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venerdì 15 novembre 2019

La versione di Fenoglio


Pietro e Giulio. Il primo, maresciallo dei carabinieri alle soglie della pensione, il secondo, poco più che ventenne, studente di giurisprudenza. Si incontrano in un centro riabilitativo. Pietro sta recuperando da un intervento di protesi all’anca, Giulio da un incidente in auto. Iniziano a parlare, ma non di banalità o del tempo. Il loro è quasi un dialogo platonico. Pietro Fenoglio nella parte di Socrate guida il suo Teeteto a riflettere sulla conoscenza, sui concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull’idea stessa del potere. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo, che questo ultimo lavoro di Carofiglio è un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. La trama si regge sulle storie del maresciallo, personaggio un po’ fuori dagli schemi: colto, interessato all’arte e alla letteratura, un uomo con un altissimo senso della giustizia. Pietro e Giulio sono in un momento delicato della loro esistenza: entrambi non sanno cosa li aspetta. Il maresciallo non osa immaginare la sua vita in pensione. Giulio non sa cosa farà da grande. Nei loro incontri, e nel loro raccontarsi, troveranno insieme alcune  risposte ma inevitabilmente anche nuove domande. Unico appunto: in alcuni momenti sembra che i due protagonisti perdano di autenticità: il loro modo di parlare, di interrogarsi, stride un po’ con quello a cui siamo abituati. E non solo nei romanzi. La versione di Fenoglio è un piacere, intellettuale ed estetico: per chi ha voglia di concedersi pagine belle.

lunedì 11 novembre 2019

Effetto domino


Ho scoperto di recente nel mio tour quotidiano da Feltrinelli della trasposizione cinematografica del libro di Romolo Bugaro, film presentato anche alla Mostra di Venezia. Romolo Bugaro è un avvocato di Padova, per professione si occupa di fallimenti: tanti negli ultimi anni, conseguenza della decrescita repentina che ha travolto centinaia di attività nate alcuni decenni fa in pieno boom economico. La cronaca ne parla quotidianamente, in termini anche tragici, con imprenditori che si tolgono la vita perché non riescono a far fronte agli impegni o per vergogna. “Effetto domino”, che ho letto l’anno scorso, racconta la crisi economica nel Nord Est e lo fa senza sconti: una narrazione cruda quella di Bugaro, un pugno nello stomaco che non ti dà scampo fino alla fine. Al centro della storia c’è una speculazione edilizia o per meglio dire l’operazione della vita dei due protagonisti: la riqualifica di duecentomila metri cubi di terreno, che dovrebbero diventare una nuova prestigiosa area urbana nella campagna veneta. Un progetto enorme, che si alimenta e vive  dell’ambizione e della voglia famelica di uomini che si nutrono solo di business, che si alzano al mattino con l’unico scopo di legare il loro nome, e il portafogli, a qualcosa di grandioso, indipendentemente dalla sua reale utilità, non parliamo dell’etica. Ma ad un certo punto qualcosa si rompe, e non è colpa di nessuno. Divergenze interne a una delle banche finanziatrici bastano a far andare tutto a rotoli: per gli imprenditori a capo dell’impresa e poi giù a catena, per i fornitori, i fornitori dei fornitori, che a loro volta avevano investito, anticipato, dato credito, le loro famiglie, il contesto sociale. L’effetto domino, appunto. Che nessuno ha voluto arginare, quando forse si era ancora in tempo. Perché “fermarsi voleva dire perdere tutto (…). E nessuno avrebbe distrutto l’investimento più importante della sua vita”. Lo consiglio e sono curioso di vedere il film.

giovedì 7 novembre 2019

Niente caffè per Spinoza


Ho amato “Niente caffè per Spinoza” da subito, dal titolo. Ne ho letto una 30ina di pagine da Feltrinelli a Parma dove mi capita, per ragioni famigliari, di passare del tempo in attesa. Al primo piano ci sono poltroncine confortevoli, si può attingere dagli espositori e leggere tranquillamente. Al piano terra c’è invece una zona riservata ai ragazzi per studiare. Amo la Feltrinelli di Strada Farini anche per questo. Sto divagando, ma mi sembrava importante dirlo. Giro tra le corsie e mi lascio guidare dalle emozioni. Sono convinto che siano i libri a chiamarci, non il contrario. Ed è assolutamente inutile opporsi. In un primo momento “Niente caffè per Spinoza” l’ho visto e gli ho girato intorno come Gatto Silvestro con Titti, perché quel giorno avevo un altro obiettivo. Il tempo di sedermi e di non riuscire a concentrarmi sull’obiettivo e son tornato sui miei passi. Di solito, quasi sempre, sempre, quando inizio un libro da Feltrinelli poi lo compro. Mai come stavolta però sono contento di essermi fatto guidare dall’istinto. Elisa è una donna giovane, alla ricerca di tante cose, ma prima di tutto di una ragazza che si occupi della casa e di suo padre anziano, cieco e malato. Elisa vive in Svizzera, con un marito, più o meno, e due figlie adolescenti. Anche Maria Vittoria è alla ricerca di tante cose, per esempio di fare pulizia nella sua vita, a partire dai pesi inutili, il marito e la suocera. E per farlo ha bisogno di trovare un lavoro. Il signor Luciano, anzi il Professore, ex insegnante di filosofia, ha invece bisogno di continuare, per quanto gli rimane, a trovare le risposte giuste dai maestri del pensiero: da Epitteto, Epicuro, Aristotele, da Galilei, Hume, Spinoza, Schopenhauer, ma soprattutto dall’amato Pascal. Nasce tra i due una complicità bellissima, a tratti commuovente. Mentre Maria Vittoria, tra un caffè e una minestra, gli legge i filosofi, il Professore, che ha imparato a vedere nel buio, o forse lo sa da sempre, le insegna la cosa fondamentale: nei libri si possono trovare le idee per riordinare anche la vita. Sul palcoscenico del romanzo, scritto benissimo, ambiente tra Livorno e Pisa, ruotano altri personaggi: gli amici del Professore, ex insegnanti a loro volta, che quotidianamente vengono a prelevarlo per una passeggiata e per discutere di quanto scrivono i giornali. C’è la Vally, l’anziana cognata, c’è la vicina di casa e il medico al piano di sotto, che cerca con discrezione di occuparsi del suo corpo malandato. I segni e le ombre di quando era ancora viva la moglie. Ci sono 2 ex allievi che passano periodicamente, perché non si finisce mai di imparare. Le giornate trascorrono così, apparentemente tutte uguali, cadenzate dalle abitudini e dalle piccole manie tipiche degli anziani: ma sono giornate impreziosite dalle citazioni, che in modo discreto danno un senso al procedere del tempo. Così sino alla fine, che poi non è mai un assoluto, perché è la conoscenza che guida. E quella si impara ma soprattutto si trasmette. Il Professore l’ha fatto per tutta la vita e trova fino all’ultimo il modo di farne dono. Sia materialmente, regalando i libri: uno alla volta, per dare tempo al tempo, sia maieuticamente: anche Maria Vittoria, come Teeteto con Socrate, è travolta dalla fame di conoscenza e l’ultima sera gli confida che riprenderà a studiare. Il romanzo di Alice Cappagli, laurea in filosofia, violoncellista nell’orchestra della Scala, ha un unico difetto. L’ho finito. 

giovedì 31 ottobre 2019

Ogni riferimento è puramente casuale


L’aspirante scrittore che ce la fa ma poi non regge la pressione. Lo scrittore affermato e venerato. Le logiche e i rituali delle presentazioni, anzi delle presentation. Quelli del firma copie. Gli interessi degli editori e quelli degli uffici stampa. Ma anche dei critici, tra frustrazioni e orgoglio: la normalità sconosciuta, chiamiamola così. Perché anche il mondo che sta attorno e chi governa i libri ha i suoi scheletri: c’è chi scrive di suo e chi scrive per altri, c’è chi ha successo, le copertine, i riflettori con la panna montata perché è stato deciso così e poi c’è il gruppo, i gregari, si direbbe nel ciclismo. Un mondo che Antonio Manzini conosce bene, essendo uno dei giallisti di maggior successo, e che mette a nudo con ironia e sarcasmo. Ogni riferimento è puramente casuale è una raccolta: 7 racconti brevi molto coinvolgenti e piacevoli da leggere, che non spoilero proprio per questo. Rimane la morale un po’ amara. Il libro non è cultura, approfondimento, condivisione di idee, o perlomeno non solo. E’ marketing. Per questo, aggiungo io, bisogna diffidare degli osanna e passare del tempo a cercare le chicche in libreria o in biblioteca. Sperando che queste chicche siano arrivate fin lì. Ma su questo noi lettori non possiamo farci nulla.

lunedì 28 ottobre 2019

Noir all'italiana


Del Codice dei Cavalieri di Cristo e di Confusione morale ho già parlato in due post dedicati. Un accenno l’ho già fatto anche sull’Uomo liquido, lettura esilarante: Morozzi ha grandi doti narrative, per due libri è stato capace di tenere in piedi la storia, drammatica, di quest’uomo che a causa di una rarissima malattia ha perso pene e testicoli, rimanendo in pratica liscio – L’uomo liscio era il titolo del primo romanzo – riuscendo comunque a mantenere integra la sua fama di donnaiolo. Le altre 4 letture sono tutti noir e le vorrei riassumere brevemente qui, dichiarando sin da subito le mi preferenze, tra conferme, belle sorprese e piccole delusioni.

La conferma è Roberto Perrone con il terzo romanzo della serie che ha per protagonista Annibale Canessa, libri da leggere in sequenza perché altrimenti si perdono alcuni riferimenti, soprattutto i rapporti tra i personaggi che ruotano intorno al colonnello in pensione. Nell’Ultima volontà, il finto suicidio di un giovane ricercatore porta Annibale e la sua strana squadra, che ricorda un po’ quella dell’Alligatore di Massimo Carlotto, in Emilia, negli anni della guerra partigiana, per fare luce su una vicenda allora sotterrata in fretta e furia e poi caduta nell’oblio. Perrone mette il dito in questioni politiche ancora sensibili sulla lotta di Liberazione, ma lo fa con grande maestria e abilità, senza la pretesa di voler riscrivere la storia o dare giudizi. In attesa del prossimo Canessa, una bella opera prima:

Il seme della violenza di Ludovico Paganelli. Siamo nella Milano dell’Expo, alla vigilia di Natale. Un broker viene assassinato e il commissario Margot Blanchard, donna tutta da declinare al superlativo, a partire da bellissima, si ritrova man mano immersa in una storia torbida, che va oltre la finanza, i soldi liquidi e le perdite in borsa, come possibile movente del delitto. Racconta di donne violate, connivenze e abusi di potere che riporteranno il commissario Blanchard a fare i conti con un passato personale doloroso, sotterrato per anni in un armadio insieme alle foto e le lettere che ne danno contezza ma che ora è chiamata ad affrontare, per sé e per non perdere gli affetti più cari. Lo consiglio.

Su Il cuoco dell’Alcyon ho qualche remora. Il testo nasce come sceneggiatura per una coproduzione italo americana e si vede, nonostante Camilleri abbia rivisto la scrittura per darle la dimensione del romanzo, Il Maestro ci consegna però un Montalbano diverso da quello che conosciamo e a mio avviso poco credibile. I temi sono quelli cari a Camilleri, a partire dal malaffare ai più alti livelli, che si incontra su una barca a vela e che un duo quasi comico, Montalbano Fazio, è chiamato a sgominare in appoggio all’FBI. Ho letto recensioni molto positive su quest’ultimo Montalbano, con argomentazioni peraltro condivisibili, per esempio le riflessioni sulla società attuale, nel caso specifico il mondo del lavoro, che sempre contraddistinguono i romanzi di Camilleri. Ferma restando la scrittura magnetica e le contaminazioni tra giallo e spy story continuo però a non essere convinto e a preferire il vecchio Commissario.

Chiudo con Farinetti che ha da sempre abituato a trame solide e coinvolgenti, immerse nei profumi e nelle atmosfere piemontesi – nello specifico  delle Langhe - e che a quattro anni dall’ultimo romanzo ci consegna questo La Bella Sconosciuta, che devo confessare mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Nel libro ci sono più o meno tutti i personaggi farinettiani, sempre ben disegnati e caratterizzati con precisione e ironia, ci sono come detto le Langhe e i suoi paesaggi, c’è la storia - il morto che più o meno tutti avrebbero potuto ammazzare e un colpevole che non ti aspetti – ma. Personalmente non mi convince la parte, chiamiamola così, sociale, sempre presente anche in Farinetti. Nel caso specifico un tema delicato e tuttora sensibile come il cambio di sesso, che comporta un percorso interiore e di accettazione e che qui finisce per risultare una provocazione e una punizione – vendetta? – verso un certo conformismo borghese.

domenica 27 ottobre 2019

La confusione morale


L’impianto è quello del giallo. C’è un morto ammazzato, un geometra del comune di Milano iscritto al PCI. Ma La confusione morale è un libro politico. Lodovico Festa è stato un funzionario del partito comunista milanese, ne conosceva l’ambiente, le dinamiche, l’impronta burocratica quasi militaresca e come  nel precedente La provvidenza rossa gli viene naturale parlare di quegli anni per darne una lettura e un’analisi storica – e politica – più ragionata e obiettiva. Siamo nel 1984, Berlinguer è appena morto lasciando un vuoto e probabilmente una confusione morale nei suoi eredi. Al governo c’è Bettino Craxi. Milano è guidata da una giunta di sinistra con socialisti e comunisti. Iniziano a farsi strada figure imprenditoriali che contribuiranno a modificare il tessuto sociale ed economico del Paese. La trasformazione urbanistica del territorio milanese è legata a doppio filo a costruttori chiacchierati. In questo contesto matura l’omicidio. Un omicidio che, si capisce sin da subito, diventa un fatto marginale o di contorno rispetto alle implicazioni politiche che potrebbero derivare se la morte del geometra fosse in qualche modo legata al Piano case del Comune, cosa che non dispiacerebbe a Botteghe Oscure. E qui si sviluppa l’inchiesta di Mario Cavenaghi, il presidente dei probiviri lombardi, una sorta di polizia interna, che cerca di dirimere tutte le questioni spinose, a salvaguardia del partito. Cavenaghi non cede alla facile e comoda ricostruzione che ha l’obiettivo di screditare Craxi sacrificando al contempo il governo del capoluogo lombardo. L’indagine è anzi un’occasione per rivedere alcune posizioni. Il mondo stava cambiando e il PCI sbagliava – sostiene Festa – a leggerlo e giudicarlo con logiche e schemi superati. Forse, fa dire l’autore ad alcuni protagonisti, valeva la pena prendere in considerazione alcune idee lungimiranti di Bettino Craxi e aprire un dialogo diverso con il PSI. I destini della Prima Repubblica sarebbero stati diversi, non solo perché affidare alla magistratura la surroga della politica comporta la morte di quest’ultima, ma anche perché la storia successiva dell’Italia sarebbe stata diversa, sia a sinistra che soprattutto a destra. La confusione morale è un bel libro ed è una lettura interessante per chi ha vissuto quegli anni, magari un po’ macchinosa: l’autore la scrive volutamente con la lentezza tipica delle meditazioni, dei dubbi e delle ricostruzioni di un burocrate del partito comunista, ma quando si entra nella narrazione la sostanza compensa lo sforzo.

venerdì 25 ottobre 2019

Il Codice dei Cavalieri di Cristo


C’è il cadavere di un uomo sul monte Pellegrino a Palermo, la gola tagliata e degli strani segni sul petto. A dare l’allarme è Julien Brunner, docente di Geoscienze dell’Università di Losanna, che rilascia la sua deposizione, poi esce dalla Questura e sparisce nel nulla. Il giorno successivo altri due cadaveri, a Cefalù: un uomo e una donna, appartenenti ad una setta esoterica, gli stessi segni sul petto, che si scoprirà poi essere simboli di un alfabeto antichissimo, l’enochiano. Quando gli inquirenti cercano di rintracciare Brunner per capirne di più, scoprono che il professore, di origine portoghese, è in realtà morto il giorno prima di comparire vivo e vegeto sul monte siciliano. Inizia così la nuova indagine del vicequestore Giovanni Barraco, capo della Mobile di Palermo. Un caso che lo porta a Lisbona ad indagare dapprima in un convento – il primo morto era un frate – e poi indietro nel tempo nell’Ordine dei Cavalieri di Cristo, che nella capitale portoghese viene tenuto in vita dai discendente diretti appartenenti alla nobiltà locale, in teoria con l’obiettivo statutario di fare opere di bene, in realtà non tutti in quel consesso la pensano allo stesso modo. Ci saranno altri morti, a partire proprio da uno di questi Cavalieri, in un susseguirsi di colpi di scena orchestrati con maestria e abilità da Carmelo Nicolosi, che vedono il suo Barraco impegnato in una delicatissima partita a scacchi, dove ad ogni mossa si rischia il matto (o il morto): il vicequestore non solo deve sciogliere la matassa sempre più ingarbugliata di un caso internazionale - anche la mafia marsigliese entrerà nel gioco e la storia si intreccerà con un'altra vicenda: il traffico illegale di gioielli dal Congo - ma è costretto a guardarsi le spalle perché nella polizia portoghese c’è chi potrebbe fare il doppio gioco. Per venirne a capo Giovanni Barraco può contare solo sui suoi uomini a Palermo, su Gisella Bruno, che lo raggiungerà a Lisbona, sul tenente Celia Moreira, avvenente collega con la quale nascerà qualcosa di più della semplice colleganza e Paulo Mafra, agente della polizia locale. Barraco alla fine troverà il colpevole, il burattinaio di tutti i morti ammazzati – e sono tanti - ma la cosa interessante è che fino alle ultime pagine non si riesce a capire chi è e perché. E quello che mi sento di dire è che anche il mio amico Carmelo credo l’abbia deciso solo agli ultimi 300 metri. Come in una gara di ciclismo ha portato sul rettilineo finale i 4-5 velocisti più forti, nel nostro caso i papabili colpevoli, e alla fine ne ha scelto uno. Al fotofinish. Inutile dire che lo consiglio.