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giovedì 5 marzo 2009

Memorie

A molti della mia generazione e di quella precedente il 4 marzo viene associato immediatamente ad un anno, il ’43. Quattromarzoquarantatre. Come Italiagermaniaquattroatre. Un titolo, un pezzo di storia, in cui ognuno ci mette ciò che crede. A volte è memoria condivisa, altre no. 4 marzo ’43 è il titolo di una delle canzoni più famose di Lucio Dalla, nonché la sua data di nascita. Il 4 marzo è anche il giorno dell’omicidio di Nicola Calipari: un servitore dello stato, un eroe, dissero tutti di fronte alla sua bara avvolta nel tricolore. A distanza di 4 anni questa memoria più che condivisa è ingombrante. Invece la memoria è importante. Un Paese senza memoria oggi permette agli attivisti di Forza Nuova di manifestare e aprire nuove sedi, in barba alla legge Scelba del 23 giugno ‘52 che vieta l’apologia del fascismo. Domani, chissà….



In memoria di Nicola Calipari
di Giuliana Sgrena

Quattro marzo 2005. Quattro anni fa, sembra ieri, oggi ancora più di un anno fa. Quanto clamore aveva suscitato la morte di Nicola Calipari. Un eroe, si diceva, tutti dicevano, quando è tornato da Baghdad chiuso in una bara. Io non credo agli eroi, proprio io, che sono qui grazie a lui. E non solo io.
Quattro marzo 2009. Un silenzio assordante. Chi si ricorda ancora di Nicola Calipari? Medaglia d'oro al valor militare consegnata a Rosa dal presidente della Repubblica, scuole, strade intitolate a lui, tanti riconoscimenti. E oggi? Dove sono finite le personalità, i politici di ogni tendenza che allora lo avevano celebrato?
Quei militanti di sinistra che, come me, noi, avevano scoperto che essere un servitore dello stato non vuol dire essere solo al servizio del potere ma può voler dire anche intervenire in soccorso dei suoi cittadini? Tutti.
Come dimenticare che un processo - che forse non avrebbe fatto conoscere la verità su quanto successo il 4 marzo 2005 a Baghdad ma almeno avrebbe potuto provarci - è finito nel nulla senza che nessuno protestasse? Eppure, ancora una volta, l'Italia ha rinunciato alla sua giurisdizione, anche di fronte all'assassinio di un suo cittadino celebrato come un eroe. Una sovranità sacrificata in nome dei rapporti con gli Usa di Bush. Con Obama sarebbe stato diverso? Forse, ma è troppo tardi per saperlo. Da noi i governi sono cambiati ma nessuno ha fatto un gesto per avere il processo, per chiedere a Mario Lozano perché nelle varie interviste a giornalisti poco reattivi ha parlato di quella di Calipari come «una missione suicida», per chiedergli perché «in Italia era minacciato», da chi? Negli Usa, un gruppo di avvocati di Los Angeles ha promosso un'azione giudiziaria per chiedere le regole di ingaggio in vigore in tre azioni militari degli americani in Iraq, una è quella che ha visto l'uccisione di Calipari. Il giudice ha riconosciuto la validità della richiesta, il Pentagono non ha ancora risposto, ma forse lo farà. Forse in questo caso il nuovo corso di Obama avrà qualche effetto.
Ma l'Italia, come gli Usa, ha archiviato il caso Calipari. L'Italia è diventato un paese senza memoria. Un paese che ogni giorno si arrende di fronte alla demolizione delle fondamenta delle nostre istituzioni nate dalla Resistenza contro il fascismo, come può ricordarsi di un servitore proprio di quello stato democratico.
Eppure non tutti hanno dimenticato Nicola Calipari e non siamo solo noi a ricordarlo. Spesso, girando per l'Italia, in vari incontri mi viene sollecitato il ricordo di Nicola, un ricordo doloroso, da condividere con gli altri, per non permettere l'oblio. Tante persone comuni, quelle che non dimenticano, anche oggi 4 marzo 2009 si ricorderanno i momenti drammatici di quattro anni fa. Non per celebrare un eroe - per gli eroi ci sono le medaglie - ma per un uomo perbene, uno che come noi difendeva gli stessi valori.

lunedì 2 marzo 2009

Merde

Giuseppe Garrone, professore di liceo in pensione, segretario del Comitato Verità e Vita, è una merda.

martedì 24 febbraio 2009

PI EN ER

Martedì grasso, treno pieno di maschere di tutte le età che vanno a Venezia a festeggiare il Carnevale. Faccio un pezzo di viaggio con una famigliola tipo: padre, madre e due bambini, maschio e femmina. La signora, 35-40 anni, piccola, minuta, look finto trasandato, occhialini da intellettuale organica di sinistra. Lui, stessa età, tarchiato, leggermente sovrappeso, jeans, maglione da grandi magazzini, aria un po’ sfigata. Decisamente di sinistra. Arriva il bigliettaio e lei ha un lampo negli occhi. Prende il cellulare e spellinga ad alta voce: le do il pi, en, er. Il ferroviere replica nell’idioma di casa: il pi, enne, erre. No, fa lei saputa, guardando il marito con fare complice: il pi, en, er. L’uomo del treno sorride, prende dalla borsa la macchinetta, chiede alla signora la penultima cifra del codice e stampa i biglietti. Ne perderemo ancora tante di elezioni.

sabato 21 febbraio 2009

Senza barriera

Una sera, diversi anni fa, avevo appuntamento al solito bar del paese per seguire in tv una partita di calcio. Mercoledì di coppa. Non ricordo che partita fosse, ma, visti i miei amici, sicuramente giocava il Milan. Arrivo al bar e trovo già tutti schierati nella saletta tv, con una novità rispetto alla formazione tipo. In prima fila c’è Geki, scritto e pronunciato diminutivo di Giacomo, sedia rivoltata ad un metro dallo schermo, braccia appoggiate allo schienale a sorreggere il viso. Guardo gli altri interrogativo ed ho come rimando sorrisi che significano: boh, si è messo lì, lascia stare. Non che volessi fare alcunchè, ci mancherebbe. Il fatto strano è che non avevo mai visto Geki seguire una partita di calcio e nemmeno ricordavo fosse mai intervenuto ad una delle nostre dotte disquisizioni di stampo biscardiano. Inizia la gara e con lei la partecipazione attiva dell’uditorio, con tutta la serie di commenti più o meno opportuni, più o meno politically correct. Geki niente. Impassibile. Non si perde un secondo di gioco. Non si scompone nemmeno quando al Milan vengono assegnate 2-3 punizioni di fila dal limite e la tensione porta tutta la saletta alle sue spalle a fargli da corona, pronta ad esultare in caso di gol ma costretta a ricacciarsi l'urlo in gola per la solida opposizione della barriera. Finisce il primo tempo sullo 0 a 0. I giocatori rientrano negli spogliatoi, la formazione del bar ordina compatta un amaro e si fa forza per la seconda frazione. Geki rimane lì a presidiare. Ripresa. La gara va avanti sulla falsariga del primo tempo. Più passano i minuti più cresce la tensione. Il Milan attacca ma non sfonda. Altra serie di punizioni dal limite senza esito. Poi, finalmente, un rossonero entra in area e un avversario lo stende. Rigore urla compatto il bar. Rigore decreta l’arbitro. Pallone sul dischetto. Silenzio in sala. Tensione palpabile. A quel punto Geki si muove sulla sedia. Si gira leggermente verso la curva tenendo però un occhio sempre fisso allo schermo e dice: adess ghe mia bariera che tegn. Che nella lingua di Dante significa: ora non c’è alcuna barriera a difenderli.
E’ lo stesso pensiero che ho fatto quando Walter Veltroni ha dato le dimissioni da segretario fondatore del partito democratico. Ora che il buon Walter si è fatto da parte, tutti i capibastone, più o meno iscarioti, più o meno teo qualcosa, più o meno interessati, sparigliatori di carte, sempre pronti ai distinguo, hanno esaurito gli alibi. Ora che Walter, perfetto Monsieur Malaussene, è uscito di scena, è finita la ricreazione. Non che l’ex sindaco di Roma sia immune da colpe per la disfatta. Ma era chiaro sin dall’inizio che il suo incarico nasceva da un semplice calcolo di opportunità. Era rimasto probabilmente l’unico volto spendibile, in grado di rappresentare il nuovo e di proporre un modo di fare politica non urlato. Vai avanti tu. Se avesse vinto le elezioni forse sarebbe stato tutto diverso. Invece. Invece quando poi si è girato non c’era più nessuno, a parte Franceschini, che è la stessa cosa. L’errore esiziale del pd, condiviso dall’intero gruppo dirigente immagino, è alla base. Non è stato cioè quello di escludere la sinistra massimalista e socialista dalla coalizione, ma di aver pensato di riuscire ad essere sintesi delle due principali ideologie contrapposte del 900, quella cattolica e quella comunista, senza che queste passassero attraverso un’autoanalisi critica, abbandonando i vecchi schemi. Riuscendo da una parte a staccarsi dalle dita il rosario, in una società peraltro secolarizzata, dall’altra a pensare a cosa significa essere sinistra, al di là del pugno chiuso e della falce e martello. Il re è nudo. Credo che le dimissioni di yeswecan, trasformatosi troppo presto in nodiocan, debbano e possano essere capitalizzate dando finalmente una connotazione e una direzione vera al partito. Una connotazione e una direzione che non può non essere che laica e di sinistra. E se questo significa perdere Rutelli e tutti i teo, non si aspetti oltre. Ezio Mauro, che ha sempre sostenuto il progetto, scrive: “È davvero così difficile sostenere che credenti e non credenti hanno a pari titolo la loro casa nel Pd, ma il partito ha tra le sue regole di fondo la separazione tra Stato e Chiesa, tra la legge del Creatore e la legge delle creature? Soprattutto, è un tabù pronunciare la parola sinistra nel Partito democratico, pur sapendo bene che socio fondatore è la Margherita, con la sua storia? Quando ciò che è al governo è "destra realizzata", anzi destra al cubo, con tre partiti tutti post-costituzionali e l'espulsione dell'anima cattolica dell'Udc, come può ciò che si oppone a tutto questo non definirsi sinistra, naturalmente del nuovo secolo, risolta, europea e riformista?”. Negli ultimi mesi, in piena crisi economica, per dire solo uno dei problemi che affliggono il paese, il pd è stato capace di stracciarsi le vesti per la presidenza della commissione di vigilanza rai, ha concionato ed ha messo il muso sulla collocazione in europa: socialisti? Popolari? un po’ di qua e un po’ di là? liberal socialisti? Fino ad arrivare all’apoteosi del caso Englaro quando, pur di non scontentare nessuno, ha dato un’indicazione generica, lasciando ognuno libero di votare secondo il proprio credo. Walter, andandosene, ha servito un assist straordinario. L’ultima occasione per diventare un partito e smettere di essere una barzelletta.

mercoledì 11 febbraio 2009

Democrazia

Non è una questione di potere ma di separazione dei poteri, l’unico modo per preservare la democrazia da una deriva autoritaria. Il parlamento, la magistratura, il presidente della Repubblica non sono avversari o nemici da combattere: attraverso le rispettive funzioni sono garanti di quell’equilibrio necessario per la convivenza civile. Un presidente del consiglio dovrebbe saperlo. Ma l’uomo ha un disegno altro e soprattutto non concepisce di dover sottostare a qualsivoglia regola, o di non essere l’unico a decidere ciò che è bene e ciò che è male. E quando qualcuno glielo ricorda, sbrocca. Nemmeno di fronte alla morte ha un sussulto di umanità. E i suoi scherani con lui. De Andrè parlava della cattiveria dei nani. Questioni di distanze tra muscolo cardiaco e orifizio anale, diceva.

martedì 3 febbraio 2009

La ragione e l’acquasantiera

Io non staccherei mai la spina a nessuno ma ho grande rispetto per Beppino Englaro e per il suo dolore. Credo anche che chi ha incarichi di governo, chi è parlamentare della repubblica, chi fa il giornalista e non il semplice passacarte, nascosto a volte morbosamente dietro alle virgolette, dovrebbe usare toni e modi meno barbari. Che dibattito vuoi aprire con persone come Gabriella Carlucci (“Bisogna a tutti i costi fermare il boia pronto ad eseguire la sentenza di condanna a morte di Eluana Englaro”); Isabella Bertolini (“Il boia si è messo il cappuccio. La morte per fame e per sete, che sta per essere comminata alla cittadina italiana Eluana Englaro, è una atrocità non degna di un paese civile come l'Italia. Questo delirio nichilista deve essere fermato”); Maurizio Gasparri (“E' iniziato l'omicidio di Eluana, che rischia di avvenire impunemente e senza turbare convenzioni e erogazioni di pubblico denaro. Le immagini dell'ambulanza partita nella notte sotto il diluvio sono cariche di angoscia. Si protesta per salvare un albero. Si è, invece, ignorato l'appello delle suore di Lecco che si erano offerte per proseguire la loro opera di assistenza”); o Alessandro Pagano, il peggiore di tutti (“Con il trasferimento da Lecco a Udine, finalmente Beppino Englaro e il suo clan stanno riuscendo nel loro piano diabolico, ossia di far eseguire la prima condanna a morte della storia Repubblicana”).
Per fortuna c’è anche chi continua ad avere come punto di riferimento la ragione e non l’acquasantiera. Come Benedetto Della Vedova, peraltro deputato pdl come i crociati sopra. “Il linciaggio riservato in queste ore a Beppino Englaro è assurdo e inumano. Parlare di 'mano assassina', di 'omicidio' o addirittura di 'boia', non solo è privo di qualsiasi pietà, ma è un assurdo dal punto di vista della civiltà giuridica. Qui non c’è omicidio o assassinio e non c’è omicida o assassino. Beppino Englaro con la sua limpida battaglia socratica ha chiesto di sapere se la Costituzione e le leggi italiane consentissero la sospensione delle terapie di alimentazione e idratazione artificiale a sua figlia, secondo la volontà da lei espressa in passato: la Corte di Appello di Milano e la Suprema Corte di Cassazione hanno risposto positivamente. La legge può non piacere ma è legge: chi non riconosce questo, per qualsiasi ragione lo faccia, mina lo Stato di Diritto. Eluana - conclude Della Vedova- ha vissuto il suo calvario clinico e giudiziario, ora lasciamola andare”. Come il presidente della Camera Gianfranco Fini: “Invidio chi ha certezze sul caso Englaro. Personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov’è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla”. O come il dott. Amato De Monte, primario del reparto di anestesia della clinica di Udine, che procederà all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione della donna: “Sono profondamente devastato come uomo, come padre, come medico e come cittadino. Tutto questo però passa nettamente in secondo piano davanti al dolore della famiglia Englaro. Quando ho incontrato Beppino Englaro di lui mi ha colpito in particolare il modo con cui ha espresso questo suo perseverare nel cercare di esaudire la volontà della figlia. E in particolare quella di volerla 'liberare'. Lui ha usato questa parola, una parola che non dimenticherà mai. Eluana non soffrirà – ha aggiunto De Monte - perché Eluana è morta il 17 anni fa… Io penso che tutta la società civile dovrebbe fare un grosso ripensamento su questa tematica e soprattutto sullo scollamento che su questo problema esiste tra il sentire sociale e la posizione della politica e della Chiesa. Questa - ha quindi concluso al microfono del TG3 Friuli - sarà la mia prima, unica e ultima intervista sull'argomento e penso di potermi fare portavoce anche della famiglia Englaro nel reclamare assolutamente la più totale privacy in questo dolorosissimo momento”.