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sabato 10 maggio 2008

La parabola di Verona

La logica della paura e dell’esclusione generano solo violenza. Il futuro della convivenza civile dipende tutto dalle decisioni che verranno prese dalla politica e che dovranno per forza guardare oltre l’emergenza.


La parabola di Verona
Gabriele Polo


Non c'è nulla di più politico di ciò che è successo a Verona la notte del primo maggio. Quel pestaggio mortale rivela quanto la violenza (e le ideologie cui si appoggia) sia diventata il rapporto su cui si misurano le relazioni tra gli individui. Non è un esito naturale, è il risultato di scelte convergenti di chi gestisce la cosa pubblica. E non c'è nulla di più emblematico di ciò che ha detto l'altroieri il presidente della camera. «Espellendo» quell'omicidio dalla politica, Fini ha allontanato da sé l'amaro calice di antiche contiguità ideologiche e coperto le odierne responsabilità culturali che il suo schieramento ha nella genesi dei «mostri» di Verona. Di più, la terza autorità dello stato nel ritenere l'uccisione di Nicola Tommasoli un fatto meno grave del dar fuoco a una bandiera israeliana, ha dato vita a una costruzione ideologica per cui ciò che avviene sotto - o contro - una bandiera (di stato o di partito) è affare di pubblico interesse, mentre tutto il resto è «bruta natura», alla fine materia di ordine pubblico. Una visione, questa sì, castale della politica che chiude la porta in faccia alla società, la riduce a un insieme di «buoni» e «cattivi», senza porsi il problema del perché siano «buoni» o «cattivi».
Tutto ciò avviene nel deserto di un'opposizione degna di questo nome: ben che vada dalle sedi istituzionali si sono levati flebili distinguo e inviti alla prudenza. Se qualcuno voleva una prova di ciò che significhi vivere senza una «sponda» politica di sinistra, ce l'ha. E ce l'avrà sempre di più, proprio a partire dai fatti veronesi.
Quei cinque ragazzi di buone famiglie venete incarnano il punto di una parabola: Pietro Maso nel '91 uccideva i genitori per garantirsi la macchina rombante e la bella vita dei casinò, i ventenni dell'altro giorno ammazzano per una sigaretta negata. Non è solo il vuoto culturale che tutti denunciano e persino nemmeno «solo» l'impunità per le croci celtiche gonfiatesi all'ombra dei poteri veronesi e che quei poteri riempiono di voti. E' l'incattivirsi rancoroso di un modello sociale ricco e impaurito, perciò violento. Che si appoggia alle ideologie più adeguate per la difesa aggressiva dei propri spazi - dei propri privilegi, piccoli e grandi - da tutto ciò che minaccia o semplicemente interferisce, anche con una semplice sigaretta negata. Oppure, sotto altre bandiere, è il proliferare delle ronde autogestite bolognesi, la cacciata «di chi delinque e delle loro famiglie» dalla Vicenza conquistata dal centrosinistra, la «sicurezza come cardine» dell'amministrazione torinese.
Che di fronte alla radicalità dei problemi le istituzioni e la politica si limitino a cercare una soluzione di comodo può essere spiegabile con le convenienze politiche del momento. Ma è una logica d'esclusione e di corto respiro: non può essere accettata, né funziona. Il vuoto da colmare a sinistra è questa miopia.

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