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mercoledì 22 agosto 2018

A bocce ferme


“A bocce ferme”, vado a memoria, è il settimo romanzo che Marco Malvadi dedica ai vecchietti del Bar Lume, i 4 simpatici venerandi, altrimenti detti “la banda della Ma
gliadilana” che bivaccano nel locale del nipote del più anziano del gruppo, a Pineta, lungomare di Pisa. Da lì, tra battute, lazzi e racconti di vita, si trovano a dirimere i casi di cronaca nera che accadono nella cittadina, aiutando (spesso interferendo) nelle indagini il vicequestore Alice Martelli, da un paio di romanzi, vado sempre a memoria, fidanzata del barrista (la doppia r non è n errore) Massimo Viviani, laureato in matematica ma da sempre titolare dell’esercizio in questione. Il cold case d’abbrivio di “A bocce ferme” arriva dal passato, dal ’68, e riguarda l’omicidio del titolare della Farnesis, l’industria farmaceutica con sede a Pineta e del quale era stato all’epoca accusato e arrestato un sindacalista della fabbrica. Il vero colpevole, reo confesso, viene scoperto a 50 anni di distanza: il figlio adottivo della vittima si autodenuncia nel testamento e l’imbroglio nella linea di successione impone la riapertura delle indagini. A ingarbugliare la matassa è un ulteriore omicidio, legato al precedente. Ad essere trovato morto in casa sua è un ex dipendente della farmaceutica, che proprio quel giorno aveva convocato, ad orari diversi, i giornalisti di alcune testate locali e nazionali per raccontare la verità sulla morte dell’imprenditore. I sospetti in questo caso ricadono immediatamente sull’ultimo titolare della Farnesis, che ovviamente non ha un alibi e tutto l’interesse a non far scoprire la verità. Ma sarà proprio così? Ovviamente no. E stavolta la memoria storica dei vecchietti e l’acume logico matematico del barrista aiuteranno Alice Martelli a risolvere il caso. I vecchietti del Bar Lume è la lettura estiva per antonomasia. Marco Malvaldi è bravo, ha rinnovato un genere, quello del giallo comico in costume. Una formula felice di leggerezza, un sottile pennello che dipinge un’Italia esclusa dalla ribalta mediatica ma che del Paese vero fa capire molte cose. Chi fosse attratto dalla serie, l’esordio dei vecchietti avviene con “La briscola in cinque”, che io comprai, confesso, attirato dal titolo, nostalgico ricordo della (semi) nullafacenza del periodo universitario, condivisa con altri 4 debosciati. Anzi, per la verità loro erano debosciati. Io giocavo anche a tennis

martedì 21 agosto 2018

Sbirre

Anna Santarossa è un vicequestore, Alba Doria un commissario, Sara Morozzi ha lavorato per i Servizi, ora è in pensione. Sono loro le Sbirre, nell’ordine, di Massimo Carlotto, Massimo De Cataldo e Maurizio De Giovanni. Tre racconti di tre maestri del noir italiano per inaugurare (forse) una new wave della letteratura nera, dove le donne in questione non sono paladine della giustizia, eroine che combattono il crimine e difendono la legge, anzi. Anna ha una vita e una carriera apparentemente irreprensibili. In realtà vende informazioni alla mafia bulgara e una volta scoperta e messa con le spalle al muro, usata e ricattata sia dai cattivi che dai (presunti) buoni, per salvarsi deve difendersi da entrambi e inventarsi una terza vita, dove non esistono valori ne’ regole. Alba si trova ad indagare nel magma della rete, tra le pieghe più recondite del dark web per far luce su alcuni omicidi suicidi, presumibilmente guidati e ordinati da un Maestro dell’odio estremo. E più l’indagine va avanti e più il fascino del male e del potere - assoluto, feroce e mascherato - la attrae fino a meditare di percorrerne la stessa strada per vendicarsi di soprusi subiti. Sara torna operativa in un’indagine solitaria e non autorizzata anche lei per vendicare la morte del figlio, deceduto ufficialmente in un tragico incidente stradale, in realtà ucciso volontariamente dall’uomo che l’ha investito. Figlio che Sara non vedeva da oltre 20 anni, da quando se n’era andata di casa con l’amore della vita e che ritrova ora nei racconti, dapprima rancorosi e poi via via solidali, della giovane compagna in attesa del loro primo figlio.
Tre figure di donne estreme: fragili e passionali, che spostano un po’ più in là il concetto di giustizia, riscrivendolo e interpretandolo a modo loro: sedotte dal delitto, soggiogate dalla vendetta, che pur nella drammaticità delle scelte non suscitano disprezzo, anche perché alla fine tutte pagheranno un prezzo altissimo. Personalmente non amo i racconti brevi, ma c’è da dire che in ognuno ci sono i prodromi di una possibile evoluzione dei personaggi in qualcosa di più strutturato. In ogni caso chi ama il genere e apprezza Carlotto, De Cataldo e De Giovanni non rimane deluso

lunedì 20 agosto 2018

Il metodo Catalanotti

Andrea Camilleri l’ho scoperto per caso nel ‘97 leggendo sul Manifesto un trafiletto che recensiva “La voce del violino”, primo libro della serie dedicata al commissario Salvo Montalbano. Da allora il filone noir dello scrittore siciliano è diventato un appuntamento atteso e condiviso con molti amici. Ne “Il metodo Catalanotti" assistiamo a una svolta importante nell’uomo Montalbano. Partirei proprio da qui perché è un cambio che apre nuovi scenari e sarà sicuramente motivo di dibattito.
In questi anni, sulla spinta anche della fiction televisiva, il commissario di Vigata è diventato un fenomeno pubblico. Ha alimentato discussioni, confronti, è stato oggetto di tesi di laurea. Ha fatto nascere fazioni. Personalmente sono idealmente iscritto a quella che sostiene - senza se e senza ma - Livia Burlando, la donna della vita, fidanzata a tempo, lontana e distante dal vero mondo di Montalbano. Ora, mi rendo conto che possono sembrare questioni di lana caprina, ma forse è proprio questo il grande merito di Camilleri: aver costruito una figura letteraria che ha preso vita propria, con cui interloquire, condividere, dissentire, arrabbiarsi, se capita. In questo libro, dicevo, il Montalbano uomo prende una china che non gli fa per niente onore. E non si tratta di una sbandata o di una scappatella, alle quali ci aveva già abituato e sulle quali, per un sostenitore di Livia come il sottoscritto, ci sarebbe comunque da ridire. No, stavolta la faccenda è più seria, perché Montalbano si innamora perdutamente di una ragazza di 30 anni più giovane. E di fronte ad una passione travolgente cosa fa? Si comporta nel modo più meschino e banale possibile. Per questo mi indigno, caro commissario. In questo mondo senza qualità eri ormai una delle poche figure di riferimento, insieme a Tex Willer e Zagor Tenay, lo spirto con la scure: non è accettabile una caduta di stile da uomo qualunque. Scusate lo sfogo. Detto ciò, la vicenda è al solito ben costruita e il finale non è per nulla scontato. La vittima, uccisa in casa con una coltellata al cuore, è il Carmelo Catalanotti del titolo, personaggio a sua volta complesso e intrigante – usuraio e regista teatrale – sperimentatore in quest’ultima veste di un metodo di recitazione traumatico, che obbliga gli attori a vivere in prima persona quello che poi accadrà sul palcoscenico: non quindi una mimesi dell’azione, ma un’identificazione delle passioni. Da questa complessità e dalle ombre che avvolgono attori e debitori, il commissario dovrà partire per trovare il colpevole, sempre se di colpevole alla fine si possa parlare. Come sempre, nelle storie di Montalbano troviamo riferimenti all’attualità sociale e politica: ma questo è principalmente un romanzo sulle passioni: quella per il teatro, di cui Camilleri è un maestro, e quella amorosa. Con i distinguo personali su quest’ultima

sabato 16 giugno 2018

Come la mappa del cielo

“Come la mappa del cielo”, secondo impegno letterario di Lucio Dall’Angelo, dopo “il libro di Baruc” del lontano ‘94, vincitore del prestigioso premio Alberto Tedeschi come miglior giallo inedito e ormai introvabile: rimpiango ancora quel giorno che mi è venuta la malaugurata idea di parlarne ad un amico e di prestarglielo, per non rivederlo mai più.
“Come la mappa del cielo” è un libro bello bello, che detto così sembra un... commento pre adolescenziale – dai, alla tua età puoi fare di meglio – ma è quella bellezza che non sapresti dire diversamente, che ti cattura dall’incipit, ti prende per mano e ti guida attraverso tutti i piani del racconto – e sono tanti – per portarti, con armonia, che della bellezza è parente stretta, a colorare tutte le immagini, o meglio, le mappe, che l’autore ha disegnato sotto la volta del cielo. Rebecca e Francesco sono due ragazzi di 16 e 17 anni, che si incontrano, si annusano ed è come se si conoscessero da sempre. Entrambi stanno cercando delle risposte, che per chiunque a quell’età rappresentano un po’ lo spartiacque della crescita, ma per loro un po’ di più: perché sono risposte senza le quali non potrebbero andare avanti. Rebecca non ha mai saputo chi è suo padre, La vita di Francesco e della sua famiglia è ferma all'incrocio dove il fratello è morto in un incidente in moto e lui è rimasto paralizzato. "Come la mappa del cielo" non è un giallo, almeno secondo i sacri crismi. C’è però un mistero, che porterà i due ragazzi alle verità che cercavano ed è il filo conduttore dell’intera vicenda: la ricerca dell’alfabeto degli antichi camuni, un codice di comunicazione in grado di creare una relazione diretta tra gli uomini, il cielo e la divinità. Ipotesi suggestiva di un giovane archeologo scomparso nel nulla una 15ina di anni prima, mentre stava verificando sul campo le proprie teorie. E questo campo è la Valcamonica, la valle dei segni, la mia valle, che Lucio Dall’Angelo (mi) restituisce in tutta la sua bellezza facendone il palcoscenico di storia, di stelle e di roccia del suo racconto. Nel libro non ci sono solo Rebecca e Francesco, che in Valcamonica, a Ponte di Legno, si trovano in vacanza e che cercano di riannodare i fili di quelle suggestive teorie preistoriche e della loro vita partendo da una foto trovata ne “Il Quindo Evangelio” (libro non a caso) scovato nella libreria della nonna della ragazzina. Ci sono altri personaggi, solo apparentemente minori. In realtà, ed è questa un’altra bellezza dell'opera, tutti hanno una coralità fondamentale nello sviluppo della trama. Alla fine la mappa, in tutte le sue declinazioni, si completerà. La speranza, mia perlomeno, è che Rebecca e Francesco completino un altro percorso di scoperta, del quale Dall'Angelo sapientemente fa cenno più o meno a metà per riprendere nelle ultime righe e che li potrebbe portare in India, sulla rotta dei migranti italiani nelle minierie d'oro.

martedì 20 febbraio 2018

L'estate degli inganni




E se il mandante della strage alla stazione di Bologna fosse stato Gheddafi? Per ritorsione nei confronti dell’Italia, considerata responsabile dell’abbattimento nel proprio spazio aereo di un Mig pilotato dal suo primogenito? E se di questa responsabilità il Rais non ne avesse fatto mistero con il presidente del consiglio dell’epoca e con i principali ministri, ma fosse stato il suo guanto di sfida, non raccolto e insabbiato in una verità di comodo dai vertici istituzionali in nome della sicurezza nazionale? C’è tutto questo – e tanto di più: per esempio il ruolo interessato del Mossad nel riportare alla luce la vicenda - nel secondo convincente giallo di Roberto Perrone, che vede Il suo protagonista, l’ex colonnello dei carabinieri Annibale Canessa, immerso in un intrigo internazionale, che rimanda ai segreti della guerra fredda e al conflitto invisibile combattuto dalle grandi potenze nei cieli del Mediterraneo. Ma stavolta l’indagine sugli enigmi dell'estate di sangue, stagione d'inganni, depistaggi e tradimenti che ha spazzato via l'ultimo resto di innocenza in Italia, porterà Canessa, in nome della verità, a mettere in gioco ciò che gli è più caro. Attenzione, comunque. Avverte Perrone nella nota conclusiva: “Molti riferimenti a fatti realmente accaduti non sono casuali, ma si tratta, appunto, solo di riferimenti. Di nient’altro. Non ci sono tesi alternative da rivelare né l’intento di rileggere la Storia”. Da leggere


mercoledì 17 gennaio 2018

Libri letti nel 2017



Gennaio
Gianni Farinetti - Il ballo degli amanti perduti
Andrea Vitali - Le mele di Kafka
Romolo Bugaro - Bea vita. Crudo Nordest 
Alessandro Robecchi - Torto marcio

Febbraio
Pierre Lemaitre - Rosie & John
Irene Nemirovsky - Due
Romolo Bugaro - Effetto domino 

Marzo
Roberto Perrone - La seconda vita di Annibale Canessa 
Antonio Manzini - La giostra dei criceti 
Antonella Lattanzi - Una storia nera

Aprile
Romolo Bugaro - Ragazze del Nordest
Gianrico Carofiglio - L'estate fredda
Autori vari - Viaggiare in giallo

Maggio
Marco Missiroli - Senza coda

Giugno
Concita De Gregorio - Mi sa che fuori è primavera 

Luglio
Diego De Silva - Divorziare con stile
Andrea Camilleri - La rete di protezione 
Maurizio Maggiani - Il Romanzo della Nazione 
Carlo M. Cipolla - Allegro ma non troppo 

Agosto
Fiona Barton - Il bambino
Fiona Barton - La vedova
Amelie Nothomb - Metafisica dei tubi
Tommaso Ariemma - La filosofia spiegata con le serie TV
Luca Steffenoni - Il caso Pantani. Doveva morire
Concetto Vecchio- Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano 

Settembre
Antonio Manzini - Pulvis et umbra
Gabriele Romagnoli - Solo bagaglio a mano
Giampaolo Simi - La ragazza sbagliata 
Wu Ming - L'invisibile ovunque
Giampaolo Simi - Cosa resta di noi
Massimo Carlotto - Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane

Ottobre
Enrico Mirani - Il brigadiere del Carmine 
Emiliano Fittipaldi - Gli impostori
Gianrico Carofiglio - Le tre del mattino 
Marco Malvaldi - Negli occhi di chi guarda

Novembre
Piergiorgio Pulixi - La scelta del buio

Dicembre
Ida Ferrari - La vincita
Alessia Gazzola - Arabesque 
Massimo Tedeschi - L’ultimo record 
Nicola Fiorin - Il tredicesimo arcano

venerdì 10 novembre 2017

Il nonno


Mio nonno aveva in casa il ritratto di Stalin appeso alla parete. Ognuno ha gli eroi che crede. E i nonni che si merita. Classe 1909, partigiano, comunista, detto Sacramento, che era uno dei suoi modi di intercalare, era iscritto al partito praticamente dalla sua fondazione. Del resto se inizi a lavorare a 8 anni quando ne hai 12-13 hai già capito come gira il mondo. Mi ricordo che, superati i 70, iniziò a ricevere l’Unità gratuitamente, credo un giorno alla settimana, proprio per la fedeltà di iscrizione. Negli anni 50-60, mi raccontava mio padre, la casa del nonno era un punto di riferimento per i dirigenti provinciali del PCI che salivano in Valcamonica per uno sciopero, un comizio, a sostenere un’occupazione o una protesta. La nostra era una delle poche famiglie comuniste conosciute e riconosciute come tali in paese e questa diversità, anche se non ci capivo nulla, da bambino mi inorgogliva. Partecipare attivamente all’organizzazione delle feste dell’Unità, distribuire il giornale la domenica nelle case, sentire nelle assemblee i presenti chiamarsi tra di loro compagni era emozionante. Alessandro Natta un giorno disse: “Cercate, cercate, ma un nome bello come Partito Comunista non lo troverete mai”. Aveva ragione. Mio nonno era talmente convinto dei suoi ideali che non era concepibile che qualcuno della sua famiglia la pensasse diversamente. I comunisti sanno essere più manichei e intransigenti degli intransigenti e manichei se ci si mettono. Tanto che quando mia cugina, ad una tornata politica votò MSI, non per vera e propria convinzione ma per spirito ribelle, lui, il nonno, le tolse il saluto. Non durò molto,ma non fu semplice nemmeno per lei riconquistare quel saluto. E comunque per il nonno quell’affronto rimase un cruccio e ogni tanto lo ricordava, scuotendo il testone bianco mentre la duecentesima sigaretta della giornata gli fumava tra le labbra. Il nonno identificava le persone con il loro credo politico: “l’è un democristiano”, è un democristiano, diceva di qualcuno a commento di una qualsiasi azione o decisione del democristiano in questione. E l’aggettivazione, nel suo vocabolario, aveva non solo nel caso specifico, ma direi in generale, un’accezione negativa. Un po’ più morbido era il giudizio per i socialisti. Meno per i socialdemocratici o i repubblicani. L’è del mis (MSI) lo diceva accompagnandolo al movimento di chiudere a pungo quelle mani enormi che avevano fatto lavori di ogni genere. Logicamente la svolta della Bolognina per lui fu un’amputazione, che gli fece più male del rene tolto alcuni anni prima. Non l’ho mai sentito pronunciare il nome PDS. Nonno cosa voti? Gli chiesi qualche tempo dopo. Mi guardò con quei suoi occhi azzurrissimi come se avessi detto chissà quale eresia. I comunisti, mi rispose. Sì ma chi? Anch’io se mi ci metto sono un rompicoglioni. I comunisti, ripeté di nuovo e chiuse il discorso. Votò Rifondazione, per capirci.