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martedì 11 settembre 2007

Il figlio del vento

Una domenica di nulla si trasforma improvvisamente in un lampo di luce. Succede che al meeting di atletica di Rieti è il momento della semifinale dei 100 metri piani. In pista c’è il giamaicano Asafa Powell, uscito ridimensionato dagli ultimi mondiali di Osaka, se così si può dire di uno che corre costantemente la distanza sotto i 10 secondi. In ogni caso Asafa rimane il primatista del mondo con 9’’e 77, stabilito due anni fa ad Atene, eguagliato poi per ben due volte, ed è uno spettacolo anche solo vederlo. Il nuovo figlio del vento, che non ha ancora 25 anni, è un gigante di 1 metro e 90 per 88 chili. Che vincerà è quasi scontato, ma con Powell non si può mai dire. Il tempo di reazione all’uscita dai blocchi è quasi disumano. Ai 50 metri, per usare un termine rubato al canotaggio di Galeazzi, c’è luce tra lui e gli altri. Agli 80 ti accorgi che fiuta l’aria: non ha percezione laterale, né a destra né a sinistra, e quasi si rialza, non spinge più. E' evidente che cerca di risparmiare energie per la finale. Ma a te che sei lì davanti alla tv e vedi il cronometro scorrere in basso a destra ti viene naturale urlare nel silenzio della casa: nooooooooo Asafa, non smettereeeeeeeeeee. Perché è così, nel pieno del pathos adrenalinico passi al tu confidenziale come se lo conoscessi da anni. Del resto è difficile urlare: signor Asafa non rallenti la sua corsa proprio ora. Non ha lo stesso effetto. Nel frattempo fast guy ha già oltrepassato la virtuale linea bianca del traguardo e il cronometro si è fermato a 9’’74. Record del mondo. Fantastico. Semplicemente fantastico. Se avesse continuato la spinta avrebbe probabilmente fatto 9’’67, 9’’68. Sarà per la prossima volta. Intanto, replay. E poi ancora e ancora, per fissare nella retina ogni passo di quella corsa stratosferica. L’unica frase di senso compiuto che mi riesce di dire è: mamma mia. Del resto è possibile tradurre le emozioni? Si è possibile. Lo fa Emanuela Audisio, giornalista di Repubblica, per la quale confesso un debole professionale.
“E’ Asafa Power. E i suoi sono i cento metri di rivincita più morbidi e più rapidi del mondo. Quasi zucchero filato. Una carezza di velocità, un balzo in avanti, uno sbadiglio che scuote la foresta. Asafa a Rieti non aggredisce la pista, ci balla sopra il reggae, corpo e ritmica, è un fast guy che si sporge sul traguardo e lo rapisce. Lui è fatto così: ti guarda con i suoi occhioni dolci, da tramonto sul mare, e intanto fila via a scolorire il tempo (…) La sua corsa record è senza strappi, senza rumore, una progressione micidiale (…) Un ghepardo leggero: alza la testa, si allunga con morbidezza e dietro si lascia il vuoto. Anche se è un colosso di 1,90 non scrolla i cento metri con violenza, leggero, ci passa sopra. Falcate decise, sentimento sicuro, appoggi rapidi, da ballerino (…) Asafa per dare il meglio ha bisogno della musica giusta. Cerca l’armonia, non il rumore della battaglia. Però intanto scompiglia il mondo, gli fa venire i brividi. E lo porta più in là”.
Ecco, esattamente così.

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