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giovedì 31 marzo 2016

Nonni


I nonni della casa di riposo hanno sempre gli occhi bassi. Non penso lo facciano perché per la maggior parte sono costretti in carrozzina, e la loro prospettiva visiva ne risulta condizionata. Sono più propenso a credere che sia dignità la loro: la volontà di tenere per sé la tristezza e il peso di una sconfitta, ancora più della consapevolezza di vivere un ultimo tempo, scandito dalla monotonia di gesti sempre uguali e da un’ineluttabilità maligna e perversa, che ogni giorno bussa alla porta per portarsi via qualcuno, il compagno o il vicino di stanza. Hanno quasi tutti figli questi nonni, che hanno cresciuto probabilmente con sacrificio. Hanno nipoti, che spesso hanno accudito meglio di quanto hanno fatto con i figli, e al posto loro. Figli e nipoti a cui hanno voluto e continuano a voler bene. Lo si legge negli sguardi di quei pochi che hanno il piacere di una visita non di cortesia.  A volte mi trovo a incrociare qualcuno di questi figli e nipoti e a sentire le conversazioni, meglio: ne ascolto i silenzi. E’doloroso pensare di non aver nulla da dire ad un genitore, ad un nonno, non avere un argomento che possa fargli dimenticare per un’ora la violenza dell’abbandono. Vergogna? E’ il minimo che possa capitare. Del resto ognuno alla fine deve fare i conti con la propria coscienza. Di una cosa sono sicuro. Tutti  questi parenti non sapranno mai cosa si stanno perdendo.

sabato 19 marzo 2016

Auguri papà


Durante i primi mesi della sua malattia ci vedevamo con mio padre almeno una volta alla settimana. Mia sorella lo accompagnava in ospedale ed io passavo del tempo con lui nella sala d’aspetto del Day Hospital, in attesa che venisse visto dal medico. L’appuntamento era tassativamente per tutti i pazienti alle 7.30 per il prelievo del sangue. Dopodichè, il passaggio in ambulatorio, con il verdetto sul fixing dei globuli bianchi e la chiacchiera con il dottore, veniva stabilito in base a criteri rigidi: prima chi doveva essere sottoposto a chemioterapia, poi le situazioni più critiche, a valle tutti gli altri. Questo significava che se quella settimana eri considerato alla stregua di un codice bianco potevi stare ad aspettare il tuo turno anche fino alle 14. Un sollievo, in senso assoluto, una passione dover stare più di 6 ore seduti su sedie di plastica. Quel periodo rientra comunque tra i ricordi più piacevoli. Papà tutto sommato non stava malissimo, sembrava che dopo una prima fase critica, i medici avessero finalmente trovato la cura giusta: un vecchio chemioterapico orale che non solo gli aveva stabilizzato il numero dei globuli bianchi, ma gli aveva ridato fiato e appetito. Il cammino, gli era stato detto dal primario, sarebbe stato lungo. In ogni caso non c’era da temere: sarebbe tornato ad una vita accettabile. Di più, nessuno poteva dire di cosa sarebbe morto, perché tutti si muore prima o poi: sicuramente però non di quella malattia che aveva in corpo e che alla prima diagnosi era stata identificata come una mastocitosi. Una bella iniezione di fiducia, no? Di quel periodo ricordo le chiacchierate e il suo sorriso quando arrivavo.  Riponeva gli occhiali, chiudeva il giornale e iniziava a parlare. Parlava dell’ultimo libro letto, del suo orto, sempre con molto orgoglio, e delle bocce, la passione di un tempo.  Era capace di raccontarti partite, tornei interi, accosto dopo accosto, spigandoti la scelta tattica di ogni singola giocata, quelle degli avversari di turno, in un crescendo epico anche fisico e gestuale. Molti di quegli aneddoti li avevo già sentiti, a volte con le stesse parole. In quei momenti però non si ricordava che era in ospedale. E soprattutto del perché era lì.
Auguri papà. Sono passati più di dieci anni da quando te ne sei andato ma non passa giorno senza pensarti.


venerdì 11 marzo 2016

Il campo della chiesolina


Negli anni ‘60 se nascevi nella periferia del mondo non avevi alternative: o giocavi bene a pallone o non eri nessuno. E io, fortunatamente, a pallone giocavo bene. Al campo di fianco alla chiesetta di San Filippo, patrono del paese, che noi monelli, chissà poi perché, chiamavamo chiesolina, di solito ero tra i due che facevano le squadre, o comunque ero sempre la prima scelta di chi vinceva il bim bum bam. Diciamo che gli anni tra il 63 e il 66 sono stati prolifici di ragazzini che ci sapevano fare con il fobal e un paio di noi sono anche finiti in serie A. Comunque non è questo il tema del post. Il tema è il campetto dell’oratorio. Campo a 7 (a stare larghi), dove noi passavamo interi pomeriggi in partite di minimo 2 ore, esclusi i supplementari, fino al "chi segna questo vince", inventandoci sfide intestine tra contrada di sopra e contrada di sotto, quando non eravamo impegnati a difendere con orgoglio l’onore del paese contro i coetanei dei centri limitrofi, a cui ricambiavamo poi la visita a qualche giorno di distanza. Trasferta rigorosamente in bicicletta. Gli accordi su giorno e ora degli incontri venivano presi al telefono da chi all’epoca aveva la fortuna di avere l’apparecchio in casa. Per l’occasione segnavamo anche il campo con la calce, recuperata da un cantiere vicino e apparecchiavamo la porta con la segatura che, già vestiti con le scarpe bullonate, andavamo a prendere con una carriola, sempre del cantiere, nella segheria del padre di uno di noi. Al campo non c’erano spogliatoi a disposizione, quindi si arrivava da casa già in tenuta da calcio. Che poi la tenuta da calcio consisteva in una maglietta più o meno dello stesso colore e i calzoncini, quelli che la mamma non ti aveva messo a lavare nel frattempo. I due lati lunghi del campo erano delimitati, da una parte da un muro a secco e da una rete di un paio di metri che si affacciava sulla via che portava alla parte più vecchia del paese, la contrada alta. Dal lato opposto da un altro muro e da una rete che separava il rettangolo di gioco dall’orto della caserma dei carabinieri e dal cortile di un’altra casa semi abbandonata. In entrambi i casi lo spazio tra il muro e la riga del fallo laterale era largo poco più di un paio di scarpe 42. Uno dei lati corti era protetto da una rete abbastanza alta ma non sufficiente per impedire ad alcuni palloni di andare a finire nella casa dell’invalido (ne ho già parlato in un post passato) e da lì scomparire, malgrado le suppliche e le scuse, o venire restituiti bucati. Di fianco alla casa dell’invalido c’era la mia scuola elementare. L’altro lato corto si apriva invece direttamente sulla facciata di due case: al primo piano di una c'era il bar della signora Rara, l’altra era un casermone abitato solo al 5° e ultimo, ma comunque sempre a rischio vetri se la palla sorvolaba la traversa, come dicevano i cronisti di Tutto il calcio minuto per minuto. Già allora, rispetto ai campi degli altri paesi, era una cosa inguardabile, senza tanto senso. Ma era il nostro campo, il nostro San Siro, l’Olimpico, dove, fieri, non permettevamo a nessuno di venire a vincere. La cosa che mi ricordo di più di quelle sfide era il clima. Cessavano le rivalità tra contrade e nel Cogno giocavano quelli più bravi, che erano riconosciuti da tutti, senza polemiche. Il campo era la mia vera casa, sin dal mattino. Dalla prima alla quinta, in qualsiasi stagione, con qualsiasi clima, prima di entrare alle 8 si tiravano due calci al pallone che tenevamo gelosamente in classe e all’intervallo delle 10.30 si organizzava la partita. A mezzogiorno suonava la campana e all’una la maggior parte di noi era già al campo della chiesolina pronta per il consueto pomeriggio di calcio. Nell’attesa del numero sufficiente si faceva una partita a biglie in uno degli angoli o si scambiavano le figurine dei calciatori. Oggi quel campo non c’è più. Al suo posto han costruito due villette. La caserma dei carabinieri è diventata un piccolo condominio. Così la scuola elementare. Il bar della Rara è chiuso da tempo. La casa dell’invalido invece è sempre lì. Senza più l’invalido. L’ho scoperto di recente perché al paese vado solo a salutare mia madre e non mi è più capitato di fare a piedi i percorsi della mia infanzia. Non so come dire, ma ho provato un dolore quasi fisico, la tristezza di una perdita. Un pezzo non banale della mia storia era stato cancellato per sempre. La maggioranza degli abitanti di oggi il campo della chiesolina, la caserma dei carabinieri, le scuole elementari non li ha mai visti. Del bar della Rara e dell’invalido non hanno probabilmente mai sentito parlare. Dai facciamo una partita. Chi fa le squadre? Bim bum bam. Chi segna questo vince.