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giovedì 12 novembre 2009

Falce e martello


Scrive Gabriele Polo nell’editoriale del Manifesto di ieri: “Tra i tanti modi per risolvere una crisi aziendale e occupazionale, da ieri c'è anche quello suggerito da un gruppo di vigilantes guidati da un amministratore delegato: volto mascherato, piede di porco in mano, fare minaccioso, hanno fatto irruzione in uno stabilimento romano dell'Eutelia, aggredendo i lavoratori prossimi al licenziamento e senza stipendio da mesi. Volevano spaventarli, cacciarli da lì e, poi, ripulire qualche cassetto aziendale per evitare che la magistratura ci possa trovare le prove della grande truffa che ha costruito la crisi del gruppo. Banditismo di strada a servizio di quello finanziario.L'episodio romano - che ricorda le commistioni tra criminali e padroni negli Stati uniti della grande depressione - si è chiuso con gli operai che hanno chiamato la polizia. Ma non sarà la forza pubblica a poter risolvere il problema cui allude: come affrontare una crisi, come uscirne, chi ne deve pagare i costi. Questioni complicate - e anche per questo parecchio rimosse dal panorama politico e culturale - ma ineludibili, soprattutto per chi è «istituzionalmente» chiamato a occuparsene, come il sindacato”. Polo poi prosegue parlando della CGIL e della difficoltà interne e di strategia alla vigilia del congresso. Ma il tema che mi interessa è il primo su cui peraltro il Manifesto torna oggi con un pezzo di Paolo Gerbaudo che svela i retroscena del banditismo finanziario di cui parlava l'ex direttore del Manifesto.
Giusto un paio di settimana fa mi stavo facendo raccontare da mia madre alcune storie del cotonificio dove lei e mio padre hanno trascorso oltre trent’anni della loro vita. Piccole storie di uomini e di donne: spunto di conversazione ma anche un’occasione per riallacciare i fili di un’epoca ormai lontana, quando i tempi del nostro quotidiano erano scanditi da quelli della fabbrica. Ho chiesto a mia mamma se si ricordava del primo sciopero, negli anni ’50. Ovviamente si ricordava: si ricordava gli operai che presidiavano i cancelli, i blocchi ai crumiri che cercavano di entrare, mia nonna in prima fila in qualità di componente – unica donna - della commissione sindacale interna, l’arrivo dei carabinieri, chiamati dalla direzione, e la comparsa tra le mani dei presenti al picchetto di falci, falcetti e martelli: simboli che prendevano corpo per farsi strumento vero di difesa di un ideale. Probabilmente nessuno li avrebbe usati contro i colleghi o contro la forza pubblica: sta di fatto che i carabinieri – racconta mia mamma – raccomandarono a tutti di non farsi male e tornarono in caserma. Di una cosa sono però quasi sicuro: se a forzare il blocco fosse stato il padrone, come nel caso dell’Eutelia, gli avrebbero fatto la pelle, come in zona succede al maiale giusto in questo periodo. Altri tempi.


Dietro l'Eutelia fantasmi e mafie
di Paolo Gerbaudo

Numero 27 di Holywell Row, strada breve e stretta, a mezzo miglio dalla City di Londra nei pressi di Old Street. Paesaggio urbano decadente ma alla moda, vecchi magazzini e palazzi commerciali trasformati in abitazioni, uffici, «studios» per designer e artisti, a pochi passi dai club della movida londinese di Shoreditch. La sede della Restform, uno dei due fondi di investimento che controllano Omega, impresa che ha acquisito il ramo information technology di Eutelia è all'angolo, in un modesto palazzo a tre piani. All'entrata una porticina blu e quattro nomi sul citofono. Non esattamente quello che ci si attende dalla sede legale di un fondo finanziario che controlla imprese con migliaia di lavoratori e beni ingenti. Il manifesto è andato a fare visita alla Restform, fondo di investimento inglese che insieme ad Anglo Corporate, controlla Omega. Ma non l'ha trovata. In compenso allo stesso indirizzo ha scovato la Ashcroft Cameron, piccola impresa specializzata nella registrazione di compagnie, che offre il servizio di nominee. Ovvero messa a disposizione di prestanome, direttori d'azienda e azionisti fittizi, quelli che nel gergo finanziario chiamano gli straw men: gli «uomini di paglia». Suoniamo al campanello della Ashcroft Cameron. «Salve. Sono interessato ai servizi che offrite». Un signore inglese sulla cinquantina ci apre la porta e fa strada verso lo scantinato. Dentro un ufficio angusto, mobilio modesto, quattro computer e due altri uomini di mezz'età in jeans e felpa impegnati al lavoro su alcuni documenti. Diciamo che vogliamo aprire una compagnia, ci danno un modulo per la registrazione e un tariffario. Creazione compagnia: 95 sterline. Servizio sede legale: 150 sterline l'anno. Direttore e azionisti nominali: a partire da 150 sterline all'anno. Proviamo a chiamare il numero di telefono sul biglietto da visita e chiediamo della Restform. La persona che ha risposto passa la cornetta a qualcuno al suo fianco. «Pronto? Vorrei parlare con il direttore della Restform». La prima volta buttano giù il telefono. La seconda volta rispondono. Dall'altro capo del telefono la voce incespica, «sì... qui ci prendiamo cura della Restform». «Ci potrebbe mettere in contatto con il direttore?». «Salve, il direttore sono io». Dice di chiamarsi Stuart Baxter, la voce sembra quella della persona che poco prima ci aveva aperto la porta. Ma poi il «direttore», o meglio il prestanome della Resform limited, si rifiuta di rispondere alle domande e spiegare chi sia il «direttore reale». Tutto lecito, per carità. «È un sistema perfettamente legale, che serve a preservare la privacy delle imprese», spiega il sito di una delle tante compagnie che nel Regno offre il servizio di prestanome. «È pensato per quelle persone che preferirebbero evitare che il proprio nome venga associato ad una certa compagnia». Una pratica legale sì, ma infame. Ideale per mettere al riparo chi vuole fare operazioni poco chiare da occhi indiscreti.Spulciando tra i documenti ufficiali di Restform messi a disposizione dal registro britannico delle imprese si scopre che l'impresa fu creata nel 2000, ma i bilanci 2008 e 2009 sono fermi ad una sterlina, la cifra che viene messa di default quando si apre un'impresa. Una società fittizia insomma, che esiste solo sulla carta e sui database informatici. Chi la controlla? Stando ai documenti esaminati, a partire dal giugno 2009 il direttore è un'altra compagnia. Si tratta della Cdf Formations Limited, la cui sede legale è ancora una volta il 27 di Holywell Row. Un'altra scatola cinese? Probabile. Ma cosa si nasconde allora dietro la Restform Ltd, dietro la Cdf Formations Ltd, e dietro altre eventuali scatole cinesi? Su siti e blog rimbalza la voce che di mezzo ci sia nientemeno che la 'ndrangheta. Un'accusa pesante il cui solo indizio al momento è contenuto in un articolo apparso il 28 aprile scorso sul Giorno di Lodi, dove si riferisce come Daniele D'Apote, imprenditore accusato di ricettazione e legami con la mafia calabrese. Tra le azioni di compagnie chiacchierate trovate in suo possesso, c'era pure una piccola quota della Revincta srl, azienda di costruzioni con sede a Milano, controllata proprio dalla fantomatica Restform.

martedì 10 novembre 2009

Il Muro di Augusto

Nel giorno dell’anniversario della caduta del Muro, il prode Augusto, direttore del TG1, dedica il suo editoriale all’immunità parlamentare e a come la magistratura, da Tangentopoli in poi, abbia condizionato e tenuto sotto scacco la politica. Scelte. Non so quanto libere ma comunque scelte. L’opposizione non ci sta e protesta, per quanto vale. A difendere Minzolini ci pensa però il fido Capezzone, ormai sprezzante del ridicolo. Se fossi Minzolini mi preoccuperei più degli interventi di Capezzone che delle reprimende del pd.

CAPEZZONE, EDITORIALE MINZOLINI? VOGLIA CENSURA SINISTRA
(AGI) - Roma, 10 nov - "La reazione immediata e virulenta, a piu' voci, della sinistra contro l'editoriale di ieri sera di Minzolini svela la voglia di censura che abita nelle stanze dell'opposizione. Le stesse persone che hanno organizzato, partecipato, esaltato, la manifestazione per la liberta' di stampa di qualche settimana fa si sono prontamente schierate per l'imbavagliamento di un direttore libero. Sono i soliti vecchi vizi della peggiore politica". Cosi' Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, sulla vicenda del discusso editoriale del direttore del Tg1.(AGI)

lunedì 2 novembre 2009

Noi, i non allineati della vita

In occasione della giornata mondiale della salute mentale del 2001, Alda Merini scrisse queste poche righe su Avvenire. Ogni tanto me le leggo.

Considero la malattia mentale un bene proprio, un patrimonio genetico che può rischiare di morire con la manipolazione distratta di certi medici. L’insorgenza della malattia mentale, che ha radici molto nomadi, non ha una spiegazione logica rispetto alla realtà, ma – come dice il Manganelli – è un grande sogno di poesia, che non va involgarito da cure approssimative. Quando io mi stupii con Franco Fornari – grande analista del ventesimo secolo e grande scrittore – del fenomeno per cui dopo aver subito tanti elettrochoc io continuassi a scrivere, Fornari mi rispose con una frase che testualmente diceva: “Il manicomio è come la rena del mare: se entra nelle valve di un’ostrica genera perle”. Per Fornari, e anche per me, le perle erano le lacrime dell’ammalato, ma anche la purezza della poesia. Franco Fornari è stato il mio analista per cinque anni e soleva dirmi che, più che una nevrotica, io ero una grande Carmen: non mi allineavo. La follia è un’invenzione della vita: il malato sa benissimo di essere l’autore di una folle indecenza che è la sua solitudine. Una solitudine che presso gli altri – che amano il rumore, che gozzovigliano, che non sanno mai fermarsi a meditare – fa scandalo.
Noi, matti di solitudine, eravamo però così grati alla Terra che ci aveva generati e che pur tuttavia ci lasciava vivere malgrado tanti terrori: non potevamo negli anni di manicomio che pregare e osannare il Signore che anche quel giorno ci aveva salvati. Il manicomio è la casa della follia. Però sono stati anche anni deliziosi: noi sapevamo tutte le paranoie che c’erano là dentro, ci conoscevamo uno per uno. Lì libri non ce n’erano, non potevamo leggere nulla, neanche i giornali; oggi mi delizia quando qualche critico mo chiede “ti ricordi quando nel ’70…”. Io rispondo “scusa, ma quell’anno io non c’ero, non ero nel mondo”. Si definiscono colti e non sanno… Auguro a tutte le persone di trovare la loro serenità, la giustificazione alla loro personale follia. Purché sia esentasse!