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giovedì 30 agosto 2007

Lavavetri

Alzi la mano chi non ha mai avuto un moto di stizza di fronte alle insistenze di uno dei tanti lavavetri che abitano i semafori delle nostre città? Ammesso ciò, e magari fatta anche pubblica ammenda, la maggior parte di noi dotata di un minimo di coscienza, non può non aver provato un po' di disagio nel vedere ragazzini, quando non addirittura bambini, costretti a questa nuova forma di accattonaggio.
Oggi, improvvisamente, scopriamo che queste persone, tutte, indistintamente, non sono reietti ma in realtà un problema di ordine pubblico. Personalmente condivido l’articolo di Giuseppe D’Avanzo, “Quando il Palazzo ignora la realtà”, pubblicato stamattina da Repubblica e mi conforta la dichiarazione di Rosy Bindi all’agenzia Ansa.


QUANDO IL PALAZZO IGNORA LAREALTÀ

di Giuseppe D’Avanzo

Lavavetri, racket, pedofili, incendiari, mafiosi. Il dibattito politico sembra orientato finalmente verso la realtà, quello sgradevole accidente così poco elegante con cui bisogna fare i conti perché la gente che vota – e decide del potere - ci vive immersa fino al collo. Potrebbe essere un eccellente indizio, un segnale di rinnovamento di un Palazzo che, soffocato dalla sua autoreferenzialità, si sporge dal balcone, scende in strada e cerca di accostarsi alla "vita reale" considerata finora informe, noiosa, insignificante. Purtroppo non c'è da entusiasmarsi, se non per il tempo necessario ad ascoltare quel che vanno dicendo i Grandi Inquilini venuti giù in strada. Si può fare qualche nome a caso, e parleremo dei più seri del centro-sinistra,non dei ciarlatani ch, a destra, s'improwisano da tempo imprenditori politici della paura. Di Bertinotti, ad esempio, e soltanto perché è l'ultimo ad avere preso la parola a proposito dei lavavetri. Mi piacerebbe che si colpisse prima il racket che lì organizza,dice. Ma è proprio vero che ci sia un racket? Se ci si rivolge ai procuratori di mezz'Italia, la risposta sarà un no, non c'è traccia nel loro lavoro di un racket di lavavetri. Di minorenni costretti in stato di schiavitù a mendicare, si. Di donne costrette a prostituirsi, si. Di lavavetri, no. La questione non cambia nella forma, certo. Se a Firenze i lavavetri sono aggressivi e minacciano e impauriscono i più deboli, perché è più facile, è doveroso proteggersene e punirli e prevenire le mosse di quella massa critica di emarginati che affligge le città con una criminalità predatoria e diffusa. Ma il fatto è che contro questo tipo di criminalità - al di là di qualche ossessivo luogo comune propagandistico - la mano è già pesante. Per oltre l'80 percento, le nostre carceri sono affollate proprio da quella gente li, emarginati, tossicodipendenti, migranti. La vogliamo più pesante? Bene, se servisse. Ma siamo proprio sicuri che portando quella percentuale a 85/90 per cento le città ne abbiano sollievo? Discutibile, se non si affrontano anche le ragioni del crimine. «Tough on crune, tough on the cause sofcrime», diceva Tony Blair già nel 1993. Quelle ragioni andrebbero dunque esplorate. Ignorarle come fanno i Grandi Inquilini cambia allora nella sostanza la questione perché alla politica spetta non solo alleviare i sintomi della patologia, ma contenerne le cause. In quanto a questo gli Inquilini del Palazzo - anche quando sembrano voler abbandonare il paradigma che associa il crimine diffuso al disagio sociale - appaiono a corto di idee anche perché, soprattutto, a corto di informazioni. Per fare un altro esempio e un altro nome. Veltroni. Sostiene che la privacy per i pedofili non debba valere, devono portare scritto in fronte o sulla carta d'identità - non si è ben capito - quel che sono. Può essere un'idea. Ma è proprio certo che la pedofilia sia cosi estesa da giustificare una sospensione così rilevante dei diritti paragonabile soltanto a quella inaugurata con I'11 settembre? E' possibile, come si chiedeva Lietta Tornabuoni qualche tempo fa, che tanti italiani siano pedofili? Non si ha ragione a coltivare qualche dubbio se gli unici dati a disposizione sono originati da quelle organizzazioni che di lotta alla pedofilia vivono e prosperano? Non è legittimo temere che la loro rappresentazione della realtà sia troppo intenzionale? Si può paventare che il contrasto alla pedofilia, odiosa e spaventevole come il terrorismo, sia il nuovo prodotto lanciato sul mercato della paura, il nuovo grimaldello per violare a uso delle polizie privacy, comunicazioni, propensioni, curiosità, reti sociali? Gli esempi potrebbero continuare. Ancora uno. Di nuovo Veltroni, e in attesa che Bindi e Letta dicano la loro. ragionevole andare in Calabria per spiegare che la confisca dei beni debba essere lo strumento per sconfiggere la 'ndrangheta senza dire perché e per responsabilità di chi quello strumento, già a disposizione, è stato mozzo fino a oggi? O, per dime un'altra, tacere che i capitali delle mafie non sono a Locri, ma a Milano, in Germania, in Svizzera? Si può non dare ragione del perché soltanto il 12 per cento dei detenuti e in carcere per fatti di sangue o di mafia? Più di trent'anni fa, Pier Paolo Pasolini si chiedeva perché «la cronaca» fosse relegata in un «ghetto mentale», chiusa in un «reparto stagno». Analizzata, sfruttata, manipolata, ma «non collegata con la storia seria, non resa cioè significativa». Perché rapine, rapimenti, criminalità minorili, furti, omicidi gratuiti, protestava, sono in concreto «esclusi dalla logica e comunque mai concatenati»? Perché, chiedeva (era il 1975), «questa diacronia tra la cronaca e l'universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali?». Sono domande che hanno ancora un'ostinatissima attualità. Pasolini si rispondeva che a quella «massa di criminaloidi» (italiani) «non si può parlare in nome di niente» e che le poche élites colte sono «soffocate, da una parte, dal conformismo e, dall'altra, dalla disperazione». E' una ragione che dopo trent'anni ancora tiene. Al lavavetri di Firenze, al di là di una minaccia, non si sa che cosa dire ne il lavavetri ha voglia di sentirsi dire qualcosa. Quel che appare peggiorato da quel tempo è che le élites colte non avvertono con disperazione la loro impotenza. L'alleviano e la nascondono con un ordinario conformismo che ha come unica direzione l'inseguimento delle paure (reali o virtuali, non importa), dei desideri, delle ambizioni, degli egoismi e furbizie di italiani confusi e contraddittori: vogliono prostitute, ma non vederle sotto casa; vogliono cocaina, ma non lo spacciatore nella strada accanto; vogliono lavoro a basso costo e in nero, ma non clandestini. Il solo orizzonte in cui si muovono oggi gli Inquilini, usciti dal Palazzo incontro alla «cronaca», è quella fantasmagoria di «coriandoli» che oggi è l'antropologia italiana. I riformisti non fanno eccezione. Credono di poter cosi aumentare il loro consenso. E' un'illusione. Berlusconi, come sostiene Giuseppe De Rita, assomiglia troppo a quel che sono diventati gli italiani per potere essere sconfitto su quel terreno. Davvero è cosi difficile capirlo? Davvero è troppo chiedere che un onesto riformismo, liberato dagli ideologismi, non accompagni e sfreghi e strusci la realtà, ma comprendendone le verità nascoste, abbia l'ambi-zione di modificarla?


LAVAVETRI: BINDI, SORPRESA DA REAZIONI CENTROSINISTRA
BARI
(ANSA) - BARI, 30 AGO - "Sono sorpresa e anche un po' indignata non tanto dall'ordinanza del sindaco Domenici quanto dalle prese di posizione, dalle reazioni a catena cui abbiamo assistito in questi giorni e da cui non è emersa con chiarezza la differenza fra la cultura del centrodestra e quella del centrosinistra in merito ai temi della sicurezza, dell'ordine e della pulizia nelle nostre città". Lo ha detto il ministro della Politiche per la famiglia, Rosy Bindi, oggi a Bari per promuovere la sua candidatura alla guida del Partito Democratico. "Credo che dobbiamo liberare le nostre città dai lavavetri, dagli abusivi - ha detto - ma dobbiamo liberare anche gli abusivi e i lavavetri dal racket e soprattutto dobbiamo interrogarci su dove vanno e cosa fanno queste persone quando non sono più nelle nostre strade". "Una ordinanza che viene assunta dopo tanti anni - ha aggiunto - senza che sia stata svolta un'opera umanitaria nei confronti di queste persone, insospettisce sulla cultura della sicurezza e della solidarietà del centrosinistra". "Credo che il sindaco di centrosinistra e del Partito Democratico debba innanzitutto chiedere a chi lava i vetri come si chiama, da dove viene, dove abita, cosa fa dei soldi che raccoglie, perché noi potremo anche toglierlo dalla nostra vista ma non l'avremo liberato e non gli avremo restituito la dignità".(ANSA).

venerdì 17 agosto 2007

Zingari

C’è stato giusto il tempo di indignarsi (e un po’ vergognarsi) per quel fuoco che ha bruciato vive delle vittime innocenti disturbando la tranquillità delle nostre vacanze estive, di dire che i rom sono un problema politico e di fare la mappa delle città buone e di quelle un po’ meno. Poi la mattanza di Duisburg ha spostato l’attenzione e cancellato gli zingari dai giornali. Certo sarebbe stato meglio, che so, una vittoria della Ferrari, visto che il made in Italy non ne esce granchè bene, ma tutto sommato anche questa è una storia più riconoscibile, che si può circoscrivere e spiegare con ragioni culturali, persino antropologiche e comunque è da sempre relegata ad un mondo altro, che fa comodo ritenere parallelo e ineluttabile. I bambini che bruciano nei sobborghi delle nostre città creano invece più disagio nelle coscienze. Leggendo le cronache e il conseguente pietismo politicamente corretto, mi sono ricordato di un brevissimo saggio dello scrittore Antonio Tabucchi “Gli Zingari e il Rinascimento – vivere da Rom a Firenze” pubblicato nel ’99 da Feltrinelli. Tabucchi racconta di questo suo breve viaggio nell’emarginazione, dove ha accompagnato per un reportage un'amica e collega. Mostra il contrasto tra una città che guarda sempre altrove e volutamente dimentica o nasconde alla vista i propri mostri. E’ un caso che si parli di Firenze, perché Tabucchi ci abita, ma potrebbe essere qualsiasi altro posto. Del resto a chi interessano gli zingari? Ladri, accattoni: brutti, sporchi e cattivi. Uno stereotipo a cui, c’è da dire, loro stessi fanno poco nulla per affrancarsi. Il punto è che i flussi migratori sono sempre più massicci e continuare ad ignorarli o farne solo una questione di ordine pubblico o di campi, in ogni caso il più lontano possibile dalle vetrine del centro, non risolve la questione. Se non ce ne siamo ancora accorti esiste un problema e sarebbe il caso di affrontarlo con progetti di più ampio respiro che non il solo mettere mano al portafogli.
Nel saggio di Tabucchi c’è una pagina molto forte, una provocazione, certo, ma anche un invito a non perdere di vista il senso e il valore delle cose.

“Appello ai fiorentini che ancora conoscono il senso della civiltà.
Fiorentini: il vostro centro storico è percorso quotidianamente da automobili aggressive, volgari, lussuose, rumorose e arroganti, guidate da persone dall’aspetto aggressivo, volgare, lussuoso, rumoroso e arrogante che strombazzano e vi investono se non vi fate da parte rapidamente. Teoricamente non potrebbero entrare in questa zona pedonale, ma non c’è vigile che li controlli. Sono i corsari delle vostre strade.
Fiorentini: il vostro centro storico è percorso quotidianamente da scooter aggressivi, volgari e lussuosi, guidati da giovanotti e da ragazzi aggressivi, volgari e lussuosi che, guidando con la mano sinistra, telefonano con la mano destra, lanciando messaggi idioti a dei Lapi o a delle Beatrici e cercando soprattutto di mettervi sotto.
Fiorentini: il vostro centro storico è percorso quotidianamente da bande di poveri turisti, silenziosi, tristi, timidi, individualmente beneducati, ma resi barbari da terribili tour-operator che li torturano scaricandoli da terrificanti autobus a due piani muniti di air-conditioned e di cuffie stereo e provenienti da 1500 chilometri di distanza con un viaggio notturno (arrivano da Parigi o da Londra); turisti provenienti dalle zone più lontane del Globo (Nuova Zelanda, Giappone, Arkansas) ai quali nulla importa dell’affresco del Perugino, dove il naso del santo di profilo è radicalmente diverso dalla prospettiva giottesca, ma desiderosi solo di una pizza, di un gabinetto e di una Coca-Cola, la cui lattina sarà gentilmente depositata sui marciapiedi.
Fiorentini: firmate questo appello-referendum per allontanare tutte queste persone che portano qualche soldo nelle vostre botteghe e che, come dice la stampa: “arricchiscono l’economia della città”. Fiorentini, fate un atto di coraggio, chiamate al loro posto gli Zingari della periferia, essi sono ladri, astuti e cattivelli. Alla prima occasione vi ruberanno il portafoglio forse, nel migliore dei casi vi importuneranno chiedendo un’elemosina all’incrocio di questa antiche strade. Non vi porteranno ricchezza; al contrario, ve ne sottrarranno un po’ se appena gli sarà possibile. Ma con loro vivrete meglio, in maniera meno nevrotica, con minore tensione, con maggiore allegria e distensione, come devono convivere tutte le creature alle quali è concesso di vivere non oltre i settanta o ottant’anni quando va bene.
Fiorentini, firmate quest’appello per la sopravvivenza della vostra identità umana, se non volete diventare una merce di scambio”.

da “Gli Zingari e il Rinascimento”, Antonio Tabucchi, Feltrinelli editore

martedì 7 agosto 2007

La medicina e la fede

Credere e curare è il titolo del volumetto firmato dal sottosegretario alla Salute Ignazio Marino, per le Vele della Einaudi (113 pagine, 8 euro): un breve saggio in cui l'autore, chirurgo esperto in trapiantio d'organo, riflette sui cambiamenti imposti alla professione dai progressi della scienza e su come questi avanzamenti impongano di fare i conti con l’etica e le coscienze.

Il progresso scientifico ha rivoluzionato la posizione dell’essere umano nei confronti della vita, delle malattie e della morte. Oggi si può nascere in diversi modi, si può essere curati con terapie straordinarie e tenuti in vita quasi contro ogni logica. Il progresso pone però di fronte a innumerevoli domande: in particolar modo chi è credente – e Marino lo è - è chiamato ad un confronto serrato con la propria coscienza. La fecondazione medicalmente assistita, in primis l’eterologa, così come l’utilizzo degli embrioni a scopi terapeutici, obbligano qualsiasi medico cattolico a chiedersi dov’è il limite etico e morale tra la vita, il dovere di salvare un paziente colpito da una grave malattia e la manipolazione genetica. Secondo Marino, che affronta questi temi con grande rispetto per le diverse posizioni cercando di fare sintesi, si potrebbe iniziare stabilendo un punto fermo tra l’analisi degli embrioni e l’eugenetica. La scienza peraltro è già in grado di dare risposte in merito, arrivando a congelare l’ovocita allo stadio dei due pronuclei, quando cioè i due corredi cromosomici sono separati e non esiste ancora un nuovo Dna. In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi, potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Sono cellule che potrebbero quindi essere conservate senza sollevare interrogativi etici. Biologicamente non c’è una nuova vita, e presumibilmente nemmeno dal punto di vista spirituale. Sull'utilizzo degli embrioni attualmente congelati, l'autore, da medico, esprime una posizione più netta, chiedendosi se non sia più giusto utilizzarli per scopi di ricerca, piuttosto che lasciarli morire. Per chi è cattolico si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse, ma anche in questo caso la scienza può venire in aiuto. Dice Marino: "Si potrebbe forse individuare il momento in cui un embrione perde la capacità di moltiplicare le sue cellule, cioè la possibilità riproduttiva, e non può più essere utilizzato per dare origine a una vita. A quel punto, con un meccanismo simile a quello previsto per la donazione degli organi di un paziente in morte cerebrale, gli embrioni potrebbero essere donati ai laboratori di ricerca. Si potrebbe pensare di elaborare, su basi scientifiche, la definizione di 'morte riproduttiva' così come è stato fatto con il concetto di morte cerebrale (...) Questa definizione, oggi universalmente riconosciuta, ha permesso lo sviluppo della chirirgia dei trapianti ma prima di quel momento il prelievo degli organi da un paziente a cuore battente era considerato un reato". I parlamenti sono dunque in ritardo rispetto sia ai laboratori sia alle tante domande sollevate dal progresso. Qual è il confine tra il diritto alla cura e l'accanimento terapeutico? E' giusto o no tenere in vita una persona allo stato vegetativo? Un medico – dice Marino – deve fare il possibile per guarire il malato, non per aiutarlo a morire. Ma se è moralmente inaccettabile somministrare un farmaco che provochi la morte, è altrettanto vero che una persona ha il diritto di esprimere le proprie volontà, sottoscrivendo per esempio un testamento biologico a cui il medico dovrebbe attenersi in caso di necessità. Riflessioni importanti e dirimenti, che Marino mette sul tavolo della discussione (trovando un attento interlocutore nel cardinal Martini, prelato illuminato e di grande spessore) sapendo che il progresso scientifico attuale difficilmente può essere incasellato in una legge rigida, ed è fondamentale il dibattito continuo e costante tra scienza, religione e politica per non lasciare soli i medici e soprattutto i malati.

Passione e disincanto sono invece le note dominanti nell’analisi della professione. Fare il medico, per Marino, rimane una missione, un servizio verso gli altri: significa non perdere mai “quella forte spinta ideale” che ti consente di credere “nelle immense possibilità del curare e di sconfiggere le malattie”. La malattia, il dolore, fino alle estreme conseguenze della perdita, fanno purtroppo parte della vita di un uomo. Compito del medico non è solo di intervenire meccanicamente sul danno. Il paziente non è una macchina e tantomeno un numero: è una persona con tutte le sue complessità e ricchezze. Non solo: per qualcuno, fuori da quella stanza d’ospedale, la stessa persona rappresenta tutto il mondo. Ecco perché sedersi accanto al suo letto, ascoltare, parlare con chi ti affida la sua vita non è mai una perdita di tempo: è parte integrante della terapia.
Oggi tutti questi ideali di cui si sono nutriti Marino e i medici della sua generazione sembrano però essersi perduti. La professione è dominata dalla tecnologia (il cui valore resta comunque indubbio nel progresso della scienza medica, anche se ha disumanizzato il rapporto con il paziente), ma soprattutto dalle esigenze economiche e di bilancio, che fanno del medico un ‘impiegato’ della medicina. Di fronte a questa situazione molti colleghi si sono rinchiusi nel proprio guscio cercando di sopravvivere, altri se ne sono andati in Africa per ritrovare un senso al proprio agire, altri ancora si sono semplicemente adeguati, cercando di trarne profitto. E quel che è peggio – scrive Marino - i più giovani non vivono tutto ciò come un problema. Che fare dunque? Il primo passo - suggerisce - dovrebbe essere quello di riconoscere che invece il problema esiste. Una volta posta la questione bisogna quindi affrontarla con metodo scientifico. “Solo se saremo capaci di trovare il vaccino per prevenire la perdita di coscienza e di valori, per impedire a noi medici di smarrire il senso della missione, che ci renda immuni dall’intraprendere percorsi non etici - sostiene Marino - avremo nelle nostre mani una risorsa più grande di qualunque tecnologia”.