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giovedì 13 gennaio 2011

Non gioco più, me ne vado

Il presidente Obama, prima di dare il via libera all’operazione Chrysler, ha voluto vedere e verificare il piano industriale Fiat. Lo stesso ha fatto la cancelliera Merkel, che però, evidentemente, non l’ha ritenuto sufficiente per appoggiare l’intesa con Opel. Due esempi di come la politica può e deve intervenire nelle grandi questione economiche del proprio Paese. E il governo italiano? Non solo non ha chiesto al dott. Marchionne nulla di tutto ciò, non solo non ha risposto e non risponde ai ricatti di questo signore che, come gli adolescenti, minaccia di portar via il pallone se non si fa come vuole lui, mettendo sul tavolo e ricordandogli anche solo i milioni di ore di cassa integrazione e gli incentivi pagati all’industria torinese nel corso dei decenni. No, fa di più, ci mette il carico e per bocca del suo primo ministro, dell'uomo cioè che dovrebbe tutelare l’interesse economico nazionale e il lavoro dei cittadini, dice che sì Marchionne ha ragione e che fa bene ad andare via se qualcuno si rifiuta di giocare con le sue regole. Sottinteso: lo farei anch’io. Peccato che lui, il premier, non lo minacci neppure.



Quando il governo offende gli operai

Fonte: GAD LERNER - la Repubblica
13 Gennaio 2011

Un presidente del Consiglio che trova naturale legittimare il proposito di Marchionne – cioè il dirottamento all´estero degli investimenti produttivi Fiat in caso di bocciatura dell´accordo di Mirafiori - si assume una responsabilità che oltrepassa il mero infortunio verbale.
Conferma che l´economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale. Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com´era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all´operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l´intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l´aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all´azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l´intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all´industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premier-tycoon si conferma geneticamente estraneo.
Di fronte all´enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell´Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient´altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l´associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati.
Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a "brindare", oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.
Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un´effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano "né con Marchionne, né con la Fiom" (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l´illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l´azionariato dei dipendenti all´americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all´estero degli investimenti.
Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell´Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi.
Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l´establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?
Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell´impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l´"osceno" trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l´operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d´industria.
Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all´altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum?
I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch´essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo. Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?
I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un´azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.

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