Translate

mercoledì 12 agosto 2015

Non connesso

In teoria tra genio e coglione c’è una pletora di possibili variabili di giudizio. Posto che esistano i geni. In una multinazionale no, il confine è molto labile, anche se le variabili rimangono alte, forse solo più indefinibili. L’ho già raccontato ma mi sembra calzante. All’esame da giornalista professionista al candidato Giuseppe Viola, detto Beppe (quello sì un genio), Enzo Biagi, uno dei commissari, chiese: secondo lei, nel variegato mondo della democrazia cristiana, Fanfani è da collocarsi nell’area di destra o di sinistra? Giuseppe Viola, detto Beppe, rispose: dipende dai giorni. Ecco, anche nel nostro caso, dipende dai giorni. Non è una questione di cordate, come si è propensi a credere. perché i cambi di poltrona in quel caso stanno un po’ nelle cose. Chi ha la responsabilità della gestione industriale e del futuro delle persone che lavorano alle sue dipendenze, ha il dovere, prima di tutto, di scegliersi il gruppo di comando che ritiene più competente e di cui si fida. Questo non necessariamente comporta la svalutazione professionale e umana di chi occupava in precedenza le stesse poltrone. Purtroppo, spesso, non è così. E Roberto Banzato, manager di una multinazionale, in Non connesso, il suo bell’esordio letterario, lo descrive fin troppo bene. Certo lo porta all’esasperazione, perché la vicenda che narra è un thriller e il plotter presuppone la presenza di morti ammazzati: in questo caso 4, dei quali almeno 1, l’ultimo, è ufficialmente il cattivo, Anche se in un consesso dove si distingue solo il bianco e il nero, il primo cadavere faccio fatica a collocarlo tra le vittime. Al di là della storia gialla, a mio giudizio ben costruita – tre cadaveri in azienda, prima il direttore delle risorse umane e successivamente uno dei direttori commerciali e un ex manager messo ai margini per le variabili di cui sopra, nascondono un’intricata vicenda di soldi e di potere - sono molto curati i raccordi, le storie d’amore del protagonista, le sue riflessioni sul mondo e sulla vita, soprattutto sull’onestà intellettuale, che dovrebbe essere l’unica linea guida e motore del tutto. Sicuramente i colleghi che leggeranno il libro cercheranno di dare un nome e un volto reale ai personaggi che Banzato descrive, perché alcune dinamiche, gli ambienti, l’utilizzo del linguaggio gergale, fanno parte di un quotidiano ben conosciuto. Nelle vuote sere d’inverno, o nelle pause caffè alla macchinetta, potrebbe diventare un divertente passatempo. Quello che mi sembra importante sottolineare è invece un esordio non banale, con una scrittura piacevole che forse necessita ancora di purgarsi da qualche ingenuità, ma che sa passare dal registro letterario a quello di genere, dosando al meglio gli ingredienti del racconto, suspense compresa, senza eccedere o strafare. Il finale, non scontato, ne è un’ulteriore prova.

giovedì 6 agosto 2015

Camille

Pierre Lemaitre chiude la trilogia dedicando il volume al suo protagonista, il comandante Camille Verhoeven. Dopo la scomparsa violenta della moglie Irene, che non è riuscito a salvare dalla follia del loro carnefice, il comandante si trova a fare i conti con la sua vita, con le regole della professione, con la perdita di altri affetti, inghiottiti dalle conseguenze di lacerazioni e di ferite troppo profonde da rimarginare. Eppure a Camille la vita sembrava aver riservato una nuova occasione: una giovane donna, Anne, bella, forse troppo, comparsa dal nulla: un nulla comprensibilmente e umanamente ignorato dall’uomo Camille, ma che avrebbe dovuto far riflettere il poliziotto. Una donna con la quale ricominciare? condividere? o semplicemente grazie alla quale non pensare. E quando la realtà gli bussa alla porta, Camille deve tornare a pensare da poliziotto, per salvare il salvabile. E per farlo chiede aiuto nientemeno che all’assassino di sua moglie, che in carcere ha intessuto una fitta trama di conoscenze e di scambi di favori. E anche qui, alla fine, come già in Alex, poco importa se la giustizia non coincide con la verità.

Anne Forestier sta entrando in una gioielleria in pieno centro a Parigi, quando improvvisamente fanno irruzione dei rapinatori che la picchiano selvaggiamente e la sfigurano. La donna riesce miracolosamente a sfuggire alla follia assassina e viene trasportata d'urgenza in ospedale. È l'unica testimone e ha visto in faccia il suo aggressore. Anne Forestier non è una donna qualunque: è l'amante di Camille Verhoeven. Sconvolto, il commissario si getta anima e corpo in questa nuova indagine che è per lui a tutti gli effetti una questione personale. La caccia al colpevole si fa sempre più drammatica soprattutto perché Anne è in pericolo: il rapinatore, uomo di rara ferocia, è deciso a trovarla e a ucciderla per non essere arrestato. Verhoeven capisce subito di chi si tratta, conosce bene le sue abitudini e le sue malefatte, ma di Anne ignora molte cose... Ciò che segue è un faccia a faccia drammatico tra i due, e Anne è la posta in gioco. Toccato profondamente nel suo intimo, Verhoeven diventa un uomo violento e implacabile, fino a sacrificare tutti i suoi principi. Ma la vera domanda, alla fine, è: in questa storia chi è in realtà il cacciatore e chi la preda?

mercoledì 5 agosto 2015

Il Cedegolo

Il Cedegolo era il nome con il quale gli autisti e i controllori, che all’epoca si chiamavano ancora bigliettai, identificavano il pullman che da Cedegolo, paese della media Vallecamonica, scendeva a Lovere, sul lago d’Iseo, raccogliendo gli studenti iscritti negli istituti superiori del capoluogo lacustre. Il Cedegolo passava dal mio di paese alle 7 e 20 e ripartiva dal porto di Lovere alle 13 e 30, mezzora dopo la fine delle lezioni. La prima cosa che ho imparato è che sul Cedegolo c’erano delle gerarchie. I primi posti alle spalle del conducente erano riservati a due stagionati studenti dell’Itis, gli unici peraltro a potergli parlare. In verità le loro erano discussioni, spesso accese, rigorosamente in dialetto. L’argomento era ininfluente, un po’ come al bar. Per tornare ai riservati, la bella del pullman, una biondina dell’artistico, aveva un sua collocazione nelle prime file. Gli altri random. Dal paese prima del mio, esauriti i posti a sedere, tutti in piedi per i successivi 20 chilometri. Ogni primo del mese faceva il viaggio con noi anche il signor Trotti, storico bigliettaio della linea, per distribuire gli abbonamenti. Se qualcuno dimenticava i soldi doveva subire, urbi et orbi, la ramanzina paternalistica del Trotti, che dava il la alle più varie reazioni: c’era chi rimaneva totalmente indifferente, chi si sarebbe scavato un buco per la vergogna, quorum ego, chi provava a ribattere mettendo sul tavolo della discussione argomenti come il prezzo eccessivo a fronte di un servizio non proprio impeccabile. In realtà i polemisti lo facevano solo per spirito goliardico, sapendo di scatenare l’aziendalismo del Trotti, che immancabilmente ci cascava. Discussioni che altrettanto immancabilmente finivano con un Trotti accalorato che sentenziava sul ‘buontempo’ che avevamo tutti noi studenti, mentre lui alla nostra età era già al lavoro e bla bla bla. Era un modo divertente per passare il tempo e non c’era nessuno sul Cedegolo che non gli volesse bene. Il Trotti alle 13.30 si posizionava invece all’entrata della porta posteriore del pullman a controllare gli abbonamenti e a ripetere le stesse scene se qualcuno se l’era dimenticato a casa. Anche in questo caso c’era chi fingeva apposta di non avere il tesserino o di non trovarlo, per dare la stura alle gag. La variante delle 13.30 era che il Trotti salisse e si mettesse a discutere con i due dei primi posti, compagni di classe di suo figlio, sull’opportunità degli scioperi, delle assemblee e dei consigli di classe. Qui i toni salivano di molto finché Trotti non decideva di dare a tutti dei lasarù. Non credo serva la traduzione. Sul Cedegolo sono nati e finiti degli amori, consolidate amicizie e man mano che passavano gli anni si scalava automaticamente la gerarchia del pullman. Ho bei ricordi del Cedegolo e ogni tanto rivedo con piacere alcune delle persone con cui ho condiviso 5 anni di viaggi. magari sul giornale, perché sono diventate amministratori locali di qualche comune, o perché è in programma una loro personale. Tutto questo per dire che oggi mi lasciano perplesso e amareggiato le scene che mi capita di vedere sui bus cittadini, la maleducazione gratuita di ragazzini trovati senza biglietto e la pazienza di controllori, che per età potrebbero essere i loro nonni, nel subire le contumelie e le sfide di questi teppisti in erba. Noi con Trotti giocavamo, però sapevamo dov’era il limite. E non perché lui rappresentava l’autorità. Perché conoscevamo il rispetto.



martedì 4 agosto 2015

Alex

Alex, secondo libro della trilogia di Pierre Lemaitre (Irene e Camille nell’ordine gli altri due titoli) è quello che mi ha convinto di più. Per la storia, il ritmo della scrittura, i continui cambi di ruolo della protagonista, che passa da vittima a carnefice e di nuovo a vittima, spiazzando il lettore e cambiandone i sentimenti: da un’affezione e una solidarietà umana per l’incubo nel quale viene inghiottita all’inizio del romanzo, al distacco e al disagio che prende nello scoprire che quella condizione disumana è la vendetta orchestrata da un padre per l’uccisione premeditata e aberrante del figlio. Ma Pierre Lemaitre a questo punto rovescia di nuovo la prospettiva, dando un senso lontano e famigliare al male di Alex, e in un certo qual modo una giustificazione anche al lettore per l’imbarazzo di provare comunque attrazione verso questa donna. La cui lucida follia viene portata alle estreme conseguenze, solo però dopo essere riuscita ad architettare la sua vendetta: una vendetta che si ammanta di giustizia. Perlomeno è quello che Lameitre fa dire alla fine al comandante Camille, che più o meno suona così: non è necessario scoprire la verità, l'importante è fare giustizia. Nel caso specifico sono assolutamente d’accordo, la realtà è un po’ più complicata, anche se a volte…

Molto in breve, per non togliere la bellezza della lettura. Mentre cammina per le strade di Parigi, Alex, una giovane donna di trent'anni, viene seguita da uno sconosciuto, che la aggredisce. la picchia selvaggiamente, la carica su un furgone facendo perdere le sue tracce. Portata in un magazzino abbandonato, la ragazza viene rinchiusa in una gabbia di legno appesa a due metri da terra. Per lei non c'è via d'uscita: non sa dove si trova, né cosa voglia quell'uomo che non le rivolge mai la parola. I giorni passano tra mille sofferenze. Piegata dentro quella gabbia che non le permette il minimo movimento, in quel luogo umido e buio, Alex sente che il suo destino è segnato e che nessuno verrà a soccorrerla. Ha una sola certezza: il suo rapitore vuole vederla morire. Ma chi è il sequestratore? Perché ha architettato tutto questo? E, soprattutto, chi è davvero Alex? Quando l'aguzzino viene finalmente identificato e la polizia fa irruzione nel luogo del sequestro, la gabbia è vuota. E la ragazza si è volatilizzata...

sabato 1 agosto 2015

Svizzeri

A parte Roger Federer, nativo di Basilea, che il Maestro Gianni Clerici, al quale mi inchino, ritiene il più grande tennista di tutti i tempi, non mi sovviene alcuno svizzero dotato di qualche genio. Per la verità, Federer, al padre cantonale somma una madre sudafricana e questo probabilmente un po’ di differenza la fa. Non è razzismo il mio, è una constatazione, pronto a chiedere venia e cambiare idea di fronte a prove contrarie. Ieri, venerdì di pre ferie, mi sono concesso un’uscita straordinaria dal lavoro, in tempo per salire sul Venezia Ginevra delle 17.32. Il treno svizzero, lo chiamo, in dieci anni che lavoro a Verona l’avrò preso 5, forse 6 volte. A sufficienza però per ammirarne alcune caratteristiche estetiche e strutturali. Un design degno del miglior Giugiaro, una pulizia quasi imbarazzante non solo all’interno, che è da stereotipo, ma anche all’esterno, minchia, che quasi ti viene da toglierti le scarpe prima di salire e di chiedere scusa per la camicia stazzonata. Devo dire che la mia non è ammirazione: in realtà un po’ mi terrorizzano queste situazioni da laboratorio. In ogni caso è un viaggio confortevole anche se non ho mai avuto il piacere di provare i posti a sedere, tutti rigorosamente prenotati, ma lo spazio di disbrigo tra una carrozza e l’altra è sufficientemente ampio per potersi appoggiare e leggere: il treno svizzero non sbanda e non fa rumore. Pauraaa, direbbe il mister Conte nell'imitazione di Crozza. Ieri, dicevo, finalmente, aggiungo, lo svizzero mi è caduto. Ebbene sì, il treno perfetto ha una falla. Nei bagni di questi convogli straordinari è montato un sistema d’allarme in caso d’incendio, che molto più banalmente parte se qualche furbastro cerca di violare il divieto di fumo. E fin qui nulla che non rientri nelle perversioni svizzere. Cosa succede nella pratica e cosa è successo ieri. Il sistema che accerta la presenza di fumo aziona una sirena e contemporaneamente scarica sul reo (se non è veloce ad uscire) una quantità smisurata di acqua, che non avendo uno sfogo interno al minuscolo locale si espande nella carrozza attigua. Non solo, dopo qualche minuto parte anche una nebulizzazione profumata che invade la stessa carrozza costringendo gli occupanti a migrare altrove, bagagli compresi. E immaginatevi il casino in un treno già esaurito. Mentre assistevo alla scena mi figuravo l’inventore di questo congegno bullarsi con i vertici delle ferrovie svizzere e la fierezza di questi ultimi nell’installarlo sui loro treni. In particolare su quelli che viaggiano in Italia. Tutto molto bello? No, l’inventore rossocrociato non ha previsto un dispositivo che blocca il congegno una volta partito. Metti che sia un falso allarme. Finché tutta l’acqua non è fuoriuscita dai suoi alloggiamenti, e a Brescia continuava a scendere (il tutto è inizito che eravamo all’uscita di Verona Porta Nuova) non si può fare nulla. Geniale. Ora, il signore anziano che ha dato la stura a tutto ciò ha avuto la sfiga di non essere visto solo da me, che me ne sarei stato zitto, ma anche dalla bigliettaia, che in modo tanto gentile quanto fermo si è fatta consegnare la carta d'identità. Quello che mi ha fatto meditare sono state le reazioni delle persone. Fatta salva la colpa (grave? non so...) del reo, è andata in scena tutta la commedia dell’arte. Spettatori paganti i giapponesi, che non hanno capito un cazzo di quello che stava succedendo ma ridevano giapponesicamente contenti. L’ipotetico colpevole, impassibile di fianco a me, sconosciuto dagli altri che non avevano assistito alle fasi iniziali della tragedia, si è sentito insultare, augurare un cancro ai polmoni e amenità varie, neanche fosse Goebbels. Un tizio, che si era coperto il volto con un fazzoletto ha spiegato che lui era alla scuola Diaz durante il G8 di Genova e che quell'esperienza gli era servita da lezione con tutti quei lacrimogeni che venivano lanciati. Qui però c’era acqua nebulizzata, ma fa nulla. Vai a sapere cosa passa nella testa delle persone. Che forti del branco e della vittima sacrificale si dicevano pronti alle peggiori fustigazioni, se solo lo avessero avuto tra le mani, ecc. ecc. Salvo poi, quando il capotreno è passato invitando il reo, sempre impassibile di fianco a me, a non allontanarsi, zittirsi tutti e far finta di nulla, telefonare, guardare altrove. Io non fumo. Devo ammettere che mi stanno anche un po’ sui coglioni quelli che tra una stazione e l’altra scendono a farsi tre tiri di sigaretta. Non voglio scomodare il Pasolini di Valle Giulia, ma io ieri mi sono sentito solidale con il vecchio fumatore. E ho goduto per aver colto in fallo gli svizzeri.