi per intuirne l’identità. Ma non è questa scoperta il risvolto più inquietante e non lo è nemmeno il pericolo del ritorno dei terroristi.
“Sinistri” non è un libro di fantapolitica. È un romanzo politico appassionante. Anzi, il futuro è solo un pretesto per analizzare la realtà e per dire che non serve essere politologi per capire cosa stiamo vivendo e cosa ci aspetta. Sopratutto che non c’è nulla di nuovo o di clamoroso. Le risposte sono già state scritte, basta leggere appena sotto la superficie. Due parole sugli autori. Tersite Rossi è un collettivo di scrittura. Prende il nome dal Tersite omerico, un antieroe che sfidò l’ipocrisia del potere ma finì per essere bastonato e deriso


lunedì 13 maggio 2019

La logica della lampara


Non sempre quello che si vede è quello che si vede. A volte è solo apparenza di una verità costruita ad arte. Ci sono due testimoni attendibili che all’alba vedono gettare dagli scogli una valigia trasportata a mano con grande difficoltà. C’è subito appresso una telefonata anonima che denuncia alla polizia un possibile omicidio in una villetta a mare. C’è del sangue in quella casa che corrisponde al sangue trovato nella valigia e soprattutto c’è la ragazza che aveva affittato quella casa che non si trova più: una giovane avvocato occupata del principale studio della città. E guarda caso nella valigia c’è il suo iphone, dal quale la scientifica riesce a recuperare tutto il contenuto: chat, messaggi vocali, immagini e quant’altro sufficienti a chiudere in faccia le porte del carcere, per non aprirle mai più, al titolare dello studio, un notabile in odore di mafia. L’unica cosa che manca è il cadavere, che rimane sullo sfondo, più che in fondo al mare. E questo in un’indagine di omicidio non è indifferente. Troppo semplice comunque, troppo facile per Vanina Guarrasi, vicequestore della Mobile di Catania. Nonostante sia convinta che il grande avvocato mammasantissima la galera la meriterebbe a prescindere, per un’accusa così grave ci vogliono dei riscontri più solidi. E in effetti le cose sono molto più complicate di quanto qualcuno vuol far credere. Anche per questo caso sarà determinante l’appoggio dell’ottuagenario commissario in pensione Biagio Patanè, che già in Sabbia Nera aveva riportato alla luce una storia antica nella quale c’erano i prodromi dell’indagine in vetrina. La verità verrà ricostruita poco alla volta grazie alle intuizioni della Guarrasi e non sarà la verità dell’apparenza. Ecco, io sono ufficialmente innamorato di Vanina Guarrasi e la colpa è di Max di Domenico che conoscendo la mia passione per la Sicilia me l’ha fatta conoscere. Per gli amanti del genere, “La logica della lampara” di Cristina Cassar Scalia è da leggere.

martedì 26 febbraio 2019

L'unica storia


“Abbiamo quasi tutti un'unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo in altrettante storie. Ma ce n'è una sola che conta, una sola da raccontare, alla fine”. Questa è la storia d’amore di Paul, studente inglese di 19 anni. Quella con Susan, 48 anni, madre di famiglia, conosciuta un’estate al circolo del tennis. Con lei, per lei, Paul impara l’amore per sempre e il suo contrario più doloroso. Che non è l’odio, ma la consapevolezza che nemmeno un sentimento sconfinato è in grado di salvare dall’autodistruzione la donna della sua vita: di proteggerla dall’alcol, dalle bugie e dalle verità nascoste che giorno dopo giorno si sono accomodate nella loro cucina. Fino allo strazio dell’abbandono, perché per entrambi non c’è salvezza e per non affogare Paul è costretto a restituirla – restituirla, fa male solo dirlo - alla sua vecchia famiglia. Paul la sua unica storia la racconta a distanza di 50 anni, quando i protagonisti sono quasi tutti scomparsi. Lo fa all’inizio in prima persona, completamente immerso in una dimensione nuova, fantastica, inebriante, trasgressiva. Passa quindi ad alternare la prima alla seconda persona quasi volesse raccontare prima di tutto a sé stesso i fatti e leggerli con maggiore obiettività. Per arrivare poi definitivamente alla terza, dove l’io narratore scompare e quello che è successo viene presentato nella sua cruda realtà. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo, che come ne “Il senso di una fine”, l’elemento dominante del romanzo di Julian Barnes è il tempo, che trasforma le persone e i sentimenti, esalta e avvilisce le relazioni, alimenta e distrugge l’amore. E al concetto del tempo è legata la funzione della memoria, che permette di rivivere il passato con nostalgia ma con più equilibrato e corretto distacco. “L’unica storia” non è un romanzo di iniziazione sessuale: è un approfondito esame dell’animo umano e di come esso reagisce di fronte ad un sentimento totalizzante, che a volte, come in questo caso, si presenta nel suo aspetto meno convenzionale. (…) ciascuno ha la propria storia d’amore. Anche se è stata un fallimento, anche se si è ormai spenta, o non è mai riuscita a partire, o se fin dal principio era tutta e solo mentale, questo non la rende meno vera. E’ l’unica storia (…).

domenica 24 febbraio 2019

Mio padre è stato anche Beppe Viola


(…) Lì, nella chiesa dove avevo fatto la prima comunione e la cresima, dove ero andata a confessarmi per tutte le palle che raccontavo ai miei, o perché giocavo al dottore con Fabio e sapevo bene che era peccato, in quella chiesa lì, appunto, vidi per la prima volta la cassa da morto, bella lucida, davanti all’altare. E lì dentro c’era papà. Come fa a uscire da lì? Fino ad allora per me era morto Beppe Viola, quello della televisione, quello che fa ridere. Fu solo in quel momento che mi resi conto che a morire era stato il mio papà, e cominciai a stringere io la mano a Enzo, e la gola stringeva me, e finalmente avvertii la prima lacrima calda, lenta, densa e pesante di un dolore e di una solitudine che sarebbero diventati miei compagni per tutta la vita (…). Fu la mamma, dopo aver lanciato una rosa rossa nella fossa, sopra la bara, a rompere il silenzio. “Ciao, Peppi”, disse. L’ultimo loro momento di intimità. Quel “ciao Peppi” lo sento rimbombare dentro di me, un’eco che non si è ancora placata (…). Non disse addio perché nessuno di noi era pronto per un addio. Fu semplicemente un ciao, un ci vediamo, un a dopo. Quasi come una speranza. Un’illusione che questo non fosse altro che uno di quegli scherzi che ci faceva lui, che poi ricompare e tutti ridiamo come matti (…).

Marina Viola, la seconda della 4 figlie di Beppe, a oltre 30 anni dalla morte del padre ha cercato di ricostruirne l’identità attraverso i racconti degli amici più cari, quelli noti e quelli sconosciuti: del bar, dell’ippodromo, della strada. L’ha fatto perché quando muore tuo padre e tu sei ancora una bambina i ricordi con il tempo si affievoliscono e il rischio è che rimanga solo il mito. Ma anche per lasciarlo finalmente andare quel papà che è stato anche Beppe Viola. E’ un bel libro questo firmato da Marina: sull’uomo, sul padre, sul marito, con tutti i suoi pregi e i tanti difetti. A me manca Beppe Viola, manca tanto, come credo manchi a chi fa il giornalista. Immagino alle figlie. Non arriverà mai il momento di dirgli addio.

giovedì 10 gennaio 2019

Il mio Novecento

Una lectio magistralis di una sessantina di pagine che racconta un secolo, il 900, che ha visto - cito a memoria- due guerre mondiali, 187 milioni di morti, dissolversi 4 imperi, la caduta del Muro, la disgregazione del sistema coloniale, l’implosione dell’Unione Sovietica, il Vietnam, la Corea, il conflitto nell’ex Jugoslavia, quello tra Iran e Iraq, l’ancora irrisolta questione palestinese, l’era atomica che oggi impone l’equilibrio mondiale. Bernardo Valli racconta da cronista e da testimone oculare e di penna il suo e il nostro Novecento. Un saggio breve, anzi un libretto di istruzioni da mettere in tasca alle generazioni che non hanno visto e agli scettici d’Europa, che hanno perso la coscienza della vittoria che l’Unione rappresenta in 70 anni di pace.

domenica 6 gennaio 2019

Blackout


Domenica di ferragosto, periferia di Bologna. Nell’atrio di un palazzo di 20 piani stanno per incrociare le loro vite un ragazzo di 16 anni, una giovane donna poco più che ventenne e un uomo di quasi 50. Il 16enne sta per salire per l’ultima volta a casa sua: in stazione a Parma lo aspetta la fidanzata con la quale ha deciso di fuggire: forse a Parigi, o ad Amsterdam, comunque lontano da lì. La donna ha appena finito il turno in un bar del centro. Non vede l’ora di togliersi la divisa volgare con cui è costretta a muoversi tra i tavoli e passare la prossima mezzora sotto la doccia. L’uomo è l’unico a non vivere nel palazzo. L’appartamento che ha affittato nasconde la sua seconda vita, lontana anni luce da quella conosciuta del padre di famiglia e dell’imprenditore di successo. In quel momento, è il primo pomeriggio, nessuno di loro sa ancora che quella torrida giornata di festa sta per diventare il loro incubo per sempre. I tre salgono in ascensore portando con sé sogni e progetti. E lì ci rimarranno per le successive 10 ore. Un tempo infinito, durante il quale nessuno si accorgerà di loro, nessuno li andrà a liberare. Blackout è il primo dei romanzi scritti da Gianluca Morozzi. Se fosse un film, prima della proiezione apparirebbe la scritta: per le immagini e i contenuti è consigliabile solo ad un pubblico adulto. Perché in 10 ore, in quei pochi metri (e non solo) accadrà l’inimmaginabile, con un crescendo emotivo che l’autore racconta con grande abilità, fino all’epilogo finale. Sul quale non mi soffermo, perché anche quello è oltre ogni ragionevolezza, e forse proprio per questo drammaticamente vicino alla realtà, tanto da fare di Blackout, mi sia concesso, un romanzo quasi sociologico, su chi siamo, cosa siamo disposti a fare per, a sopportare e, soprattutto, a non vedere. E se tutto ciò presuppone o pretende il sacrificio di qualcosa o di qualcuno, pazienza.