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martedì 26 febbraio 2019

L'unica storia


“Abbiamo quasi tutti un'unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo in altrettante storie. Ma ce n'è una sola che conta, una sola da raccontare, alla fine”. Questa è la storia d’amore di Paul, studente inglese di 19 anni. Quella con Susan, 48 anni, madre di famiglia, conosciuta un’estate al circolo del tennis. Con lei, per lei, Paul impara l’amore per sempre e il suo contrario più doloroso. Che non è l’odio, ma la consapevolezza che nemmeno un sentimento sconfinato è in grado di salvare dall’autodistruzione la donna della sua vita: di proteggerla dall’alcol, dalle bugie e dalle verità nascoste che giorno dopo giorno si sono accomodate nella loro cucina. Fino allo strazio dell’abbandono, perché per entrambi non c’è salvezza e per non affogare Paul è costretto a restituirla – restituirla, fa male solo dirlo - alla sua vecchia famiglia. Paul la sua unica storia la racconta a distanza di 50 anni, quando i protagonisti sono quasi tutti scomparsi. Lo fa all’inizio in prima persona, completamente immerso in una dimensione nuova, fantastica, inebriante, trasgressiva. Passa quindi ad alternare la prima alla seconda persona quasi volesse raccontare prima di tutto a sé stesso i fatti e leggerli con maggiore obiettività. Per arrivare poi definitivamente alla terza, dove l’io narratore scompare e quello che è successo viene presentato nella sua cruda realtà. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo, che come ne “Il senso di una fine”, l’elemento dominante del romanzo di Julian Barnes è il tempo, che trasforma le persone e i sentimenti, esalta e avvilisce le relazioni, alimenta e distrugge l’amore. E al concetto del tempo è legata la funzione della memoria, che permette di rivivere il passato con nostalgia ma con più equilibrato e corretto distacco. “L’unica storia” non è un romanzo di iniziazione sessuale: è un approfondito esame dell’animo umano e di come esso reagisce di fronte ad un sentimento totalizzante, che a volte, come in questo caso, si presenta nel suo aspetto meno convenzionale. (…) ciascuno ha la propria storia d’amore. Anche se è stata un fallimento, anche se si è ormai spenta, o non è mai riuscita a partire, o se fin dal principio era tutta e solo mentale, questo non la rende meno vera. E’ l’unica storia (…).

domenica 24 febbraio 2019

Mio padre è stato anche Beppe Viola


(…) Lì, nella chiesa dove avevo fatto la prima comunione e la cresima, dove ero andata a confessarmi per tutte le palle che raccontavo ai miei, o perché giocavo al dottore con Fabio e sapevo bene che era peccato, in quella chiesa lì, appunto, vidi per la prima volta la cassa da morto, bella lucida, davanti all’altare. E lì dentro c’era papà. Come fa a uscire da lì? Fino ad allora per me era morto Beppe Viola, quello della televisione, quello che fa ridere. Fu solo in quel momento che mi resi conto che a morire era stato il mio papà, e cominciai a stringere io la mano a Enzo, e la gola stringeva me, e finalmente avvertii la prima lacrima calda, lenta, densa e pesante di un dolore e di una solitudine che sarebbero diventati miei compagni per tutta la vita (…). Fu la mamma, dopo aver lanciato una rosa rossa nella fossa, sopra la bara, a rompere il silenzio. “Ciao, Peppi”, disse. L’ultimo loro momento di intimità. Quel “ciao Peppi” lo sento rimbombare dentro di me, un’eco che non si è ancora placata (…). Non disse addio perché nessuno di noi era pronto per un addio. Fu semplicemente un ciao, un ci vediamo, un a dopo. Quasi come una speranza. Un’illusione che questo non fosse altro che uno di quegli scherzi che ci faceva lui, che poi ricompare e tutti ridiamo come matti (…).

Marina Viola, la seconda della 4 figlie di Beppe, a oltre 30 anni dalla morte del padre ha cercato di ricostruirne l’identità attraverso i racconti degli amici più cari, quelli noti e quelli sconosciuti: del bar, dell’ippodromo, della strada. L’ha fatto perché quando muore tuo padre e tu sei ancora una bambina i ricordi con il tempo si affievoliscono e il rischio è che rimanga solo il mito. Ma anche per lasciarlo finalmente andare quel papà che è stato anche Beppe Viola. E’ un bel libro questo firmato da Marina: sull’uomo, sul padre, sul marito, con tutti i suoi pregi e i tanti difetti. A me manca Beppe Viola, manca tanto, come credo manchi a chi fa il giornalista. Immagino alle figlie. Non arriverà mai il momento di dirgli addio.