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mercoledì 14 novembre 2007

Calcio e anti Stato

Non c’è giustificazione per la morte violenta di un ragazzo. Nemmeno l’errore o la tragica fatalità può e potrà mai alleviare il dolore di una famiglia, degli amici. Ma quello che è andato in scena domenica nelle ore successive al fatto di sangue all’autogrill di Arezzo è pura follia. La sospensione di una partita di calcio per volontà di una frangia della tifoseria o, ancora peggio, l’attacco alle caserme della polizia e le devastazioni a Roma, rappresentano un oltre pericoloso a cui non si può rispondere solo con il blocco dei campionati professionistici per una domenica, il lutto al braccio, il minuto di silenzio o anche con i divieti alle tifoserie organizzate di andare in trasferta e la chiusura delle curve. Ha ragione Michele Serra: il calcio è la quarta regione italiana sotto il controllo dell’anti Stato. Una specie di Locride o di Scampia diffusa, spalmata per ogni angolo del Paese, nel quale le regole e le convenzioni normalmente riconosciute e applicabili altrove non hanno più luogo. Se non si prende atto di questo, il problema si ripresenterà di nuovo. Gli ultrà in Italia non sono più di 20 mila ma possono imporre qualsiasi cosa alle società: il cambio dell’allenatore, il destino di un giocatore, decidere se una partita si può e si deve disputare o meno. Una situazione per troppo tempo tollerata tanto da diventare quasi normale. Come normali sono ormai le città blindate, le stazioni ferroviarie presidiate da celerini in assetto di guerra, gli autobus con le grate che scortano i tifosi ospiti allo stadio. Ma è calcio questo? Che senso ha? Sono passati quasi 30 anni da quando Vincenzo Paparelli è stato ucciso da un razzo sugli spalti dell’Olimpico. Possibile che nessuno sia stato in grado di fermare la degenerazione del calcio? Perchè? Per quale interesse più grande si è pronti a sacrificare una vita? Cosa vogliono questi ultras? Il loro dato distintivo non è tanto il tifo a favore ma l’odio contro l’avversario. E già questo la dice lunga sulla logica che li muove. Una guerra comunque tutta interna al loro mondo, perché insieme hanno un nemico comune da combattere: la polizia. Dalla morte dell’ispettore Filippo Raciti allo stadio di Catania nel febbraio scorso e dai successivi inasprimenti delle normative in materia di ordine pubblico si sapeva che la rabbia covava tra le frange estreme di questo anti Stato. L’uccisione tragica di un giovane tifoso, seppur a centinaia di chilometri dallo stadio dove era diretto, è stata immediatamente adottata a giustificazione di una rappresaglia indegna e insensata. Certo la scarsa chiarezza delle autorità nelle prime ore dell’accaduto, la versione confusa e francamente improbabile dei fatti accreditata dal Questore di Arezzo, non hanno fatto che alimentare la violenza e fornire alibi al branco. Se uno spara in aria e colpisce un uomo, che notoriamente non vola, facilmente ha mirato più in basso. Si era già visto al G8 di Genova con l’omicidio Giuliani che una ricostruzione del genere non paga. Io non so – non ho nemmeno la competenza e gli strumenti per affermarlo - se sia stato giusto che domenica scorsa si sia giocato. Credo che sospendere i campionati a poche ore dal fischio d’inizio delle partite, con i tifosi ormai in viaggio, sarebbe stato forse peggio, perché avrebbe impedito qualsiasi controllo. Di una cosa però sono sicuro: se la polizia deve presidiare un evento sportivo per evitare che gli spettatori si scannino tra di loro o per difendersi a loro volta, se ogni domenica è a rischio, se le forze dell'ordine devono intervenire per sedare scontri addirittura durante Legnano - Pro Patria, è arrivato il momento di fermarsi, di chiudere bottega. Almeno per un po’.

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