Translate

giovedì 23 giugno 2016

Antonio, che non voleva sapere


E’ giusto dire ad un malato: hai il cancro. O è meglio tacere, negare, mentire anche? Non credo ci sia una regola assoluta: dipende dalla storia e dall’emotività della persona in questione, dalla sua capacità di reggere e di reagire ad una battaglia durissima. A mio padre ho sempre taciuto la verità. Ho negato e mentito. Mi sono preso arbitrariamente la responsabilità di questa scelta, sopra di lui, di mia madre e di mia sorella. E anche oggi, a distanza di quasi 11 anni, non me ne pento. Sono assolutamente sicuro che papà sapesse. Tutti, in fondo, sanno. Se però non ne parlano apertamente o non affrontano mai l’argomento – e lui non l’ha mai fatto, se non all’inizio - probabilmente è perché  preferiscono non sapere, perché vogliono delegare ad altri il peso emotivo. L’ultima bugia gliel’ho raccontata il giorno che l’hanno trasferito dal centro ematologico, dove era ricoverato, all’hospice, dove avrebbe trascorso quelli che, purtroppo, sarebbero stati i suoi ultimi giorni. L’exitus mi era ben chiaro, me l’avevano detto i medici e io non ho mai creduto ai miracoli. Sai papà, qui hai finito il ciclo di terapie, adesso andiamo in una struttura riabilitativa e poi torni a casa. Ero sicuro che non mi avrebbe risposto, ma mi ero preparato a reggere il suo sguardo. L’intera giornata era poi trascorsa nel silenzio più assoluto. Nei giorni successivi, sarà stata la sospensione delle bombe di chemioterapia, sarà stata la tranquillità del posto, mio padre aveva riacquistato un po’ di forza e di colore. Tanto che aveva ripreso a parlare e sembrava quasi credere alla bugia del suo ritorno a casa. E anch’io avevo iniziato a farlo.

Oggi, 23 giugno, mio papà avrebbe compiuto 82 anni.

lunedì 6 giugno 2016

Questione di postura


In treno per Verona, come ogni mattina, conversavo con la mia amica libraia, quando è passato il controllore. Ha verificato i biglietti dei presenti, poi ha guardato noi e, sorridendo, ha detto: voi siete abbonati. Si, come fa a saperlo? Dalla postura. La famigliarità con i luoghi, qualsiasi essi siano, la si vede da come uno sta, si muove, occupa lo spazio, ne diventa in un certo senso padrone, trasmettendo questa sicurezza alle persone che lo circondano. Accade, ed è naturale, nella propria abitazione, in un paese o in una città che si conoscono, ma anche in auto, o in treno, appunto. Dopo dieci anni di pendolarismo quotidiano su rotaia posso dire di aver affinato la capacità di osservazione e di catalogazione dei clienti trenitalia da come si muovono. E dalla postura. Chi ha consuetudine con il mezzo lo si vede già sul marciapiede: guarda il monitor e soprattutto sta attento gli annunci. Che da qualche anno non si limitano solo a informare dei ritardi e del binario di arrivo di un treno, ma indicano anche la posizione delle carrozze: dalla 7 alla 9 testa treno, dalla 4 alla 6 centro treno, dalla 1 alla 3 coda treno. Questo consente al passeggero di orientarsi e di attendere più o meno in prossimità della carrozza di pertinenza, che si conosce perché il suo numero, così come quello del posto a sedere, sono scritti sul biglietto. Le stazioni più evolute hanno addirittura monitor che segnalano dove le carrozze si fermeranno. Il buon senso suggerirebbe che se uno non conosce le regole, o le conosce poco, dovrebbe a maggior ragione stare attento a tutte le indicazioni, gli stimoli, gli input che gli vengono dati. Non è così. Succede invece che una persona, all'apparenza di intelligenza normale, in stazione, e poi sul treno, si trasforma in un mentecatto. Quando arriva al binario si posiziona a bibone, indifferente a tutto quello che gli (o le: più gli che le a dir la verità) accade accanto. E soprattutto ha una capacità imbarazzante di posizionare se stesso e le valigie dove sicuramente romperanno i coglioni. Ora, ci sono regole non scritte anche sui binari, come nelle corsie del supermercato, dove è facile distinguere gli habitué della spesa e chi al contrario affronta per la prima volta i gironi danteschi della grande distribuzione: solitamente sono quelli che girano contromano con i carrelli, si fermano all’improvviso cambiando direzione, lasciano il suddetto carrello in mezzo alle corsie mentre si aggirano in stato confusionale alla ricerca del viakal, per dire, questuando a caso un aiuto mentre contemporaneamente cercano di chiamare la moglie al telefono, con l’unico risultato di farsi cazziare, a volte in viva voce. Quando sono in branco i viaggiatori poco viaggianti raggiungono livelli imbarazzanti. Combattono l'ansia raccontando puttanate, aneddoti da oratorio, a voce alta, immancabilmente in sincrono quasi perfetto con gli annunci. E siccome tu sai già come andrà a finire ti vien voglia di urlare: ma chiudi quella bocca di merda e ascolta. Quando poi arriva il treno, leggi loro in faccia il panico. La carrozza 7? chiede il capobranco a chi transita in quel momento nel suo campo visivo, fosse anche un cinese mandarino o la signora con cane (e viceversa). Lo so ma non te lo dico, coglione: la prossima volta stai attento invece di fare il blagor. L’apertura delle porte è l’accesso ad un'altra dimensione. Regola vuole, di fisica più che di bon ton, che prima di salire si deve permettere agli altri passeggeri di scendere. Dopo essere stato bloccato con già il piede sul predellino, il nostro eroe difende la posizione con il corpo e invita il seguito a posizionarsi di conseguenza, valigie comprese. Che si fa passare una volta guadagnato il disbrigo tra le carrozze, impedendo la salita agli altri passeggeri. E 10 volte su 10 quella battezzata non è nemmeno la sua carrozza. Qui inizia la fase 2, la ricerca del posto. (To be continued)