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lunedì 22 ottobre 2018

Sabbia nera



La Sabbia nera del titolo è la cenere che arriva dal Vulcano e avvolge Catania, impadronendosi di ogni cosa, compresi i colori. C’è tanta Sicilia in questo romanzo, terra che amo visceralmente e nella quale torno appena posso. Non è la Sicilia di Camilleri: qui il dialetto è usato pochissimo, ci sono però i luoghi, i sapori, il non verbale, le atmosfere. E c’è Vanina Guarrasi, palermitana, a Catania a dirigere la Mobile, che non è una donna facile: segnata dalle vicende della vita, a volte scontrosa oltre il lecito, dalle poche descrizioni non gnocchissima, perché la buona tavola qualche segno lo lascia, eppure di grandissimo fascino. La vicenda sulla quale deve indagare è vecchia di oltre 50 anni. Nel montacarichi portavivande che si trova nella cucina di Villa Burrano - casa padronale disabitata da tempo ai piedi dell’Etna - vengono scoperti per caso i resti mummificati di una donna. Per risalire alla sua identità e capire cosa nascondono quelle povere ossa, perché qualcosa devono nascondere per forza, la Guarrasi si affida all’esperienza, ai ricordi e all’acume dell’ormai ottantenne commissario dell’epoca. E infatti quel cadavere di cose da raccontare ne ha parecchie. Racconta una vecchia storia di avidità, di risentimento, di potere, anche mafioso, di affari illeciti, di case chiuse, di tenutarie e di figli illegittimi. Un mondo antico, dimenticato, ricordato solo da qualche vecchio e ormai sepolto sotto la cenere dell’Etna, che nasconde e silenzia. Una storia allora chiusa in fretta con le sue belle vittime sacrificali: il proprietario della villa, morto sparato proprio in quella casa, e il suo contabile, che per quell’omicidio si è fatto più di 30 anni di carcere. La donna mummificata arriva a cambiare le carte in tavola. Tanto da provocare, con le sue mute rivelazioni, un altro omicidio, che consentirà a Vanina Guarrasi di mettere a posto tutti i tasselli, riscrivere quella verità di comodo datata 1959 e risolvere il caso. Come in ogni noir ci sono poi le storie parallele. Quella del vicequestore è un romanzo a sé, in gran parte ancora da scrivere e la chiusa del libro, lascia lo spazio per farlo. Con la Guarrasi lavorano altri poliziotti, che Cristina Cassar Scalia caratterizza e fa muovere molto bene. Nota di colore: nella squadra c’è anche l’ispettore Marta Bonazzoli, che invece è gnocca oltre il lecito. Perché lo dico? Perché la Cassar Scalia tra tutte le città del Nord, fa nascere Marta proprio a Brescia, la mia città.






giovedì 18 ottobre 2018

Il tennis secondo me


Marco Reali non era un campione e non lo sarebbe mai diventato. Almeno non più. Un buon giocatore, questo sì, che navigava nei tornei satellite, ai margini del circuito che conta. Quasi non riusciva nemmeno a vivere di tennis, Marco. E a 25 anni ormai non ci pensava più. Non perché nei tornei minori non fosse possibile guadagnare abbastanza. Semplicemente perché anche lì riusciva a superare al massimo un paio di turni. Eppure vederlo giocare era uno spettacolo. Marco Reali aveva tutti i colpi e la racchetta nelle sue mani diventava uno Stradivari. Peccato che quel suono straordinario durasse lo spazio di una partita, a volte di un set. Spesso solo di qualche game. Anche per questo l’avevano soprannominato il Poeta. Certo, perché nella sua borsa, insieme alle racchette, c’era sempre un libro, nel quale potevi vederlo perdersi sulle tribune in attesa di giocare. Ma soprattutto per quel suo modo elegante di colpire la palla, che avevi quasi la sensazione di vedere la bellezza flirtare con la perfezione. E per quella sua capacità di estraniarsi, di andare via, come se la sua testa ad un certo punto guardasse oltre e quello che stava facendo appartenesse ad un passato non più interessante. Alla fine di un match, chi giocava contro il Poeta, anche in caso di vittoria, correva a stringergli la mano, per complimentarsi per primo. In tanti mi hanno assicurato che in quei momenti di pura grazia, Marco Reali non giocava una palla uguale all’altra. Oggi nel mondo lo sa fare solo Roger Federer. All’inizio nessuno si capacitava di come un talento simile fosse rimasto nell’anonimato. Poi, come per tutte le cose, ci avevano fatto l’abitudine. Marco Reali era una mina vagante dei tabelloni. I più titolati del range, anche se non l’avrebbero mai ammesso, speravano di non incontrarlo nei primi turni, dove l’obiettivo è chiudere in poco tempo, per conservare concentrazione ed energia quando ci si gioca l’accesso alle fasi finali. Lo sapeva bene Andrea Gigante, ormai stabile tra i primi 200 dell’ATP e a cui i challenger servivano sia per fare punteggio che per mettere in tasca qualche migliaio di euro relativamente facili. A Sirmione era venuto fondamentalmente per il lago e contava su match da finire in un’ora al massimo, magari al mattino, per poi andare in spiaggia a godersi il sole. Per lui tutti i nomi del tabellone erano perfetti sconosciuti. Tranne Reali. Gigante-Reali era il big match della prima giornata. Quel pomeriggio, sul campo centrale del circolo Vela, le tribune erano gremite. Nonostante fossimo già a metà settembre, quando i due sbucarono dagli spogliatoi faceva ancora caldo. Marco Reali e Andrea Gigante si conoscevano praticamente da sempre. Erano coetanei, entrambi di Cremona. Per un po’ avevano giocato per lo stesso Circolo a Milano. Poi Gigante aveva iniziato a fare sul serio, mentre Reali era diventato il Poeta. Andrea viveva per il tennis, si allenava fino allo sfinimento, ore e ore sul campo a provare e riprovare. Un perfezionista. E tutto quello che aveva ottenuto se l’era sudato e meritato. Marco si allenava perché il tennis era una parte importante della sua vita e non avrebbe potuto farne a meno. Ma non aveva bisogno di provare. Ogni colpo - una volèe, un drop shot, un semplice rovescio in back - brillava di luce propria, di magia. In ogni gesto, in ogni palla che usciva dalla racchetta di Marco Reali c’era tutta l’eleganza del tennis. Due ragazzi che più diversi non si potrebbe, Marco e Andrea. Ma erano amici e si volevano bene. Anzi, Andrea continuava ad insistere con Marco per giocare i tornei di doppio insieme e forse, prima o poi l’avrebbe preso per sfinimento, come spesso faceva con gli avversari. Marco Reali aveva giocato un primo set incredibile, oltre la grazia. E il pubblico si era spellato le mani. Andrea Gigante ci aveva capito poco o nulla ed era riuscito a raccogliere solo due game. Qualsiasi altro tennista avrebbe mollato. Marco quel giorno era pressoché ingiocabile. Andrea no. Non aveva mollato perché era un combattente. E forse anche perché sapeva che in qualsiasi momento il Poeta avrebbe potuto staccare la spina. Le prime avvisaglie si erano viste nella seconda partita. Marco aveva iniziato a specchiarsi un po’ troppo nel suo bel gioco e ad Andrea era riuscito il break sul 4-4, dopo essere stato sotto 40-0, impattando così il conto dei set. La terza partita era poi andata via senza sussulti fino al 3-3, 40-40. Reali aveva servito da destra una prima forte e centrale, uscita di un niente. Sulla seconda, la risposta di Gigante era stata aggressiva e aveva costretto Reali a difendersi con un rovescio troppo corto. Andrea aveva replicato con un diritto incrociato molto profondo che aveva seguito a rete. E qui il Poeta aveva scritto, anche se sarebbe più giusto dire disegnato, il suo capolavoro di giornata. Alla palla pesante di Andrea, Marco aveva risposto con un passante lungolinea altrettanto potente e veloce, per poi rimbalzare dalla parte opposta del campo per andare a recuperare la volèe di rovescio del numero 1 del torneo. Sono frazioni di secondo, lampi che si fissano negli occhi degli spettatori, in alcuni casi per rimanerci per sempre. Marco Reali aveva intuito che il suo amico avrebbe cercato di chiudere il punto dalla parte opposta. Da cosa l’aveva capito? Puro istinto. Come il portiere che sul rigore battezza l’angolo e va sicuro da quella parte. Se Andrea Gigante avesse cambiato direzione all’ultimo secondo l’avrebbe preso in contropiede. Invece Marco era arrivato su quella palla in coordinazione perfetta. Se ci fosse un fotogramma del momento in cui Reali la colpisce sarebbe la foto perfetta. Marco a quel punto aveva due possibilità: alzare un pallonetto difensivo, cosa che avrebbe fatto il 90% dei suoi colleghi, non solo a quei livelli, o giocare in corsa il passante lungolinea di rovescio, un colpo nelle corde di pochi. Ma lui è il Poeta, capace di perdere con tutti ma anche di vincere con chiunque. E allora Marco fa quello che farebbe Federer. Vede con la coda dell’occhio Andrea Gigante che ha ripreso il centro della rete, finta il lungolinea, per poi all’ultimo spezzare il polso e giocare un cross strettissimo di rovescio. Lo spazio tra la racchetta inutilmente tesa di Gigante e il campo è quello di una pallina. Ed è in quello spazio che il Poeta mette a palla. C’era stato un secondo di silenzio, lunghissimo, interminabile, poi il boato del pubblico. Era stata anche l’ultima cosa che aveva fatto Marco Reali in quel primo turno. La magia e poi via nella sua no man’s land. Alla conferenza stampa un collega gli aveva chiesto come avesse potuto pensare ad una soluzione del genere, quando tutti o quasi si sarebbero rifugiati nel lob o al massimo in un passante lungolinea. Il Poeta aveva sorriso: “In verità non ci ho pensato, succede tutto così velocemente che non hai tempo di pensare. Non so davvero cosa avviene. Se però vuoi una spiegazione razionale a freddo, posso dirti che se avessi avuto il tempo di ragionare, al pallonetto non avrei mai pensato, forse al lungolinea. Invece è uscito quel cross incrociato e son contento per questo. Lo sarei anche se fosse uscito o si fosse fermato sul nastro. E’ l’averlo giocato che fa la differenza. Almeno per me”. Marco Reali aveva quindi ringraziato e se n’era andato. Io ero rimasto in sala stampa per scrivere l’ultimo capoverso dell’articolo che sarebbe uscito il giorno dopo. “Sono sicuro che se domani dovessi chiedere alle persone che erano sugli spalti il nome del vincitore, tutte risponderebbero senza esitazione. Ma, senza nulla togliere ad Andrea Gigante, sono altrettanto sicuro che il ricordo più vivo della stragrande maggioranza di loro rimarrà quello scambio. E quella palla”.