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martedì 20 novembre 2018

Gli anni al contrario


"I grandi, in fondo, non sono che bambini sopravvissuti”. Ci sono romanzi che ti prendono l’anima e non te la lasciano, neanche quando hai finito di leggerli. Perché… perchè a volte toccano nervi scoperti, parlano del tuo mondo: quello che hai vissuto, che in qualche modo hai frequentato, o che ti è passato accanto, sfiorandoti soltanto e accarezzandoti appena. Gli anni al contrario, esordio letterario di Nadia Terranova, l’ho letto un sabato pomeriggio e mi ha trovato inavvertitamente disarmato. Ambientato a Messina tra il 1977 e il 1989, racconta l'intima epopea di una giovane coppia negli anni in cui gli ultimi sussulti ribelli di una generazione venivano cancellati da una triplice deriva: l'approdo alla lotta armata, la piaga dell'eroina, la rivincita degli stereotipi borghesi. Aurora è la seconda di 6 figli, il padre è un ex guardia carceraria, fascistissimo, che porta addirittura i ragazzi in gita a Predappio per farli benedire da donna Rachele. Giovanni è invece il terzogenito di una famiglia borghese: il padre è un noto avvocato iscritto al PCI. Aurora cerca di affrancarsi dal suo mondo e dalle rigidità famigliari attraverso lo studio. Giovanni è un animo ribelle, attratto dagli eccessi, dalle utopie espulse da un partito comunista che per molti giovani dell’epoca odorava di sconfitta. Giovanni e Aurora si incontrano all’Università nel ’77, si amano, sognano la rivoluzione, credono in una società migliore al punto mettere al mondo una bimba, Mara, e giocano a fare i grandi. Ma è un gioco appunto troppo grande, soprattutto per Giovanni che soffre la lontananza, la marginalità dell’isola rispetto ai fermenti delle grandi città italiane ed europee, dove si sta facendo la storia. E questo tormento interiore, questo cane che morde dentro e non dà tregua lo porta sempre più lontano da Aurora e da Mara, che sì ama visceralmente, ma non basta. I sogni diventano allora allucinazioni chimiche, perché solo così si riesce a tenere a bada la bestia e a non pensare. Aurora, che invece i suoi sogni di dottorato li ha abbandonati per Giovanni e per Mara, prova in tutti i modi a capire e ad aiutare l’uomo della sua vita, ma è una lotta impari se il nemico si chiama disillusione ed ha scavato un solco irrimediabile con il passato. Certo ci sono i tentativi di ristabilire un ritmo coniugale ma sono intessuti di silenzi, insicurezze e sensi di colpa. Giovanni toccato il fondo ci prova davvero, per Mara, per Aurora, e ci riesce. Il rapporto prima epistolare dalla comunità terapeutica e poi fatto di incontri settimanali con Mara è di una tenerezza disarmante. La speranza in qualche modo sembra rinascere e c’è ancora tanto tempo davanti: Giovanni ha 35 anni, Mara ha appena iniziato le elementari, Aurora, comunque vada, è l’amore per sempre. All’inizio degli anni 80 viene scoperto un virus che si dice colpisca i tossici e gli omosessuali. E’ un virus bastardo, che si impadronisce del tempo. L’ultima estate Giovanni la passa a Pantelleria da solo con Mara e non ci potrebbe essere finale più bello.
Molti ragazzi di quella generazione, intrisi di ideali politici, di grandi slanci, di sentimenti estremi, sono stati salvati da una passione bambina e grazie a lei sono diventati adulti: il calcio.

sabato 17 novembre 2018

Brunò, il commissario francese




Ho letto di recente Grand Prix di Martin Walker e non mi aveva entusiasmato
particolarmente, Devo dire invece che il romanzo d’esordio di questa serie - Brunò, il commissario francese – è un bel noir. La vicenda è ben raccontata, così come le implicazioni storiche e politiche che la sottendono, i personaggi, a partire dal protagonista, sono disegnati alla perfezione e Walker li fa muovere con grande maestria, in un territorio - St Denis, cittadina del Perigord - che l’autore conosce molto bene e non solo ne apprezza i paesaggi ma anche il cibo e il vino, ingredienti che ormai fanno parte integrante della scrittura gialla. Benoît Courrèges, detto Brunò, è l’unico poliziotto di St. Denis, alle dipendenze dirette del sindaco, con compiti più di salvaguardia e tutela dell’ambiente che di ordine pubblico. Tanto da trovare il tempo anche di allenare la squadra locale di rugby e di insegnare tennis ai ragazzi del paese. Una vita tranquilla, quasi bucolica, quella di Brunò, fino al giorno in cui viene improvvisamente scoperto il cadavere di un anziano algerino, eroe di guerra, ucciso brutalmente e oltraggiato con una svastica incisa sul petto. Un omicidio a sfondo razzista è la prima ipotesi sulla quale Brunò e la squadra di investigatori arrivati da Parigi iniziano a lavorare. E i primi sospetti cadono infatti su un ragazzo di buona famiglia che si scopre essere legato a movimenti di estrema destra. Ma, come spesso accade, la verità sta nei dintorni, e servirà tutto l’acume e la conoscenza dei propri concittadini di Benoit Courrèges per scrivere il finale di questa storia, che affonda le radici nel passato, in uno dei periodi più tormentati della storia francese: la Seconda guerra mondiale. La cosa bella in questo caso, almeno per me, è che alla scoperta della verità non viene fatta giustizia, come vorrebbero la legge, l’etica e la morale. Perché a volte – mettiamola così – c’è un giusto che non corrisponde al vero So che è un terreno molto scivoloso ma se leggerete il libro forse concorderete con me.


 

lunedì 22 ottobre 2018

Sabbia nera



La Sabbia nera del titolo è la cenere che arriva dal Vulcano e avvolge Catania, impadronendosi di ogni cosa, compresi i colori. C’è tanta Sicilia in questo romanzo, terra che amo visceralmente e nella quale torno appena posso. Non è la Sicilia di Camilleri: qui il dialetto è usato pochissimo, ci sono però i luoghi, i sapori, il non verbale, le atmosfere. E c’è Vanina Guarrasi, palermitana, a Catania a dirigere la Mobile, che non è una donna facile: segnata dalle vicende della vita, a volte scontrosa oltre il lecito, dalle poche descrizioni non gnocchissima, perché la buona tavola qualche segno lo lascia, eppure di grandissimo fascino. La vicenda sulla quale deve indagare è vecchia di oltre 50 anni. Nel montacarichi portavivande che si trova nella cucina di Villa Burrano - casa padronale disabitata da tempo ai piedi dell’Etna - vengono scoperti per caso i resti mummificati di una donna. Per risalire alla sua identità e capire cosa nascondono quelle povere ossa, perché qualcosa devono nascondere per forza, la Guarrasi si affida all’esperienza, ai ricordi e all’acume dell’ormai ottantenne commissario dell’epoca. E infatti quel cadavere di cose da raccontare ne ha parecchie. Racconta una vecchia storia di avidità, di risentimento, di potere, anche mafioso, di affari illeciti, di case chiuse, di tenutarie e di figli illegittimi. Un mondo antico, dimenticato, ricordato solo da qualche vecchio e ormai sepolto sotto la cenere dell’Etna, che nasconde e silenzia. Una storia allora chiusa in fretta con le sue belle vittime sacrificali: il proprietario della villa, morto sparato proprio in quella casa, e il suo contabile, che per quell’omicidio si è fatto più di 30 anni di carcere. La donna mummificata arriva a cambiare le carte in tavola. Tanto da provocare, con le sue mute rivelazioni, un altro omicidio, che consentirà a Vanina Guarrasi di mettere a posto tutti i tasselli, riscrivere quella verità di comodo datata 1959 e risolvere il caso. Come in ogni noir ci sono poi le storie parallele. Quella del vicequestore è un romanzo a sé, in gran parte ancora da scrivere e la chiusa del libro, lascia lo spazio per farlo. Con la Guarrasi lavorano altri poliziotti, che Cristina Cassar Scalia caratterizza e fa muovere molto bene. Nota di colore: nella squadra c’è anche l’ispettore Marta Bonazzoli, che invece è gnocca oltre il lecito. Perché lo dico? Perché la Cassar Scalia tra tutte le città del Nord, fa nascere Marta proprio a Brescia, la mia città.






giovedì 18 ottobre 2018

Il tennis secondo me


Marco Reali non era un campione e non lo sarebbe mai diventato. Almeno non più. Un buon giocatore, questo sì, che navigava nei tornei satellite, ai margini del circuito che conta. Quasi non riusciva nemmeno a vivere di tennis, Marco. E a 25 anni ormai non ci pensava più. Non perché nei tornei minori non fosse possibile guadagnare abbastanza. Semplicemente perché anche lì riusciva a superare al massimo un paio di turni. Eppure vederlo giocare era uno spettacolo. Marco Reali aveva tutti i colpi e la racchetta nelle sue mani diventava uno Stradivari. Peccato che quel suono straordinario durasse lo spazio di una partita, a volte di un set. Spesso solo di qualche game. Anche per questo l’avevano soprannominato il Poeta. Certo, perché nella sua borsa, insieme alle racchette, c’era sempre un libro, nel quale potevi vederlo perdersi sulle tribune in attesa di giocare. Ma soprattutto per quel suo modo elegante di colpire la palla, che avevi quasi la sensazione di vedere la bellezza flirtare con la perfezione. E per quella sua capacità di estraniarsi, di andare via, come se la sua testa ad un certo punto guardasse oltre e quello che stava facendo appartenesse ad un passato non più interessante. Alla fine di un match, chi giocava contro il Poeta, anche in caso di vittoria, correva a stringergli la mano, per complimentarsi per primo. In tanti mi hanno assicurato che in quei momenti di pura grazia, Marco Reali non giocava una palla uguale all’altra. Oggi nel mondo lo sa fare solo Roger Federer. All’inizio nessuno si capacitava di come un talento simile fosse rimasto nell’anonimato. Poi, come per tutte le cose, ci avevano fatto l’abitudine. Marco Reali era una mina vagante dei tabelloni. I più titolati del range, anche se non l’avrebbero mai ammesso, speravano di non incontrarlo nei primi turni, dove l’obiettivo è chiudere in poco tempo, per conservare concentrazione ed energia quando ci si gioca l’accesso alle fasi finali. Lo sapeva bene Andrea Gigante, ormai stabile tra i primi 200 dell’ATP e a cui i challenger servivano sia per fare punteggio che per mettere in tasca qualche migliaio di euro relativamente facili. A Sirmione era venuto fondamentalmente per il lago e contava su match da finire in un’ora al massimo, magari al mattino, per poi andare in spiaggia a godersi il sole. Per lui tutti i nomi del tabellone erano perfetti sconosciuti. Tranne Reali. Gigante-Reali era il big match della prima giornata. Quel pomeriggio, sul campo centrale del circolo Vela, le tribune erano gremite. Nonostante fossimo già a metà settembre, quando i due sbucarono dagli spogliatoi faceva ancora caldo. Marco Reali e Andrea Gigante si conoscevano praticamente da sempre. Erano coetanei, entrambi di Cremona. Per un po’ avevano giocato per lo stesso Circolo a Milano. Poi Gigante aveva iniziato a fare sul serio, mentre Reali era diventato il Poeta. Andrea viveva per il tennis, si allenava fino allo sfinimento, ore e ore sul campo a provare e riprovare. Un perfezionista. E tutto quello che aveva ottenuto se l’era sudato e meritato. Marco si allenava perché il tennis era una parte importante della sua vita e non avrebbe potuto farne a meno. Ma non aveva bisogno di provare. Ogni colpo - una volèe, un drop shot, un semplice rovescio in back - brillava di luce propria, di magia. In ogni gesto, in ogni palla che usciva dalla racchetta di Marco Reali c’era tutta l’eleganza del tennis. Due ragazzi che più diversi non si potrebbe, Marco e Andrea. Ma erano amici e si volevano bene. Anzi, Andrea continuava ad insistere con Marco per giocare i tornei di doppio insieme e forse, prima o poi l’avrebbe preso per sfinimento, come spesso faceva con gli avversari. Marco Reali aveva giocato un primo set incredibile, oltre la grazia. E il pubblico si era spellato le mani. Andrea Gigante ci aveva capito poco o nulla ed era riuscito a raccogliere solo due game. Qualsiasi altro tennista avrebbe mollato. Marco quel giorno era pressoché ingiocabile. Andrea no. Non aveva mollato perché era un combattente. E forse anche perché sapeva che in qualsiasi momento il Poeta avrebbe potuto staccare la spina. Le prime avvisaglie si erano viste nella seconda partita. Marco aveva iniziato a specchiarsi un po’ troppo nel suo bel gioco e ad Andrea era riuscito il break sul 4-4, dopo essere stato sotto 40-0, impattando così il conto dei set. La terza partita era poi andata via senza sussulti fino al 3-3, 40-40. Reali aveva servito da destra una prima forte e centrale, uscita di un niente. Sulla seconda, la risposta di Gigante era stata aggressiva e aveva costretto Reali a difendersi con un rovescio troppo corto. Andrea aveva replicato con un diritto incrociato molto profondo che aveva seguito a rete. E qui il Poeta aveva scritto, anche se sarebbe più giusto dire disegnato, il suo capolavoro di giornata. Alla palla pesante di Andrea, Marco aveva risposto con un passante lungolinea altrettanto potente e veloce, per poi rimbalzare dalla parte opposta del campo per andare a recuperare la volèe di rovescio del numero 1 del torneo. Sono frazioni di secondo, lampi che si fissano negli occhi degli spettatori, in alcuni casi per rimanerci per sempre. Marco Reali aveva intuito che il suo amico avrebbe cercato di chiudere il punto dalla parte opposta. Da cosa l’aveva capito? Puro istinto. Come il portiere che sul rigore battezza l’angolo e va sicuro da quella parte. Se Andrea Gigante avesse cambiato direzione all’ultimo secondo l’avrebbe preso in contropiede. Invece Marco era arrivato su quella palla in coordinazione perfetta. Se ci fosse un fotogramma del momento in cui Reali la colpisce sarebbe la foto perfetta. Marco a quel punto aveva due possibilità: alzare un pallonetto difensivo, cosa che avrebbe fatto il 90% dei suoi colleghi, non solo a quei livelli, o giocare in corsa il passante lungolinea di rovescio, un colpo nelle corde di pochi. Ma lui è il Poeta, capace di perdere con tutti ma anche di vincere con chiunque. E allora Marco fa quello che farebbe Federer. Vede con la coda dell’occhio Andrea Gigante che ha ripreso il centro della rete, finta il lungolinea, per poi all’ultimo spezzare il polso e giocare un cross strettissimo di rovescio. Lo spazio tra la racchetta inutilmente tesa di Gigante e il campo è quello di una pallina. Ed è in quello spazio che il Poeta mette a palla. C’era stato un secondo di silenzio, lunghissimo, interminabile, poi il boato del pubblico. Era stata anche l’ultima cosa che aveva fatto Marco Reali in quel primo turno. La magia e poi via nella sua no man’s land. Alla conferenza stampa un collega gli aveva chiesto come avesse potuto pensare ad una soluzione del genere, quando tutti o quasi si sarebbero rifugiati nel lob o al massimo in un passante lungolinea. Il Poeta aveva sorriso: “In verità non ci ho pensato, succede tutto così velocemente che non hai tempo di pensare. Non so davvero cosa avviene. Se però vuoi una spiegazione razionale a freddo, posso dirti che se avessi avuto il tempo di ragionare, al pallonetto non avrei mai pensato, forse al lungolinea. Invece è uscito quel cross incrociato e son contento per questo. Lo sarei anche se fosse uscito o si fosse fermato sul nastro. E’ l’averlo giocato che fa la differenza. Almeno per me”. Marco Reali aveva quindi ringraziato e se n’era andato. Io ero rimasto in sala stampa per scrivere l’ultimo capoverso dell’articolo che sarebbe uscito il giorno dopo. “Sono sicuro che se domani dovessi chiedere alle persone che erano sugli spalti il nome del vincitore, tutte risponderebbero senza esitazione. Ma, senza nulla togliere ad Andrea Gigante, sono altrettanto sicuro che il ricordo più vivo della stragrande maggioranza di loro rimarrà quello scambio. E quella palla”.

sabato 15 settembre 2018

L'Avversario


Mi son ricordato de L’Avversario di Emmanuel Carrère perché la scorsa settimana il protagonista di questa storia allucinante ha inoltrato richiesta al giudice per usufruire del regime di semilibertà. L’Avversario è il racconto di un fatto di cronaca nera tra i più efferati di sempre, non solo in Francia, del relativo processo e della relazione epistolare che l’autore ha avuto con il protagonista. Jean Claude Romand, il 9 gennaio 1993, ha ucciso moglie, figli e genitori, tentando poi, senza riuscirci, di togliersi la vita. Definire Jean Claude Romand è quasi impossibile. Lo è stato anche per gli psichiatri che l’hanno seguito negli anni. Per comodità, in questa breve sinossi, mi limito a dire che era un bugiardo, travolto e fagocitato dalle sue stesse bugie, che l’hanno mangiato dentro fino all’epilogo finale. Tutto è iniziato ai tempi dell’università: un esame non sostenuto è poi diventata la laurea in Medicina, quindi un lavoro di prestigio nientemeno che a Ginevra, all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Diciotto anni di falsità. Una vita parallela vissuta in un’agghiacciante solitudine con sé stesso, senza progetti e senza testimoni, nei parcheggi delle stazioni di servizio, nei bar, in albergo, mentre la moglie, i parenti più stretti, gli amici, credevano, con orgoglio e ammirazione, che fosse al lavoro o all’Università di Digione, dove il giovedì teneva le lezioni, o ancora ad importanti congressi scientifici. Una sceneggiatura talmente assurda, inverosimile, falsa da risultare paradossalmente impossibile metterne in dubbio la verità. Per questo nessuno l’ha mai fatto: una verifica, una telefonata, un’improvvisata al lavoro. Durante il processo è sembrato incredibile alla stessa corte, eppure è andata così. Per mantenersi e soprattutto mantenere la famiglia come la sua posizione richiedeva, Jean Claude Romand aveva convinto i genitori ad affidargli i propri risparmi da investire. Così aveva fatto con lo zio, i suoceri. Infine l’amante. Del resto come non fidarsi del brillante ricercatore dell’OMS? Il figlio che ogni genitore vorrebbe avere o vorrebbe come marito della propria di figlia. Ma un giorno succede l’imponderabile, il granellino di sabbia che fa inceppare il meccanismo. Allora non c’è più tempo. Perché gli altri non devono guardarlo con i suoi stessi occhi: vedere quello che lui vede tutti i giorni da 18 anni. Jean Claude Romand è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dei genitori, della moglie e dei due figli. Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti sconvolti dalla precisione con cui si esprimeva e dalla preoccupazione che aveva di dare di sé un’immagine positiva. Un autocontrollo disumano, un automa incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni adeguando ad essi le proprie reazioni. Nel tempo pare abbia mostrato segni di pentimento e si sia avvicinato a Dio e alla preghiera. Carrère ha assistito alle udienze, ha studiato il fascicolo processuale, ha intrapreso una corrispondenza con Jean Claude Ramond e una volta l’ha incontrato in carcere. Solo tre anni dopo ha iniziato a scrivere un libro magistrale nel racconto di una atroce disumanità di un uomo tutto sommato banale. Scrive Carrère: *Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario”.
 


martedì 11 settembre 2018

Una sera di maggio un sedicenne

Ho raccontato questa storia durante una serata tra amici. Il tema era: qual è l’esperienza più assurda che ti sia capitata. Uno di questi amici mi ha poi invitato a scriverla. Il fatto è realmente accaduto. Mi sono solo preso alcune licenze nella narrazione per renderlo più leggero e, spero, divertente.


Una sera di maggio del 1980 rientro a casa dopo aver dato il mio quotidiano fondamentale contributo al tavolo permanente su schemi, tattica e, ovviamente, fighe, materie per le quali condivido la docenza con altri intellettuali del centro sportivo del paese, e mia mamma mi dice: ha chiamato una al telefono. Una chi? Una, non le solite. E cosa voleva? Cercava te. La logica di mia madre è sempre stata spiazzante. Bene. Ci provo, anche se so già che la richiesta si rivelerà del tutto inutile: se richiama chiedile il nome, magari scopriamo chi è. E infatti potevo risparmiarmi il fiato. Per altre 5-6 volte nell’arco di un paio di settimane, mia mamma, a giorni alterni, mi annuncia che la misteriosa ragazza - “una”, che nel gergo della genitrice era un identificativo più che sufficiente - aveva telefonato di nuovo. Via via anche un po’ incazzata, mia madre, intendo, perché non c’ero mai e toccava sempre a lei rispondere e che figura ci faceva, visto che non sapeva nemmeno dove fosse suo figlio e bla bla bla. Mamme. Finalmente alla sconosciuta riesco a dare un volto e un nome, come direbbero al telegiornale locale. Sto aspettando il pullman che mi riporterà a casa dopo le lezioni e mi sento chiamare. “Sono giorni che ti cerco”. Mi giro. Statura media, mora, capelli raccolti, fermati con una matita. Non bella, ma nemmeno brutta. Diciamo che i miei ormoni al galoppo non avrebbero rallentato la corsa. Soprattutto, mai vista prima. “Scusa?”. “Ti ho telefonato almeno 5 volte, anche ad orari diversi, e non sei mai a casa. Si può sapere dove vai tutto il giorno? Quando studi? Comunque io sono Antonella e volevo invitarti alla mia festa sabato sera. Se vuoi, puoi portare il tuo amico”. Chiude senza darmi possibilità di replica e raggiunge due ragazze che guardano la scena e ridono ad una decina di metri di distanza. Prima però mi dà l’indirizzo. Fondamentale, visto che fino a quel momento non avevo avuto il piacere. Il mio amico in questione, che aveva assistito al siparietto un po’ in disparte, si avvicina, fa un apprezzamento politicamente scorrettissimo e mi chiede a sua volta: chi è?. “Boh, si chiama Antonella. Comunque sabato siamo invitati alla sua festa”. “Dove?”. Glielo dico. “E come ci arriviamo, secondo te?” Ci andiamo in autostop, come del resto si faceva sempre nei fine settimana, prima di avere la patente, per spostarci dal nostro paese verso i centri della movida dell’epoca.
E qui inizia davvero la storia. Ci stiamo alternando all’autostop nel cazzeggio più totale quando vediamo la A112 di una persona conosciuta e che il buon senso ci suggerirebbe di evitare. Troppo tardi. Quello inchioda facendo imprecare gli avventori del bar dall’altro lato della strada e si ferma un bel pezzo più avanti, sbandando leggermente. Porca troia. Spero, anzi speriamo entrambi che la sua meta non coincida con la nostra, così da declinare l’offerta di passaggio. Invece, visto che non ha niente da fare, dice, si offre di accompagnarci. Riparte lasciando sull’asfalto un chilo di pneumatici. Nei venti minuti successivi confesso di aver vigliaccamente abiurato il materialismo storico di Carlo Marx, per abbracciare senza vergogna la religione cattolica, recitando, più o meno correttamente, le preghiere che da bambino aveva cercato di insegnarmi il buon don Melotti. Se Dio vuole, e qui direi che l’esclamazione ci sta bene, arriviamo. Il nostro uomo guarda l’ora e butta lì che intorno a mezzanotte dovrebbe ripassare. “Grazie, andiamo ad una festa e faremo sicuramente più tardi”. A meno di incontrare Aaron Kosminki, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jack lo Squartatore, per quella sera pensiamo di aver già dato.
Antonella, che ha un anno meno di me, scoprirò poi, ci accoglie sorridente ed euforica. La mia impressione, condivisa dagli ormoni di cui sopra, rimane inesorabilmente quella di qualche giorno prima. E agli ormoni, ahimè, non si comanda. Ma è oltre quella soglia che ci aspettano le vere sorprese della serata. La prima è che nella stanza principale della festa troviamo una ventina di ragazzini. L’età media è imbarazzante. E la musica lo è di conseguenza. Se non bastasse, a sorvegliare sulle mutande di tutti ci sono anche la sorella della padrona di casa e il marito. Quando li vede, il mio amico mi manda a fare in culo, nemmeno troppo velatamente. Se Dio vuole – e siamo a due: l’effetto del viaggio non si è evidentemente ancora esaurito - Il buffet è invitante e visto che ci siamo prendiamo posizione. “Puoi venire un attimo?” Antonella, con la quale ho dovuto ballare due lenti sotto lo sguardo attento dei parenti e quello divertito del mio amico, ormai fisso ai vassoi, mi prende per mano e mi guida verso la cucina. E’ in quel momento che, non so perché, probabilmente l’istinto, l’angelo custode, Carlo Marx, o tutti e tre insieme, ho una strana sensazione, come di disagio. Passando di fianco allo stronzo, che continua imperterrito ad abbuffarsi, ma che trova il tempo di dirmi: “non vorrai mica, spero?”, accompagnando il concetto con l’inequivocabile gesto corrispondente, riesco a ribattere: “massimo 5 minuti e torno”. Eiaculazione precoce? Fanculo. La cucina è una stanza abbastanza ampia. C’è addirittura un divano sul quale sono seduti la sorella di Antonella e il cognato. Lo guardo per la prima volta. E’ un uomo alto, con i baffi, un aspetto e un look antichi, nonostante a occhio non abbia più di 25-30 anni. Antonella mi lascia improvvisamente al centro e si mette alla mia destra, più o meno a metà tra il divano e il sottoscritto. La porta è alle mie spalle. Aperta. Dettaglio che avrà una sua importanza. Aspetto che il baffo mi chieda che busta voglio: la uno, la due o la tre. Invece mi saluta. Anche lui conosce il mio nome. Penso alle buste e mi vien da ridere. E in effetti quello che sta per andare in scena, io non lo so ancora, sarà a dir poco surreale. Intuisco che non è il caso di fare il buffone perché il baffo ha la postura di chi si appresta a fare un discorso importante. Anche se all’inizio non realizzo dove voglia andare a parare. Forse perché la busta l’ha scelta lui e comanda il gioco. In effetti la prende un po’ alla larga: dalla festa passa ad una concione sulla scuola, all’importanza dello studio, poi improvvisamente vira sulla famiglia e si commuove quasi parlando delle unioni solide, come la sua e quella della moglie. Per me, che oltretutto sono un fighetto del classico, quelli del baffo sono discorsi da bar, ma sorrido e annuisco ebete. La cosa divertente e preoccupante insieme è che il baffo sembra essere fiero della sua prolusione. Per non ridergli in faccia, pare brutto, faccio quello che faccio tuttora quando sono costretto ad una cosa di cui mi importa meno di zero. Tolgo l’audio. E aspetto che passi. Vedo le labbra muoversi sotto i baffi, le espressioni del viso, il modo di gesticolare. Guardo la sorella di Antonella che tiene costantemente gli occhi bassi. Per tutto il tempo, non ho idea quanto sia durato: probabilmente cinque minuti, ma avrebbero potuto essere 5 ore o 5 giorni, non ha aperto bocca. In effetti se ci penso non so che voce abbia. Forse è muta. Oppure si vergogna di quello che sta dicendo il marito. E questo sarebbe un punto a suo favore. Decido di riattivare l’audio, sperando abbia finito. Non ha finito. “Tu stai facendo il liceo classico, quindi dovrai andare per forza all’università: il tuo diploma, diciamolo, non vale niente”. Vorrei dissentire, prima di tutto perché non si dice facendo ma frequentando: l’italiano è importante. Ma, ahimè, il copione prevede che sia sempre lui a parlare. “La facoltà l’hai già scelta? Sai già se andrai a Milano o a Brescia?” Dico sì, ma non riesco ad aggiungere: filosofia. E col senno di poi sarebbe stato meglio. Un filosofo è poco più di un barbone, nessuno aspira a tirarselo in casa. Che il mio sogno sia da sempre fare il giornalista – e qui il verbo è più che indicato - lo tengo per me. Anche perché, chi ti conosce baffo? Cosa sono tutte queste domande? Non capisco. Ed è strano che non capisca, perché sono un ragazzino sveglio e intuitivo. Invece, evidentemente, in quella casa mi sto trasformando, o forse lo sono già, nel figlio scemo di Tarzan delle scimmie. Con tutto il rispetto per Tarzan. E anche per le scimmie. Sono bloccato al centro della stanza, il baffo non mi fa parlare e, soprattutto, non mi ha lasciato scegliere la busta, cosa che peraltro ho sempre sognato di fare. “Antonella fa segretaria d’azienda “: ancora, ma allora è un vizio. “Dopo il diploma verrà a lavorare nell’azienda del padre”. Scopro così che il padre ha l’aziendina, dove lavorano tutti, baffo compreso, il quale dà per scontato che io sappia di cosa si tratta. Non lo chiedo perché ho paura che apra un altro capitolo. “Nel frattempo tu puoi decidere se dedicarti solo allo studio o venire a dare una mano da noi: ti paghiamo naturalmente, perché anche se sei il fidanzato di Antonella, noi non sfruttiamo nessuno”. Alt. Fermi tutti. Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Lo ripeto a me stesso tre volte, anticipando di un paio d’anni l’urlo della vita di Nando Martellini. E anch’io sto per urlare: voi siete matti, ma matti tanto. Ho sedici anni, mi piace giocare a calcio, tra l’altro sono anche bravo, studiare, mi piacciono le ragazze (va beh, ho pensato fighe), in ogni caso Antonella, sorry, non rientra in nessuna di queste categorie. E poi la vedo stasera per la seconda volta. Non abbiamo neanche limonato, per dire. Valuto però che quest’ultimo concetto non solo c’entra nulla ma darebbe modo al baffo di intentare un processo alle intenzioni. Meglio evitare. Sento un rumore alle spalle. Il mio amico è appoggiato alla porta con un piatto in mano. Sorride. Ahhhh, allora è uno scherzo, penso. Siete dei bastardi. Comunque mi sento sollevato e verbalizzo il pensiero: “Ok è uno scherzo. Cazzo, mi stavo spaventando. Bravi. Beh adesso possiamo tornare di là. Mi è venuta sete”. No, non è uno scherzo. Il cognato si incazza pure e dice qualcosa sui pranzi della domenica e sul fatto che appena mi laureo e trovo un posto di lavoro, ci saremmo sposati. “Sposati chi, scusa?”: finalmente riprendo pienamente possesso delle mie facoltà mentali. “Tu e Antonella, di cosa abbiamo parlato finora?”. Mi giro di nuovo. Il mio amico non sorride più. Non so se è il neon ma mi sembra impallidito. Tiene il milionesimo tramezzino in mano e la bocca semiaperta. Questo è uno sciroccato. Sono tutti sciroccati. So solo che non devo contraddirlo perché chissà cosa potrebbe fare. E che devo pensare in fretta a come sganciarmi. Visto il prologo a questo punto mi aspetto che per lasciarmi andare mi faccia sottoscrivere qualcosa. Un impegno. Una lettera che verrà ceralaccata da un notaio e che mi legherà per sempre a questi pazzi scatenati. Dentro di me lo so che non è possibile. Ma mettetevi nei miei panni. Ho 16 anni. Sono uscito per andare ad una festa, libero e bello, quantomeno libero, e mi trovo fidanzato e promesso sposo a mia insaputa, anche qui anticipando di decenni eventi ben più gravi per il Paese. Concedete che non fossi preparato? In quel momento temo che nemmeno Carlo Marx possa aiutarmi. Mi viene in soccorso la sorte. Nella stanza da ballo si sentono delle voci e dei rumori. Il baffo scatta, urtando il mio amico, che posa il piatto e mi trascina letteralmente fuori. Antonella piange. La sorella mi guarda e lì capisco che se potesse verrebbe via con noi. Mi ritrovo per strada e iniziamo a correre. Ci fermiamo dopo un chilometro su una panchina seminascosta a riprendere fiato. Sia mai che il baffo venga a cercarci. Il mio socio mi chiede di spiegargli cosa cazzo è successo. Non si capacita. Lui. Figuratevi io. Mi racconta quello che ha sentito. Io la parte che non conosce. E’ tutto talmente assurdo che non riusciamo nemmeno a ridere. Per rientrare dobbiamo affidarci all’autostop. Apro la porta di casa ad un orario insolito per essere sabato sera. Ma va bene così. Non dimentichiamo che c’è sempre Aaron Konsminski a piede libero. Antonella l’ho poi intravista un paio di volte. Abbiamo evitato entrambi di incrociarci e non è stato difficile. L’ho incontrata dopo anni: passeggiava sul lungolago abbracciata ad un uomo più grande di lei. Mi ha sorriso senza salutare. Ho fatto altrettanto

lunedì 3 settembre 2018

La belva nel labirinto


Giuseppe Lombardi, detto il Pepp, da 40 anni il miglior idraulico di Lambrate, si prepara per una serata in balera, ma in mente ha un obiettivo che prescinde dal ballo. Anche Gabriel si prepara, come fa tutte le sere, a diventare Gabriela e ad andare in balera, ma anche il suo di obiettivo prescinde dalle danze. I due si incontrano e recitano la loro parte almeno fino a un certo punto. Quando l’idraulico già pregusta una notte di follie erotiche, lei gli sfila il portafoglio ...e se la dà a gambe. Lui prova a inseguila ma l’età e la forma fisica non sono dalla sua parte. Al Pepp non resta che appoggiarsi ad un’auto in sosta per riprendere fiato. All’interno c’è il cadavere di un uomo, ucciso con 4 colpi di pistola. E accanto al cadavere, scopriranno gli uomini del vicequestore Norberto Melis, c’è una carta, un arcano dei tarocchi, contrassegnato da due M e da un’annotazione che sembra una data. Ma quello dell’uomo non è il solo cadavere nell’auto. Nel bagagliaio c’è il corpo di una ragazza, uccisa dopo essere stata seviziata. Per il vicequestore della Mobile di Milano l’indagine si presenta da subito complicata, un’indagine più sociale e sociologica che di polizia. Di morti ammazzati ce ne saranno altri, complessivamente cinque: un giovane studente di famiglia bene con simpatie nazifasciste, due ragazze qualunque, quelle che la cronaca definirebbe acqua e sapone, un travestito e un prete di strada. Persone agli antipodi, senza alcun legame, con esistenze lontane anni luce. Perché dunque proprio loro? Cosa le lega una all’altra? Perché un legame ci deve essere per forza. Forse mai come stavolta bisognerebbe ricordare quello che disse Simenon: il delitto non conta, conta quello che accade o è accaduto nella testa di chi lo commette. Melis impiegherà oltre 3 mesi, da inizio giugno a fine settembre ‘87, per mettere insieme i tasselli necessari a identificare i responsabili, o meglio: il contesto allucinante che ha alimentato il crimine e dove i colpevoli sono probabilmente l’ultimo dei mali.
Hans Tuzzi ha una scrittura elegante, ricercata nelle citazioni e nei riferimenti letterari anche se mai esibita. Il commissario Norberto Melis è un uomo altrettanto raffinato, di buone letture, con un alto senso etico e della giustizia, pur non dedicandosi anima e corpo alla professione. Melis non è un eroe maledetto, con una vita sfasciata: ha una compagna, Fiorenza, altrettanto colta e alla sera gli capita di frequentare gli amici. Il protagonista dei gialli di Tuzzi esce cioè dai cliché: forse non è nemmeno bello e simpatico, o perlomeno non fa nulla per esserlo. Pensa molto, si aiuta con i classici e arriva a scrivere verità mai belle e spesso scomode. La belva nel labirinto è ambientato a Milano alla fine degli anni ‘80. Ma in realtà è senza tempo, perché parla di cattiveria, di odio per la diversità, di anaffettività. Sostanzialmente della banalità del male: perché basta solo un attimo di distrazione

sabato 1 settembre 2018

Così giocano le bestie giovani

La verità non si trova in natura, è un lavorato. Ma prima o poi viene sempre a galla. Anche dopo trent’anni. Così giocano le bestie giovani di Davide Longo è un noir “politico” che ci riporta indietro agli anni di piombo, tra terrorismo rosso e nero, segreti di Stato, rampolli di buona famiglia che giocano alla rivoluzione, prima di andare in banca a lavorare, e idealisti veri che ammazzano e si fanno ammazzare. Ma l’abbrivio della storia è datato 2008. Siamo nelle campagne t...orinesi. In un cantiere ferroviario vengono rinvenuti gli scheletri di una decina di persone, tutte ammazzate con un colpo alla nuca. Per rispondere ai quesiti che rimanda questa fossa comune viene chiamato il commissario Arcadipane. Il caso rimane però nelle sue mani soltanto una notte. Il tempo necessario ad una task force di arrivare sul posto con l’intento (il mandato?) di archiviare al più presto l’indagine facendo risalire i morti alla Seconda guerra mondiale. Arcadipane è in un periodo buio della sua vita, tra crisi personali e famigliari, ma non è stupido e tutta questa fretta lo insospettisce. Anche perché nella fossa trova il bottone di un paio di jeans, sicuramente non databile agli anni 40 del secolo scorso. Così come la placca di ferro, i cui segni sono stati riscontrati su un femore che il commissario ha sottratto e fatto analizzare, è sicuramente più recente rispetto all’epoca del conflitto bellico. Arcadipane decide di proseguire le indagini in autonomia. Chiede aiuto per questo ad una giovane poliziotta, ai margini della Mobile per il pessimo carattere, e al suo predecessore e mentore. L’ex commissario Corso Bramard intuisce subito che gli scheletri potrebbero essere collegati a un vecchio caso, che proprio lui aveva seguito quando era un giovane agente appena arrivato a Torino. Da qui in poi l’autore fa un lungo flashback che ci porta indietro nel tempo, in una Torino fumosa, fatta di giovani universitari idealisti, lotte politiche, attentati. Fino alla scoperta di un’antica verità, che non dico per non togliere il piacere della lettura. Davide Longo è bravo. Chi ama la bella scrittura, i periodi lunghi, l’attenzione all’aggettivazione, la cura nelle descrizioni, dei luoghi e dei sentimenti, apprezzerà molto questo thriller, che non dà alcun giudizio di parte sui fatti: solo il racconto delle persone e delle loro azioni.

lunedì 27 agosto 2018

Lo stupore della notte

Finora l’Italia non è mai stata presa di mira dall’ISIS. Non ci sono stati attentati, non ci sono stati morti, come in Francia o in Germania. Finora. Il Maestro – un uomo? un collettivo di persone? una leggenda? – ha deciso che è arrivato il momento che gli infedeli di qui paghino per le loro colpe. Nessuno l’ha mai visto, il Maestro, nessuno sa il suo nome, ma è riuscito a costruire nel tempo una rete du adepti al Califfato, pronta ad agire e a scatenare l'inferno anche in Italia. Rosa Lopez è una poliziotta tosta. Si è fatta le ossa in Calabria nella guerra alle cosche. Tocca a lei, commissario capo dell’antiterrorismo a Milano, impedire che i piani del Maestro si trasformino in una carneficina. Ma Rosa Lopez non è una donna limpida. Ha tanti, forse troppi segreti, capitoli aperti della sua vita, alcuni dei quali si porta dietro dalla Calabria, che torneranno a chiederle conto. Soprattutto è sotto scacco dell’intelligence americana, alla quale deve rispondere ancor prima che ai suoi superiori. L’unica oasi a cui aggrapparsi si chiama Alessandro Reale, un importante chirurgo, uomo ricchissimo e bellissimo. Ma le oasi, si sa, a volte sono solo illusioni. Non dico come andrà a finire, anche se credo non toglierebbe nulla al piacere di leggere “Lo stupore della notte”, secondo me il romanzo della maturità di Piergiorgio Pulixi, considerato oggi, a ragione, una delle voci più brillanti del noir italiano, dopo l’esperienza nel collettivo di scrittura Sabot di Massimo Carlotto. Pulixi fa crescere la storia e la tensione alternando nei capitoli, con grande maestria e senza mai perdere il filo i preparativi del Maestro, le indagini dell’antiterrorismo, le intrusioni delle spie americane, Rosa Lopez e le sue ombre parallele. Fino all’epilogo, che non è per nulla scontato. Avvertenza: Piergiorgio Pulixi non è una lettura distensiva: non lo è qui e non lo è in generale, penso a “L’appuntamento” o a “Per sempre”. A mio giudizio però “Lo stupore della notte” è uno dei noir più belli letti ultimamente.

giovedì 23 agosto 2018

Mio caro serial killer

Mi è mancata Alicia Gimenez-Bartlett, ma ne è valsa la pena aspettare. Mio caro serial killer, l’ultimo romanzo della scrittrice spagnola, spinge a quelle cose sconvenienti come sottrarsi ai doveri del vivere civile per nascondersi a leggere ancora qualche pagina. Ora, esagero un po’, ma è per spiegare che alcune storie e soprattutto alcune scritture riescano a catturarti tanto da non riuscire a decidere cosa sia meglio: se divorarti in fretta il libro o se centellinare i capitoli per rimanerne immerso e continuare a vivere nella storia, nello specifico al fianco di Petra Delicado e Fermin Garzon, ispettore e vice della Polizia iberica: coppia di investigatori sui generis. Coppia di fatto verrebbe da dire, ma che la Gimenez Bartlett è riuscita a caratterizzare talmente bene che la differenza di genere non interferisce mai sul vivere a stretto contatto e tantomeno sulle indagini. Io, lo confesso, ho un debole per Petra Delicado: è anticonformista, istintiva, non sempre segue il filo logico dei pensieri, e poi le piace mangiare, preferibilmente nelle bettole, e bere. Dopo questo outing diciamo che Petra Delicado e Fermin Garzon - che per la prima volta sono supportati da un ispettore della polizia autonoma catalana, per di più titolare delle indagini, cosa che metterà a dura prova l’ego della Delicado - sono alle prese con un serial killer. Un omicida seriale che ammazza donne sole, sfigurandone poi il volto con un coltello, lasciando sul cadavere una lettera d’amore. Tre le ragazze che vengono trovate nel giro di pochi giorni, alimentando la psicosi nella popolazione e la pressione dei vertici della polizia. Mettendo insieme i pochissimi elementi raccolti, chi indaga riesce a trovare una possibile pista: le tre donne hanno avuto una relazione con la stessa persona, o perlomeno le caratteristiche fisiche di quest’uomo misterioso coincidono in tutti e tre i casi. Di più: tutte si sono rivolte alla stessa agenzia di cuori solitari e sono uscite proprio con mister x che dapprima, sentitosi braccato, fa perdere le proprie tracce, firmando di fatto la sua colpevolezza. Ma una volta rintracciato e chiuso in carcere, il serial killer colpisce ancora. E a uccidere un’altra cliente dell’agenzia, anche questa partner occasionale dell’uomo in cella, è inequivocabilmente la stessa mano. Non vado oltre. Dico solo che si sarà un quinto omicidio, e che anche questa vittima ha un legame con il primo presunto serial killer, ma stavolta la descrizione dell’omicida, visto fuggire da un passante, non corrisponde al suo profilo. Piccola divagazione: ci sono alcuni passaggi nel racconto dove l’autrice dà alcuni indizi che consentono al lettore di farsi un’idea. C’è però bisogno di un’intuizione della mia Petra, per mettere a posto tutti i pezzi del puzzle di una vicenda pesante. Pesante anche dal punto di vista emotivo e del coinvolgimento, qui sì, di genere, che porta forse per la prima volta l’ispettore Delicado a perdere lucidità e a mettere in discussione la professione. La prego signora Batlett, adesso non mi faccia aspettare troppo

mercoledì 22 agosto 2018

A bocce ferme


“A bocce ferme”, vado a memoria, è il settimo romanzo che Marco Malvadi dedica ai vecchietti del Bar Lume, i 4 simpatici venerandi, altrimenti detti “la banda della Ma
gliadilana” che bivaccano nel locale del nipote del più anziano del gruppo, a Pineta, lungomare di Pisa. Da lì, tra battute, lazzi e racconti di vita, si trovano a dirimere i casi di cronaca nera che accadono nella cittadina, aiutando (spesso interferendo) nelle indagini il vicequestore Alice Martelli, da un paio di romanzi, vado sempre a memoria, fidanzata del barrista (la doppia r non è n errore) Massimo Viviani, laureato in matematica ma da sempre titolare dell’esercizio in questione. Il cold case d’abbrivio di “A bocce ferme” arriva dal passato, dal ’68, e riguarda l’omicidio del titolare della Farnesis, l’industria farmaceutica con sede a Pineta e del quale era stato all’epoca accusato e arrestato un sindacalista della fabbrica. Il vero colpevole, reo confesso, viene scoperto a 50 anni di distanza: il figlio adottivo della vittima si autodenuncia nel testamento e l’imbroglio nella linea di successione impone la riapertura delle indagini. A ingarbugliare la matassa è un ulteriore omicidio, legato al precedente. Ad essere trovato morto in casa sua è un ex dipendente della farmaceutica, che proprio quel giorno aveva convocato, ad orari diversi, i giornalisti di alcune testate locali e nazionali per raccontare la verità sulla morte dell’imprenditore. I sospetti in questo caso ricadono immediatamente sull’ultimo titolare della Farnesis, che ovviamente non ha un alibi e tutto l’interesse a non far scoprire la verità. Ma sarà proprio così? Ovviamente no. E stavolta la memoria storica dei vecchietti e l’acume logico matematico del barrista aiuteranno Alice Martelli a risolvere il caso. I vecchietti del Bar Lume è la lettura estiva per antonomasia. Marco Malvaldi è bravo, ha rinnovato un genere, quello del giallo comico in costume. Una formula felice di leggerezza, un sottile pennello che dipinge un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica ma che del Paese vero fa capire molte cose. Chi fosse attratto dalla serie, l’esordio dei vecchietti avviene con “La briscola in cinque”, che io comprai, confesso, attirato dal titolo, nostalgico ricordo della (semi) nullafacenza del periodo universitario, condivisa con altri 4 debosciati. Anzi, per la verità loro erano debosciati. Io giocavo anche a tennis

martedì 21 agosto 2018

Sbirre

Anna Santarossa è un vicequestore, Alba Doria un commissario, Sara Morozzi ha lavorato per i Servizi, ora è in pensione. Sono loro le Sbirre, nell’ordine, di Massimo Carlotto, Massimo De Cataldo e Maurizio De Giovanni. Tre racconti di tre maestri del noir italiano per inaugurare (forse) una new wave della letteratura nera, dove le donne in questione non sono paladine della giustizia, eroine che combattono il crimine e difendono la legge, anzi. Anna ha una vita e una carriera apparentemente irreprensibili. In realtà vende informazioni alla mafia bulgara e una volta scoperta e messa con le spalle al muro, usata e ricattata sia dai cattivi che dai (presunti) buoni, per salvarsi deve difendersi da entrambi e inventarsi una terza vita, dove non esistono valori ne’ regole. Alba si trova ad indagare nel magma della rete, tra le pieghe più recondite del dark web per far luce su alcuni omicidi suicidi, presumibilmente guidati e ordinati da un Maestro dell’odio estremo. E più l’indagine va avanti e più il fascino del male e del potere - assoluto, feroce e mascherato - la attrae fino a meditare di percorrerne la stessa strada per vendicarsi di soprusi subiti. Sara torna operativa in un’indagine solitaria e non autorizzata anche lei per vendicare la morte del figlio, deceduto ufficialmente in un tragico incidente stradale, in realtà ucciso volontariamente dall’uomo che l’ha investito. Figlio che Sara non vedeva da oltre 20 anni, da quando se n’era andata di casa con l’amore della vita e che ritrova ora nei racconti, dapprima rancorosi e poi via via solidali, della giovane compagna in attesa del loro primo figlio.
Tre figure di donne estreme: fragili e passionali, che spostano un po’ più in là il concetto di giustizia, riscrivendolo e interpretandolo a modo loro: sedotte dal delitto, soggiogate dalla vendetta, che pur nella drammaticità delle scelte non suscitano disprezzo, anche perché alla fine tutte pagheranno un prezzo altissimo. Personalmente non amo i racconti brevi, ma c’è da dire che in ognuno ci sono i prodromi di una possibile evoluzione dei personaggi in qualcosa di più strutturato. In ogni caso chi ama il genere e apprezza Carlotto, De Cataldo e De Giovanni non rimane deluso

lunedì 20 agosto 2018

Il metodo Catalanotti

Andrea Camilleri l’ho scoperto per caso nel ‘97 leggendo sul Manifesto un trafiletto che recensiva “La voce del violino”, primo libro della serie dedicata al commissario Salvo Montalbano. Da allora il filone noir dello scrittore siciliano è diventato un appuntamento atteso e condiviso con molti amici. Ne “Il metodo Catalanotti" assistiamo a una svolta importante nell’uomo Montalbano. Partirei proprio da qui perché è un cambio che apre nuovi scenari e sarà sicuramente motivo di dibattito.
In questi anni, sulla spinta anche della fiction televisiva, il commissario di Vigata è diventato un fenomeno pubblico. Ha alimentato discussioni, confronti, è stato oggetto di tesi di laurea. Ha fatto nascere fazioni. Personalmente sono idealmente iscritto a quella che sostiene - senza se e senza ma - Livia Burlando, la donna della vita, fidanzata a tempo, lontana e distante dal vero mondo di Montalbano. Ora, mi rendo conto che possono sembrare questioni di lana caprina, ma forse è proprio questo il grande merito di Camilleri: aver costruito una figura letteraria che ha preso vita propria, con cui interloquire, condividere, dissentire, arrabbiarsi, se capita. In questo libro, dicevo, il Montalbano uomo prende una china che non gli fa per niente onore. E non si tratta di una sbandata o di una scappatella, alle quali ci aveva già abituato e sulle quali, per un sostenitore di Livia come il sottoscritto, ci sarebbe comunque da ridire. No, stavolta la faccenda è più seria, perché Montalbano si innamora perdutamente di una ragazza di 30 anni più giovane. E di fronte ad una passione travolgente cosa fa? Si comporta nel modo più meschino e banale possibile. Per questo mi indigno, caro commissario. In questo mondo senza qualità eri ormai una delle poche figure di riferimento, insieme a Tex Willer e Zagor Tenay, lo spirto con la scure: non è accettabile una caduta di stile da uomo qualunque. Scusate lo sfogo. Detto ciò, la vicenda è al solito ben costruita e il finale non è per nulla scontato. La vittima, uccisa in casa con una coltellata al cuore, è il Carmelo Catalanotti del titolo, personaggio a sua volta complesso e intrigante – usuraio e regista teatrale – sperimentatore in quest’ultima veste di un metodo di recitazione traumatico, che obbliga gli attori a vivere in prima persona quello che poi accadrà sul palcoscenico: non quindi una mimesi dell’azione, ma un’identificazione delle passioni. Da questa complessità e dalle ombre che avvolgono attori e debitori, il commissario dovrà partire per trovare il colpevole, sempre se di colpevole alla fine si possa parlare. Come sempre, nelle storie di Montalbano troviamo riferimenti all’attualità sociale e politica: ma questo è principalmente un romanzo sulle passioni: quella per il teatro, di cui Camilleri è un maestro, e quella amorosa. Con i distinguo personali su quest’ultima

sabato 16 giugno 2018

Come la mappa del cielo

“Come la mappa del cielo”, secondo impegno letterario di Lucio Dall’Angelo, dopo “il libro di Baruc” del lontano ‘94, vincitore del prestigioso premio Alberto Tedeschi come miglior giallo inedito e ormai introvabile: rimpiango ancora quel giorno che mi è venuta la malaugurata idea di parlarne ad un amico e di prestarglielo, per non rivederlo mai più.
“Come la mappa del cielo” è un libro bello bello, che detto così sembra un... commento pre adolescenziale – dai, alla tua età puoi fare di meglio – ma è quella bellezza che non sapresti dire diversamente, che ti cattura dall’incipit, ti prende per mano e ti guida attraverso tutti i piani del racconto – e sono tanti – per portarti, con armonia, che della bellezza è parente stretta, a colorare tutte le immagini, o meglio, le mappe, che l’autore ha disegnato sotto la volta del cielo. Rebecca e Francesco sono due ragazzi di 16 e 17 anni, che si incontrano, si annusano ed è come se si conoscessero da sempre. Entrambi stanno cercando delle risposte, che per chiunque a quell’età rappresentano un po’ lo spartiacque della crescita, ma per loro un po’ di più: perché sono risposte senza le quali non potrebbero andare avanti. Rebecca non ha mai saputo chi è suo padre, La vita di Francesco e della sua famiglia è ferma all'incrocio dove il fratello è morto in un incidente in moto e lui è rimasto paralizzato. "Come la mappa del cielo" non è un giallo, almeno secondo i sacri crismi. C’è però un mistero, che porterà i due ragazzi alle verità che cercavano ed è il filo conduttore dell’intera vicenda: la ricerca dell’alfabeto degli antichi camuni, un codice di comunicazione in grado di creare una relazione diretta tra gli uomini, il cielo e la divinità. Ipotesi suggestiva di un giovane archeologo scomparso nel nulla una 15ina di anni prima, mentre stava verificando sul campo le proprie teorie. E questo campo è la Valcamonica, la valle dei segni, la mia valle, che Lucio Dall’Angelo (mi) restituisce in tutta la sua bellezza facendone il palcoscenico di storia, di stelle e di roccia del suo racconto. Nel libro non ci sono solo Rebecca e Francesco, che in Valcamonica, a Ponte di Legno, si trovano in vacanza e che cercano di riannodare i fili di quelle suggestive teorie preistoriche e della loro vita partendo da una foto trovata ne “Il Quindo Evangelio” (libro non a caso) scovato nella libreria della nonna della ragazzina. Ci sono altri personaggi, solo apparentemente minori. In realtà, ed è questa un’altra bellezza dell'opera, tutti hanno una coralità fondamentale nello sviluppo della trama. Alla fine la mappa, in tutte le sue declinazioni, si completerà. La speranza, mia perlomeno, è che Rebecca e Francesco completino un altro percorso di scoperta, del quale Dall'Angelo sapientemente fa cenno più o meno a metà per riprendere nelle ultime righe e che li potrebbe portare in India, sulla rotta dei migranti italiani nelle minierie d'oro.

martedì 20 febbraio 2018

L'estate degli inganni




E se il mandante della strage alla stazione di Bologna fosse stato Gheddafi? Per ritorsione nei confronti dell’Italia, considerata responsabile dell’abbattimento nel proprio spazio aereo di un Mig pilotato dal suo primogenito? E se di questa responsabilità il Rais non ne avesse fatto mistero con il presidente del consiglio dell’epoca e con i principali ministri, ma fosse stato il suo guanto di sfida, non raccolto e insabbiato in una verità di comodo dai vertici istituzionali in nome della sicurezza nazionale? C’è tutto questo – e tanto di più: per esempio il ruolo interessato del Mossad nel riportare alla luce la vicenda - nel secondo convincente giallo di Roberto Perrone, che vede Il suo protagonista, l’ex colonnello dei carabinieri Annibale Canessa, immerso in un intrigo internazionale, che rimanda ai segreti della guerra fredda e al conflitto invisibile combattuto dalle grandi potenze nei cieli del Mediterraneo. Ma stavolta l’indagine sugli enigmi dell'estate di sangue, stagione d'inganni, depistaggi e tradimenti che ha spazzato via l'ultimo resto di innocenza in Italia, porterà Canessa, in nome della verità, a mettere in gioco ciò che gli è più caro. Attenzione, comunque. Avverte Perrone nella nota conclusiva: “Molti riferimenti a fatti realmente accaduti non sono casuali, ma si tratta, appunto, solo di riferimenti. Di nient’altro. Non ci sono tesi alternative da rivelare né l’intento di rileggere la Storia”. Da leggere


mercoledì 17 gennaio 2018

Libri letti nel 2017



Gennaio
Gianni Farinetti - Il ballo degli amanti perduti
Andrea Vitali - Le mele di Kafka
Romolo Bugaro - Bea vita. Crudo Nordest 
Alessandro Robecchi - Torto marcio

Febbraio
Pierre Lemaitre - Rosie & John
Irene Nemirovsky - Due
Romolo Bugaro - Effetto domino 

Marzo
Roberto Perrone - La seconda vita di Annibale Canessa 
Antonio Manzini - La giostra dei criceti 
Antonella Lattanzi - Una storia nera

Aprile
Romolo Bugaro - Ragazze del Nordest
Gianrico Carofiglio - L'estate fredda
Autori vari - Viaggiare in giallo

Maggio
Marco Missiroli - Senza coda

Giugno
Concita De Gregorio - Mi sa che fuori è primavera 

Luglio
Diego De Silva - Divorziare con stile
Andrea Camilleri - La rete di protezione 
Maurizio Maggiani - Il Romanzo della Nazione 
Carlo M. Cipolla - Allegro ma non troppo 

Agosto
Fiona Barton - Il bambino
Fiona Barton - La vedova
Amelie Nothomb - Metafisica dei tubi
Tommaso Ariemma - La filosofia spiegata con le serie TV
Luca Steffenoni - Il caso Pantani. Doveva morire
Concetto Vecchio- Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano 

Settembre
Antonio Manzini - Pulvis et umbra
Gabriele Romagnoli - Solo bagaglio a mano
Giampaolo Simi - La ragazza sbagliata 
Wu Ming - L'invisibile ovunque
Giampaolo Simi - Cosa resta di noi
Massimo Carlotto - Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane

Ottobre
Enrico Mirani - Il brigadiere del Carmine 
Emiliano Fittipaldi - Gli impostori
Gianrico Carofiglio - Le tre del mattino 
Marco Malvaldi - Negli occhi di chi guarda

Novembre
Piergiorgio Pulixi - La scelta del buio

Dicembre
Ida Ferrari - La vincita
Alessia Gazzola - Arabesque 
Massimo Tedeschi - L’ultimo record 
Nicola Fiorin - Il tredicesimo arcano