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venerdì 18 dicembre 2009

Attenti al lupo

La cosa che fa più specie e che nemmeno di fronte ad un atto grave come il ferimento del presidente del consiglio non ci sia stato un attimo di tregua, che sò, 24 ore, perlomeno per lo sbigottimento. Che nessuno abbia sentito il dovere di fermarsi un secondo: se un cittadino, pur con l’attenuante dei problemi psichici (ma chi non ne ha?) si arroga il diritto, o il dovere, di farsi giustizia sommaria, forse c’è qualcosa che non va. Forse, stiamo sbagliando qualcosa. Niente di tutto ciò. L’onorevole Cicchitto, la voce deputata a rendere pubblici il sentire e la strategia della maggioranza, ha dato la lista dei mandanti di Tartaglia e ha enunciato le richieste del governo per pacificare (con la forza) questo paese ingrato. L’obiettivo è talmente palese che non serve nemmeno un grande sforzo per comprenderlo: forzare la mano per rompere il tavolo. Con quali conseguenze è francamente difficile dirlo. Di certo è importante, e auspicabile, che chi oggi viene additato come cattivo maestro non si lasci trascinare nella disputa becera e mantenga comunque fermo il proprio agire.
Per questo vale la pena archiviarsi alcuni articoli a futura memoria. Tanto per cominciare gli editoriali di due dei principali terroristi, il direttore di Repubblica Ezio Mauro e il collega Giuseppe D’Avanzo. In copia anche la lucida analisi di Norma Rangeri del Manifesto.


EDITORIALE di Norma RangeriTERRORISMO IN AULAL'onorevole Fabrizio Cicchitto, ex socialista lombardiano, poi gelliano, ora berlusconiano, si è alzato dal suo banco di Montecitorio versando sul parlamento purissima benzina. Fino a scandire la lista dei terroristi, i nomi dei mandanti del folle di piazza Duomo: il gruppo Repubblica-Espresso, Annozero, Il Fatto, Travaglio, Di Pietro, i pubblici ministeri. Giornalisti, politici, magistrati, tutti con le mani insanguinate. Ponendo infine l'aut-aut: subito «leggi funzionali», cioè leggi speciali a protezione del capo. E quando ha preso la parola Antonio Di Pietro, l'incendiario è uscito dall'aula insieme ai parlamentari del Pdl, concludendo una sequenza di arroganze verso ogni forma non concordata di opposizione al governo. Come dimostrava, di lì a pochi minuti, l'ennesima richiesta di voto di fiducia sulla legge finanziaria, costringendo il presidente Fini a parlare di «deprecabile impedimento all'aula di pronunciarsi», scontando le repliche avvelenate degli uomini del cavaliere. Che la campagna di odio non si sarebbe fermata era prevedibile, che aumentasse di intensità e virulenza anche. Dai comizi al parlamento, naturale approdo per chi punta al massimo traguardo: il bersaglio costituzionale.Il segretario del Pd indietreggia, si difende dall'assalto di Cicchitto definendolo «il pompiere incendiario», rileva il pericoloso distacco del governo da un paese stremato dalla crisi. Accusa i colpi indiretti (contro Di Pietro) e quelli portati nelle sue stesse file (contro Rosy Bindi). Cerca di fuggire dal terreno su cui l'avversario gli lancia la sfida, senza tuttavia riuscire ad imporne un altro. Mentre la Cgil è esclusa dal tavolo del governo, e nelle fabbriche si applicano gli accordi decisi da rappresentanze minoritarie, facendo così saltare il già debole gioco della democrazia sindacale, ultimo ammortizzatore di un malessere profondo.Al resto, al bombardamento quotidiano sul pericolo terrorista che vuole rovesciare il potere del popolo, ci pensa la televisione. La regina del populismo moderno, berlusconiana (di nome o di fatto), tiene alto il fuoco nelle case italiane, a colpi di telegiornali e vita in diretta, di talk-show e intrattenimento. La tv monta la panna acida del vittimismo berlusconiano, punta la telecamera contro l'opposizione, esalta la figura del piccolo padre, ferito custode di un amore sconfinato «per la gente, nella gente, con la gente», come recita il mantra ossessivo dell'onnipresente portavoce-sottosegretario Bonaiuti, confondendo Vespa che lo chiama «Berlusconi». Tanto odio contro un uomo buono, come non è mai successo, ripetono i suoi, mai una campagna è stata mirata a sconfiggere un politico.Invece una battaglia all'ultimo titolo contro un leader italiano ci fu, condotta proprio sulle colonne di questo giornale. La inventò Luigi Pintor contro Amintore Fanfani, candidato al Quirinale. Era il mese di dicembre del 1971, e ai titoli di carta seguì una manifestazione, proprio a Milano. Contro il «fanfascismo», forma primitiva di presidenzialismo. Fu durissima, ma abbondantemente ripagata dalla vittoria di un appena nato quotidiano comunista. Noi siamo sempre gli stessi, ma al confronto Fanfani era un galantuomo.

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