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martedì 17 luglio 2007

Chi corre in auto ce l’ha piccolo

La signorina Lehmann era uno scricciolo. Piccola e minuta, si portava in giro i suoi 80 anni con dignità ed eleganza. Abitava proprio di fronte a casa mia. O meglio, abitava nelle case di fronte alla grande fabbrica dove allora lavorava tutto il paese, compresi i miei genitori. Non ricordo per quale scherzo del destino fosse finita lì, né da dove venisse. Ricordo però che parlava con un accento strano, che la mia mente di bambino aveva classificato come milanese. Quello che di sicuro non dimenticherò è il giorno in cui è morta. Come ogni mattina d’estate, noi piccoli nullafacenti stavamo giocando nel piazzale della fabbrica. Anzi, le varie mamme avevano già iniziato a chiamarci perché mancavano pochi minuti a mezzogiorno. E a mezzogiorno nelle case operaie ci si sedeva a tavola. Come sempre in quella fascia oraria il traffico sulla provinciale che divideva in due il paese si stava animando: gli operai uscivano dalla porta carraia per la pausa pranzo, i commercianti abbassavano le serrande e tornavano a casa, giovani muratori smanettavano verso il desco della mamma su improbabili motorini. Quella frenata e quel colpo sordo mi rimarranno dentro per sempre. Ho istintivamente girato la testa verso la strada e ho visto una cosa indefinita volare e atterrare sull’asfalto, dieci metri più avanti. Per qualche secondo si è fatto silenzio. Poi è stato un accorrere di persone. La signora Lehmann sembrava un fagotto di stracci: so che non è una bella immagine e nemmeno rispettosa, ma è quella originale che hanno fotografato i miei occhi. Non si muoveva più. In quella situazione drammatica, mentre qualcuno gridava: “chiamate un’ambulanza”, ci fu anche un momento comico. Un signore di animo buono, ma con una propensione troppo spiccata per il Campari, urlò: “si è mossa, è ancora viva, non chiamate nessuno!”. Fortunatamente chi era lì non ci fece caso. Purtroppo non servì a nulla. La signorina Lehmann è stata la prima persona che ho visto morire. Anni dopo, per lavoro, ho scritto di centinaia di incidenti e ho dovuto telefonare ad altrettante famiglie per avere le foto delle vittime da pubblicare. Per non soccombere mi ero dovuto costruire uno scudo di protezione, ma ogni volta che nel “giro di nera” mi veniva raccontato di un investimento mi tornava alla mente la signorina Lehmann.
Non voglio commentare quello che sta succedendo in questi giorni. Personalmente non credo sia un fatto eccezionale: si sono solo concentrati in poche ore incidenti che accadono regolarmente durante l’anno. Alla fine non sposteranno di molte unità il dato complessivo dei morti sulla strada. Non so francamente se lo Stato faccia abbastanza per arginare questa mattanza. Penso sia in primo luogo una questione di educazione delle persone e di rispetto dell’altro, più che di norme. Ha ragione Michele Serra quando dice che chi guida ubriaco o drogato (io aggiungerei anche chi corre in generale) ha la vocazione dell’assassino, che di fondo c’è asocialità, stoltezza, aggressività. L’auto vissuta come prevaricazione dell’altro; lampeggianti a due dita dal paraurti di chi precede a chiedere strada: per andare dove? per guadagnare quanti minuti? Perché? Secondo Serra bisognerebbe riformare tutta la comunicazione sulla sicurezza, le varie campagne sociali e di pubblicità progresso. Non dire più “sei un criminale”, status che magari eccita la vanità di persone del tutto sprovviste di etica. Dire piuttosto “sei un povero imbecille”, “sei un frustrato, un fallito”. Naturalmente – scrive ancora Serra – punire di brutto chi viene beccato, ma nel frattempo deridere e svilire la miserabile estetica del gaglioffo al volante. E come sui pacchetti di sigaretta, piazzare sulle nostre amatissime automobili la scritta “questo veicolo può ucciderti, e quel che è peggio può uccidere gli altri”. D’accordo. A volte però varrebbe la pena scendere sullo stesso piano di chi delinque e colpirlo in quello che ha di più caro e che lo muove nelle infinite praterie dell'imbecillità. Immagino una pubblicità progresso affidata per esempio ad Alex Drastico, uno dei tanti personaggi animati da quello straordinario attore che è Antonio Albanese. Se corri è solo perché ce l’hai piccolo. Di più: se hai un’auto di grossa cilindrata e dopo aver bevuto il bevibile ti metti a correre, non solo ce l’hai piccolo ma soffri anche di eiaculazione precoce: nove secondi netti, tempo da record del mondo sui 100 metri piani. Come dire: a te, grandissima testa di cazzo, Asafa Powell ti fa una pippa. Appunto…

domenica 15 luglio 2007

Amicizia

“... Avrei vissuto rapporti di un’intensità particolare, come accade quando l’altro è qualcosa di molto prezioso da preservare, godere e amare. Assaporato il gusto di uno scambio leale e trasparente basato sulla fiducia e nessun tornaconto, se non quello del guadagno reciproco tra persone ricche solo dell’esistenza dell’altro…”.

Barbara Balzerani, Compagna Luna

sabato 14 luglio 2007

Brutti caratteri? No, solo caratteri

La nazionale dell’Uruguay vinse a sorpresa il campionato del mondo del 1950 battendo in finale il Brasile per 2 reti ad 1. La partita, il cui risultato sembrava scontato, quasi già scritto a favore dei verde oro si giocò nel mitico Maracanà di Rio de Janeiro in una bolgia infernale di tifosi carioca: centocinquantamila persone, un numero che fa impressione solo a pronunciarlo, già pronte a festeggiare il titolo. Tra loro e la coppa Rimet – era opinione comune - c’era soltanto una manciata di minuti d’attesa: 90 per la precisione. L’Uruguay era un dettaglio. A nessuno di loro, nemmeno al più pessimista, era passato per l’anticamera del cervello che qualcuno (qualcuno chi?) avrebbe potuto rovinargli la festa. Eppure quel qualcuno era lì, in mezzo al campo: 33 anni, fisico massiccio, centromediano di lungo corso, un rosario di partite giocate a tutti i livelli. Se ne accorsero, ironia della sorte, proprio quando Friaca portò in vantaggio la loro nazionale. Obdulio Varela era il capitano di quell’Uruguay. L’uomo che al fischio finale dell’arbitro alzerà la coppa al cielo, facendo piangere di disperazione un intero Paese. Obdulio sapeva che quel gol di Triaca, al sesto del secondo tempo, avrebbe dato ulteriore slancio ed entusiasmo ai brasiliani. Sapeva che probabilmente il suo Uruguay sarebbe stato sommerso, annichilito, umiliato. A meno che…
Obdulio raggiunse la sua porta già violata, prese il pallone in silenzio e lo strinse fra il braccio e il corpo.

“…L’hanno visto tutti che prendevo io il pallone e piano piano me ne andavo in mezzo al campo, per raffreddare gli animi. Quello che non sanno è che io andavo a chiedere un off-side, perché il guardalinee aveva alzato la bandierina e poi abbassata prima che loro segnassero il gol. Io lo sapevo che l’arbitro non avrebbe accolto la protesta, ma era un’occasione per interrompere la partita e bisognava approfittarne. Sono andato con calma da lui e per la prima volta ho guardato il alto, quella folla di gente che inneggiava al gol. Li ho guardati di brutto, proprio di brutto e li ho provocati. Ci ho messo molto ad arrivare in mezzo al campo. Quando ci sono arrivato, avevano ormai fatto silenzio. Volevano veder funzionare la loro macchina segna gol e io non la lasciavo riprendere. Allora, invece di posare il pallone in mezzo al campo per ricominciare il gioco, ho chiamato l’arbitro e ho chiesto un traduttore. Mentre arrivava, gli ho detto che c’era stato un off-side e via dicendo, era passato almeno un minuto. Cosa non mi dicevano i brasiliani! Erano furibondi. Le tribune fischiavano, un giocatore è venuto a sputarmi addosso, ma io, niente. Serio e tranquillo. Quando abbiamo ripreso a giocare, loro erano ciechi, non vedevano neanche la loro porta tanto erano furibondi; allora noi tutti ci siamo accorti che potevamo vincere la partita…”.

Non esistono brutti caratteri. Ci sono caratteri e basta. E se a volte, o a qualcuno, risultano scomodi o non politicamente corretti, pazienza.
Brutti caratteri è il titolo di una rassegna letteraria. Il blog vuole essere un omaggio a chi è sopportato, malvisto, non allineato, fuori dal coro, sporco e cattivo, ma che ama dire ciò che pensa.

venerdì 13 luglio 2007

Ode alla BIC

E’ stata la mia prima penna in assoluto: una bic con l’inchiostro nero. Anzi due bic, che mio padre mi portò a casa una sera piovosa di un tardo autunno. Proprio quel giorno la maestra, poco prima del suono della campanella, aveva pronunciato le parole che tutti noi bambini della 1° A aspettavamo da tempo: da domani iniziamo a scrivere con la penna. Mi raccomando, portate una penna normale, una bic. Niente stilografiche, disse la maestra Laura: macchiano il quaderno. Dentro di me probabilmente feci la ola. E con me credo la maggior parte dei miei compagni. Da domani scriviamo con la penna, fu il coro all’uscita da scuola: ai genitori in attesa, ai compagni dell’altra prima, che invece non avevano avuto ancora il via libera. Del resto loro erano la B. Vorrà pur dire qualcosa se nell’alfabeto la B viene dopo la A, pensai bastardamente: bastardo come solo i bambini sanno essere. Allora passare dalla matita alla penna rappresentava un momento di crescita, una svolta nella vita: un po’ come quando all’asilo si passa dai mezzani ai grandi. Per il mondo che ti gira intorno non cambia nulla: sei bello, brutto, stronzo, simpatico esattamente come il giorno prima. Ma tu… tu cammini in maniera diversa, come a dire: non vedi, adesso sono tra i grandi, non sono più mezzano. Assumi anche una postura e uno sguardo diversi. Da grande: come fai a non vedere? Lui è un mezzano. Una specie di nonnismo ante litteram, via.
Prima che mi dimentichi, meglio mettere delle date. Siamo sì nel secolo scorso, ma ampiamente nella seconda metà. Anno del Signore 1970, 6 anni appena compiuti, scuola elementare comunale (paese operaio, non c’era stato tempo di dedicarla a qualcuno: meglio così). 1° A. All’epoca la scuola iniziava il 1° ottobre e il 4 si era già a casa: San Francesco, patrono d’Italia, almeno credo. Non ho mai avuto dimestichezza con i Santi. A casa del resto campeggiava una foto di Luciano Lama, leader assoluto della CGIL, che premiava mia zia con una medaglia d’oro (per il lavoro, non al valore: e anche questo per me continua a fare la differenza) e a casa del nonno c’era un quadro di Lenin. La cicogna mi aveva mollato lì, probabilmente gli avevo rotto i coglioni, non lo so: sta di fatto che la famiglia non te la scegli e almeno all’inizio l’aria che respiri è quella che passa il convento. C’è chi sulla parete ha Padre Pio o la Madonna, chi ha Luciano Lama e Vladimir Il’ic Ul’janov detto Lenin. Magari solo per questioni di pancia: perché è vuota, o perché gli girano a giostra i santissimi, che sono altro da quelli del calendario. Devo dire che tutto sommato non mi è andata malaccio. Sta di fatto che il 4 ottobre si stava a casa, il che voleva dire giocare in cortile tutto il giorno. Che santo fosse (quello del calendario) per noi bambini era un dettaglio. Bastardi? Probabilmente sì, ma a volte i più piccoli scoprono istintivamente verità su cui i grandi perdono tempo a farsi uno sproposito di seghe mentali. Per farla breve, il 1° ottobre si entra in classe. Si saluta la maestra, che mette subito le cose in chiaro: per i prossimi 5 anni (si spera: con me in 1° c’erano tre ripetenti), da ottobre a giugno, passeremo tutte le nostre mattine con lei. Qualcuno ricordo iniziò a piangere. Io valutai: meglio stare a casa con la zia (a cui ho voluto un bene dell’anima) o con questa signora, che peraltro mi sembrava una brava crista, e con tutti questi bambini? Non è che avessi alternative, ma il mio personale referendum ottenne un quorum del 100% e la maggioranza assoluta, cioè io, votò per la seconda ipotesi. Fu così che presi posto e finita la pioggia di lacrime e di moci dal naso da abbandono, tutti insieme, 22 bambini equamente distribuiti tra maschi e femmine, aprimmo il primo quaderno a quadretti ufficiale della nostra nuova vita scolastica. E la nostra manina vergine provò a governare ufficialmente una matita. Iniziammo mettendo in fila le lettere dell’alfabeto. Mettere in fila non è forse l’immagine più adatta, ma l’idea era quella. In ogni caso anche quello fu un momento critico: qualcuno riprese a piangere e il moto ondoso lacrimale, unito al solito mocio e al nero della matita, andò a creare strani effetti sulla pagina bianca. E’ la scuola, bellezza, pensai: bisogna avere pazienza.
Da domani scriviamo con la penna. Arrivai a casa con questa notizia straordinaria, con l’aria di chi si aspetta un plauso: figlio mio, sono fiero di te. Devo dire che il mio entusiasmo non venne ripagato come immaginavo ma tutto sommato non furono nemmeno delle merde e vissi bene quella giornata di passaggio. Solo che passavano le ore e nessuno accennava ad andare a comprarmi una penna: quelle di casa erano di casa, sponsorizzate da bibite o da mobilifici e tappezzieri vari. La maestra era stata chiara: una bic nera. Quando ormai avevo perso la speranza e già mi vedevo entrare in classe sconsolato, a testa bassa, trascinando la cartella, l’unico di 22 bambini a non avere la sua bic nera, arrivò mio padre e con gesto solenne mi consegnò la mia penna. Anzi, dalla tasca della giacca ne tirò fuori anche un’altra: due bic nere. Salvo. Da allora la bic è sempre stata la mia penna. Per ragioni di cuore, sicuramente, ma anche perché difficilmente ti tradisce, smettendo di funzionare nel momento meno opportuno. Vedi quando finisce l’inchiostro e poi, poi scrive anche se ti capita di sudare il foglio con la mano. Nel tempo sono passato dalla nera alla rossa, un po’ per ragioni politiche, un po’ perché mi piace vedere le parole di quel colore: è più fricchettone, meno austero, istituzionale. Se dovessi umanizzare la bic, quella nera me la immagino che si presenta in società alta, elegante, con il vestito lungo (nero, ovviamente). La bic blu mi dà l’idea del Monello di Charlot, camicia di fuori e berretto storto. La rossa… la rossa non voglio immaginarla, perché oggi mi farei del male.
Oggi raramente scrivo con la bic. Ma la penna rimane idealmente il mio strumento di lavoro. Quella con cui ho potuto trasformare in professione la mia passione più grande. Mi dispiace solo di una cosa. Non averlo detto a mio padre. Non avergli detto che forse quella bic ha segnato la mia vita e che un po’ di merito ce l’ha anche lui. Non foss’altro perché è andato a comprarla.