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lunedì 29 ottobre 2012

Viale del tramonto

Beppe Grillo, con ironia e non senza malizia, ha detto che è resuscitato prima del terzo giorno. Battuta divertente di un comico in ascesa verso un altro comico in ambasce. A mio parere, più che di resurrezione si dovrebbe però parlare di spasmi post mortem di un uomo incattivito dalla vita, che non si rassegna al proprio declino: declino fisico, del corpo, un tempo ostentato anche in modo imbarazzante come garanzia di successo, e declino politico, certificato questa volta in modo clamoroso dal silenzio assordante dei suoi colonnelli, che - ecco la rabbia - non si sono spesi a sostenerlo contro - come ha detto?-  la magistratocrazia. Eppure, lui che è uomo di marketing, avrebbe dovuto saperlo sin dall'inizio, visto che sui presupposti del mercato ha costruito un primo partito, forza italia, poi un secondo partito, il pdl, ed era pronto a crearne un terzo, perchè l'ultimo brand non tirava più. Come si fa con una bibita o una merendina. Il brand Silvio Berlusconi ha perso appeal e i product manager si sono messi all'opera per trovare un sostituto. A onor del vero anche nel pdl c'è chi ha coscienza politica. Qualcuno se l'è costruita in questi anni, insieme ad un minimo di senso dello Stato. Di fronte quindi alla minaccia di B. di trascinare nel baratro l'intero paese e soprattutto dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, si sono spostati di lato. Altri, i product manager di cui sopra, hanno fiutato l'aria e si stanno guardando intorno, pronti ad abiurare. A Silvio sono rimaste le evabraun delle libertà, Brambilla e Santanchè, e qualche macchietta patetica come la Biancofiore o Giovanardi. A noi rimangono invece le macerie di vent'anni paradossali da cui usciremo (forse) solo perchè, per fortuna, o purtroppo, siamo una nazione a responsabilità limitata e qualcuno a un certo punto ha deciso per noi che la ricreazione era finita.

mercoledì 24 ottobre 2012

Padroni in redazione

Salvarne uno, forse il più cattivo, Sallusti, per educarne cento: l’intero mondo della comunicazione, in tutte le sue forme, e della cultura, scrittori, intellettuali ecc. ecc. Oggi in un’aula del Senato, peraltro deserta, nel disinteresse generale, non è in discussione un privilegio di casta: si sta giocando una partita decisiva per la libertà di opinione e di pensiero. Se dovesse passare il ddl licenziato in commissione giustizia, qualcuno, il potere in generale, potrà disporre delle nostre parole e farne la narrazione che crede.


Fermiamo la legge bavaglio

di FRANCESCO MERLO
Era meglio per tutti, anche per Sallusti, tenerlo in galera. Era meglio per tutti, persino per noi, sopportarlo come un finto eroe e non ritrovarsi invece con un testo di legge che massacra anche il buon senso. La Commissione Rancore del Senato ha scelto insomma di liberare Sallusti e imprigionare la stampa. E dico che non mi interessa la corporazione, non difendo i salari o le pensioni di una categoria e neppure i suoi privilegi di casta.
Il testo che va in aula stamani al Senato non è infatti un sopruso contro noi giornalisti ma è quel bavaglio all'informazione che, perseguito come una chimera maligna negli anni del berlusconismo, solo ora sta per diventare legge nella complice distrazione dei tecnici. Certo, è un colpo di coda del regime che muore. Ma è a doppia firma. C'è la destra che fa il suo solito sporco lavoro, ma c'è la sinistra che mentre millanta nobiltà approfitta dell'inghippo liberticida per mettere a frutto il suo gruzzolo di vendette.

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Ddl diffamazione introduce il diritto all'oblio con multe da cinquemila a centomila euro


lunedì 22 ottobre 2012

Prigionieri di Monti

Quello che manca oggi nel dibattito politico a sinistra è una precisa dichiarazione d’intenti, un progetto per il governo del Paese che non solo vada oltre Monti ma che abbia il coraggio di rompere con ciò che Monti rappresenta: un “ modello economico socialmente regressivo” i cui atti costituiscono “dei presidi che investono il presente e il futuro: l'affermazione della centralità delle politiche di bilancio come risposta alla crisi attraverso la parità di bilancio in Costituzione; l'accettazione dei trattati europei e il fiscal compact; la demolizione di parti significative dello stato sociale (i provvedimenti pensionistici), dei diritti dei lavoratori (la menomazione dell'articolo 18 e la legge sul mercato del lavoro), la mutazione ulteriore del ruolo del sindacato con la soppressione (condivisa?) dell'autonomia contrattuale di quest'ultimo”. Con la solità lucidità d’analisi prova a mettere le cose in chiaro Fausto Bertinotti in un intervento su L'Huffington Post

Curioso omettere Monti dal documento per le primarie

Le elezioni si avvicinano e con il voto riaffiorano, nella sinistra, appena riverniciati, i suoi vizi più antichi. Siccome sembra aver ereditato dalla sua storia, non le virtù, ma soltanto i vizi, questi stessi diventano come dei tic così grandi da prendere il posto della fisionomia intera del suo protagonista.

Si comincia, va da sé, dalla demonizzazione della sconfitta. Dato lo schieramento elettorale che il centro sinistra (o progressista che sia) si dà e la sua piattaforma di massima, chi lo critica lo fa perché innamorato della sconfitta. La sconfitta è, del resto, solo e nient'altro che una condanna che può colpire il "popolo dei cancelli" nei 35 giorni di lotta alla Fiat, come i referendari per l'estensione dell'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori o come la Fiom che si oppone a Marchionne a Pomigliano. Funziona anche come monito per il futuro.

Forse, bisognerebbe essere Mao Tse-Tung per pensare che da una certa sconfitta può persino venire una lezione più carica di futuro che da una vittoria. O, almeno, bisognerebbe essere il vecchio Consiglio di fabbrica di Mirafiori. Dal marchio della vocazione alla sconfitta, si passa poi, per la scelta del male minore e per l'orrore per la testimonianza e si giunge alla conclusione che ciò che conta è la contesa per il governo e dunque il "voto utile". Ma utile a chi? Utile a che cosa?

Quando la sinistra politica corrispondeva a un'istanza di trasformazione, la questione del governo veniva indagata, in primo luogo, come possibilità di concorrere ad essa. Allora, per stabilire se ci si potesse e dovesse o no candidare a governare, venivano indagate la materialità delle condizioni oggettive, il rapporto di forza tra le classi e il favorevole o meno disporsi della soggettività e, infine, l'adeguatezza del sistema delle alleanze.

Il dibattito dei primi anni '60 in Italia ne fa testo, specie nell'elaborazione di chi fu definito riformista-rivoluzionario. Altri tempi, ma questione non derubricata a meno di cadere, come oggi, nella voragine della governamentalità. Eppure i fatti hanno, come si usa dire, la testa dura e neppure i tic più forti li possono scavalcare. C'è sul campo, in primo luogo, il governo Monti. Il documento per le primarie del Pd e dei suoi alleati non ne parla. Mi pare curioso che l'omissione venga considerata una buona cosa. Il governo Monti è una realtà che, a sua volta, ha modificato la realtà. Non è una parentesi che, crocianamente, possa chiudersi per esaurimento del compito.

Esso è, invece, un fattore costituente, interno a un più ampio processo che investe l'Europa. Nato e cresciuto su una soppressione della democrazia, cogeneratore di un modello economico socialmente regressivo, di cui con i suoi atti ha costituito dei presidi che investono il presente e il futuro: l'affermazione della centralità delle politiche di bilancio come risposta alla crisi attraverso la parità di bilancio in Costituzione; l'accettazione dei trattati europei e il fiscal compact; la demolizione di parti significative dello stato sociale (i provvedimenti pensionistici), dei diritti dei lavoratori (la menomazione dell'articolo 18 e la legge sul mercato del lavoro), la mutazione ulteriore del ruolo del sindacato con la soppressione (condivisa?) dell'autonomia contrattuale di quest'ultimo.

Se non ne parli, non è che tutto ciò evapori. Semplicemente e drammaticamente hai accettato che il tuo programma di governo non si ponga il problema di bonificare il terreno economico e sociale da questo impianto di controriforme, con cui ti appresti a convivere, sfuggendo al quesito su quanto di ciò di cui parli come oltrepassamento del montismo sia compatibile con questo stesso impianto, la cui vocazione dominante è iscritta nella potente vittoria ideologica del nuovo capitalismo e nel pratico rovesciamento della lotta di classe (ora agita dal capitale contro il lavoro, oltre che dalla ridicola proclamazione della scomparsa del conflitto tra l'impresa e il lavoro).

Il montismo è una prigione: o ti proponi di romperla, e già così è difficile che tu possa riuscirci, o essa, inevitabilmente, ti ingabbia. L'Europa reale è l'elemento sovraordinatore di queste politiche. Non è il caso di tornare ad analizzare la disastrosa linea di condotta dettata dalla troika ai paesi europei e assunta dai suoi governi come una nuova ortodossia. Se ne discosta ormai il Fondo Monetario Internazionale che denuncia l'impraticabilità del perseguimento degli stessi obiettivi dichiarati in materia di deficit e di debito mentre esplode la disoccupazione di massa. E' una linea criticata da tempo da ampi settori di studiosi dell'economia. E' una linea che provoca una drammatica crisi sociale e l'esplosione di conflitti (purtroppo non messi a valore da nessuna grande organizzazione sociale o politica, tranne eccezioni, in Italia leggi Fiom).

Eppure, malgrado tutto ciò, l'Europa reale prosegue sulla linea di austerità, perché la scena attuale della competitività delle merci (mercati) considererebbe incompatibile con essa il modello sociale e il contratto europeo. I governi si sono rivelati del tutto impermeabili a ogni ordine di critica, perché parte organica della costruzione dell'Europa reale oligarchica e definita dalle forze motrici del capitalismo finanziario. Chi scommetteva sul mutamento del colore politico dei governi come possibilità di cambiamento di questa politica è smentito dai fatti. Francia di Hollande compresa. Regge sempre il compromesso a guida tedesca.

Come ne esci? Con la collaborazione con le "forze del centro liberale"? Ma l'Europa reale non è solo il modello economico sociale imposto dall'ascesa del capitalismo finanziario globalizzato e dalle risposte date dal suo governo reale alla crisi. E' un'Europa postdemocratica, nella quale la democrazia rappresentativa, sia al centro della sua costruzione che nei paesi membri, è mutilata. Bobbio diceva che la democrazia senza la democrazia economica smette di essere democrazia. Nel Continente la democrazia economica è sostituita dal comando dell'impresa e del mercato e quella rappresentatività è ridotta a simulacro. Le assemblee elettive sono casse di risonanza degli esecutivi. A loro volta il concerto intergovernamentale che ha diretto le politiche europee è guidato dalla troika. La cessione di sovranità è verso una sovranità senza popolo: un'oligarchia tecnocratica ha sostituito la democrazia.

In questo quadro la domanda di 'più Europa' (in se giusta e necessaria) si rovescia in una sua maggiore integrazione all'insegna della 'condizionalità', cioè dell'imposizione alle politiche nazionali di una ferrea compatibilità con le politiche di bilancio e con i parametri di competitività adottati centralmente. Il vincolo esterno riduce il vincolo interno (i bisogni e i diritti sociali) a pura variabile dipendente. Per noi, in Italia, è il ribaltamento della democrazia concepita dalla Costituzione repubblicana.

Se le forze del centrosinistra che si candidano a governare ignorano tutto questo, come accade nel documento per le primarie con cui viene scelto il leader, se cioè ignorano le forze avverse e la loro organizzazione si condannano in realtà alla continuità delle politiche in atto, almeno nel loro nucleo portante (parità di bilancio, fiscal compact, logica dei trattati). Se ignori il governo reale, non perciò esso scompare e, allora, il governo formale, quand'anche fosse il tuo, sarebbe irretito nelle sue potenti maglie. E come dicono quelli di Occupy Wall Street gli elettori si troverebbero a scegliere tra la Cola Cola e la Pespi Cola. Ci sono situazioni e momenti in cui il governo, per le forze di sinistra, si rivela un miraggio, quando lo raggiungi esso è scomparso nella realtà. La traversata nel deserto, che certo è assai difficile, richiederebbe allora di sfuggire al miraggio e cercare nuove piste.



lunedì 15 ottobre 2012

Trent'anni senza Beppe

Il 17 ottobre 1982, a soli 43 anni, moriva Beppe Viola, uno dei più grandi giornalisti italiani. E’ morto di domenica, in redazione, mentre stava montando il servizio filmato della partita Inter Napoli. L'ho saputo dal telegiornale e ricordo la sensazione, come se fosse scomparso uno di famiglia. Cosa pensavo di lui l’ho scritto già in un post del 2007. Per non dimenticare e non dimenticarlo propongo il ricordo di Gianni Mura pubblicato oggi da Repubblica

C'era una volta il sorriso di Beppe Viola