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mercoledì 3 agosto 2016

La meraviglia della diversità


Claudia de Lillo, alias Elasti, mi piace. Elasti cura il blog Nonsolomamma e tiene una rubrica settimanale su D di Repubblica, il primo e, a volte, unico articolo che leggo dell’allegato del sabato. In uno degli ultimi pezzi parla di famiglia, partendo da una sua esperienza personale di figlia di genitori separati e di un fratello solo di padre. Fratello amato e negato, da bambina, per la mancanza di parole per giustificare una normalità spezzata e non più condivisa con gli amichetti. E lo fa con la consueta grazia e intelligenza. Chiude poi ragionando su come saranno o potrebbero essere le famiglie di domani. Ci sono due passaggi che riporto fedelmente perché sono molto belli, oltre a rispecchiare il mio pensiero.

Un giorno un’amica, madre, insieme alla sua compagna, di 4 figli mi disse: “La nostra specificità dovrebbe essere un’occasione per ampliare gli orizzonti di chi ci sta intorno”. Tuttavia spesso “chi esula dal modello dominante rappresenta un problema, non una ricchezza”.

Ignoro come saranno le famiglie di domani. Più che immaginazione ho desideri e auspici: vorrei che i figli dei miei figli non avessero nulla da nascondere. Vorrei che se avessero segreti, fossero tesori e non paure. Che domani la diversità possa essere considerata sempre un valore. Vorrei che un fratellastro, un cromosoma in più, due mamme, due papà, un colore diverso, la religione altrui, una lingua incomprensibile, riempissero il mondo di meraviglia, di curiosità e di nient’altro.

giovedì 23 giugno 2016

Antonio, che non voleva sapere


E’ giusto dire ad un malato: hai il cancro. O è meglio tacere, negare, mentire anche? Non credo ci sia una regola assoluta: dipende dalla storia e dall’emotività della persona in questione, dalla sua capacità di reggere e di reagire ad una battaglia durissima. A mio padre ho sempre taciuto la verità. Ho negato e mentito. Mi sono preso arbitrariamente la responsabilità di questa scelta, sopra di lui, di mia madre e di mia sorella. E anche oggi, a distanza di quasi 11 anni, non me ne pento. Sono assolutamente sicuro che papà sapesse. Tutti, in fondo, sanno. Se però non ne parlano apertamente o non affrontano mai l’argomento – e lui non l’ha mai fatto, se non all’inizio - probabilmente è perché  preferiscono non sapere, perché vogliono delegare ad altri il peso emotivo. L’ultima bugia gliel’ho raccontata il giorno che l’hanno trasferito dal centro ematologico, dove era ricoverato, all’hospice, dove avrebbe trascorso quelli che, purtroppo, sarebbero stati i suoi ultimi giorni. L’exitus mi era ben chiaro, me l’avevano detto i medici e io non ho mai creduto ai miracoli. Sai papà, qui hai finito il ciclo di terapie, adesso andiamo in una struttura riabilitativa e poi torni a casa. Ero sicuro che non mi avrebbe risposto, ma mi ero preparato a reggere il suo sguardo. L’intera giornata era poi trascorsa nel silenzio più assoluto. Nei giorni successivi, sarà stata la sospensione delle bombe di chemioterapia, sarà stata la tranquillità del posto, mio padre aveva riacquistato un po’ di forza e di colore. Tanto che aveva ripreso a parlare e sembrava quasi credere alla bugia del suo ritorno a casa. E anch’io avevo iniziato a farlo.

Oggi, 23 giugno, mio papà avrebbe compiuto 82 anni.

lunedì 6 giugno 2016

Questione di postura


In treno per Verona, come ogni mattina, conversavo con la mia amica libraia, quando è passato il controllore. Ha verificato i biglietti dei presenti, poi ha guardato noi e, sorridendo, ha detto: voi siete abbonati. Si, come fa a saperlo? Dalla postura. La famigliarità con i luoghi, qualsiasi essi siano, la si vede da come uno sta, si muove, occupa lo spazio, ne diventa in un certo senso padrone, trasmettendo questa sicurezza alle persone che lo circondano. Accade, ed è naturale, nella propria abitazione, in un paese o in una città che si conoscono, ma anche in auto, o in treno, appunto. Dopo dieci anni di pendolarismo quotidiano su rotaia posso dire di aver affinato la capacità di osservazione e di catalogazione dei clienti trenitalia da come si muovono. E dalla postura. Chi ha consuetudine con il mezzo lo si vede già sul marciapiede: guarda il monitor e soprattutto sta attento gli annunci. Che da qualche anno non si limitano solo a informare dei ritardi e del binario di arrivo di un treno, ma indicano anche la posizione delle carrozze: dalla 7 alla 9 testa treno, dalla 4 alla 6 centro treno, dalla 1 alla 3 coda treno. Questo consente al passeggero di orientarsi e di attendere più o meno in prossimità della carrozza di pertinenza, che si conosce perché il suo numero, così come quello del posto a sedere, sono scritti sul biglietto. Le stazioni più evolute hanno addirittura monitor che segnalano dove le carrozze si fermeranno. Il buon senso suggerirebbe che se uno non conosce le regole, o le conosce poco, dovrebbe a maggior ragione stare attento a tutte le indicazioni, gli stimoli, gli input che gli vengono dati. Non è così. Succede invece che una persona, all'apparenza di intelligenza normale, in stazione, e poi sul treno, si trasforma in un mentecatto. Quando arriva al binario si posiziona a bibone, indifferente a tutto quello che gli (o le: più gli che le a dir la verità) accade accanto. E soprattutto ha una capacità imbarazzante di posizionare se stesso e le valigie dove sicuramente romperanno i coglioni. Ora, ci sono regole non scritte anche sui binari, come nelle corsie del supermercato, dove è facile distinguere gli habitué della spesa e chi al contrario affronta per la prima volta i gironi danteschi della grande distribuzione: solitamente sono quelli che girano contromano con i carrelli, si fermano all’improvviso cambiando direzione, lasciano il suddetto carrello in mezzo alle corsie mentre si aggirano in stato confusionale alla ricerca del viakal, per dire, questuando a caso un aiuto mentre contemporaneamente cercano di chiamare la moglie al telefono, con l’unico risultato di farsi cazziare, a volte in viva voce. Quando sono in branco i viaggiatori poco viaggianti raggiungono livelli imbarazzanti. Combattono l'ansia raccontando puttanate, aneddoti da oratorio, a voce alta, immancabilmente in sincrono quasi perfetto con gli annunci. E siccome tu sai già come andrà a finire ti vien voglia di urlare: ma chiudi quella bocca di merda e ascolta. Quando poi arriva il treno, leggi loro in faccia il panico. La carrozza 7? chiede il capobranco a chi transita in quel momento nel suo campo visivo, fosse anche un cinese mandarino o la signora con cane (e viceversa). Lo so ma non te lo dico, coglione: la prossima volta stai attento invece di fare il blagor. L’apertura delle porte è l’accesso ad un'altra dimensione. Regola vuole, di fisica più che di bon ton, che prima di salire si deve permettere agli altri passeggeri di scendere. Dopo essere stato bloccato con già il piede sul predellino, il nostro eroe difende la posizione con il corpo e invita il seguito a posizionarsi di conseguenza, valigie comprese. Che si fa passare una volta guadagnato il disbrigo tra le carrozze, impedendo la salita agli altri passeggeri. E 10 volte su 10 quella battezzata non è nemmeno la sua carrozza. Qui inizia la fase 2, la ricerca del posto. (To be continued)


lunedì 30 maggio 2016

Proud


La vita, le scelte, che siano intellettuali o molto più banalmente logistiche - basta per esempio vivere in un’altra città - cambiano i rapporti. La quotidianità, che è fatta di contatti anche fisici, di affetto e di scontro, finisce per annacquarsi  in incontri periodici o risolversi in telefonate quasi di cortesia: ciao come stai, cosa hai fatto oggi, hai mangiato, sei andato dal medico. Non so se sia giusto, e se sia giusto chiederselo. A volte è la vita, con tutti i suoi annessi e connessi, a chiederti conto e puoi ritenerti già fortunato se riesci a seguirne il corso che ti sei scelto. L’importante, in fondo, è che tutti stiano bene. Certo la lontananza fa perdere tanti aspetti, tanti piccoli gesti, che se non stupiscono quando a posteriori te li raccontano, perché rientrano nel carattere, nel modo di stare al mondo di una persona, nondimeno stringono il cuore, addolciscono il ricordo, danno il senso di un’appartenenza, ideale e di valori. Mia sorella ed io non abbiamo avuto figli e i miei genitori hanno finito per fare i nonni di tutti i bambini del condominio, bambini extracomunitari peraltro ( poi spiego il senso dell’avverbio), perché la crisi dell’industria tessile sulla quale si reggeva l’economia del paese, aveva finito per far emigrare tante famiglie, accogliendo negli appartamenti liberi i rifugiati delle guerre nell’ex jugoslavia e in albania. Il peraltro è riferito al fatto che mi son sempre chiesto (e  lo stesso faceva anche mio padre) come questi bambini, e i loro genitori, riuscissero a interloquire con mia madre, che parla quasi esclusivamente dialetto. Ma forse la risposta è molto più semplice di quanto si possa pensare: la comprensione viaggia su canali dove la verbalizzazione è una delle possibilità e in alcuni casi nemmeno la più importante o la prioritaria. Resta il fatto che questi bambini, e queste donne, hanno imparato i rudimenti dell’italiano, lingua non certo facile, dialogando con mia madre. E questo ha del miracoloso. Che i miei si fossero mostrati solidali con queste persone non mi ha stupito, come dice Alda Merini, “… l’amore della povera gente brilla più di una qualsiasi filosofia. Un povero ti dà tutto e non ti rinfaccia mai la tua vigliaccheria”. Il piatto di minestra, la verdura dell’orto, la legna per la stufa, i vestitini per i bambini e i regali a Natale o a Santa Lucia. Non sapevo però, me l’ha raccontato proprio mia mamma poco tempo fa,  che mio padre per un periodo si è alzato alle 4 del mattino per accompagnare due ragazzi kossovari che avevano trovato lavoro in un cantiere a 20 chilometri. Non avevano l’auto e papà pensava che quel posto fosse un’opportunità che non potevano lasciarsi scappare, per mantenere la famiglia, per rialzare la testa, per rifarsi una vita in un paese lontano e non sempre solidale. E lui, papà, non ha esitato. Accettatelo quel lavoro, vi porto io al cantiere, almeno finché non trovate un’altra soluzione.

sabato 21 maggio 2016

Riccardo ed Ezetelia

Il soldato tedesco addetto alla stazione radiotrasmittente le dichiarò il suo amore, ma Ezetelia disse di no.  Del resto come avrebbe potuto sposare un nazista, lei che nascondeva i partigiani in casa e che aveva ancora negli occhi il carro con decine di corpi trucidati passare per l'unica strada del paese? Alcuni anni dopo la fine della guerra Ezetelia sposò invece Riccardo, tornato miracolosamente dall'inferno di ghiaccio della Russia. Da allora sono sempre rimasti a vivere in provincia di Vicenza. Hanno avuto una bella vita, Ezetelia e Riccardo. Lei casalinga, lui operaio in un lanificio fino alla pensione. Quattro figli e un buon numero di nipoti. D'accordo su tutto, meno che su una cosa. Ezetelia era sempre pronta a raccontare l'orrore della guerra, Riccardo no: da quando aveva rimesso piede in Patria non ne aveva più voluto sapere. L'unica a rompere questo muro di silenzio e dolore, una decina d'anni fa, è stata una nipote, insegnante di una scuola media. E Riccardo ha iniziato a parlare e i ragazzi ad ascoltare, imparare e commuoversi. Alcune settimane fa Riccardo ed Ezetelia hanno festeggiato i 65 anni di amore. A distanza di qualche giorno Riccardo è stato ricoverato in ospedale. Era lì quando Ezetelia è mancata. Nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo. Riccardo non sapeva, ma è morto il pomeriggio dello stesso giorno.
E' una piccola storia di provincia che ho letto stamattina su una vecchia copia di un settimanale e mi ha commosso. L'ho solo scritta con parole mie.

venerdì 20 maggio 2016

Marco, il disobbediente


Marco Pannella ha diviso molto, perché ha quasi sempre sollevato argomenti sensibili che mettevano in discussione il Truman show sceneggiato da chi deteneva il potere. Un disobbediente, come titola il Manifesto, con il quale personalmente non sono sempre stato d’accordo ma a cui va dato il merito di aver promosso battaglie dirimenti e guidato trasformazioni storiche di questa società. Mi piace ricordarlo con le parole che Luciana Castellina ha utilizzato per salutarlo nell’ultima parte del suo pezzo di oggi



(…) una vita assieme e però mai d’accordo. Eppure mai nemici davvero, anzi, umanamente amici: con Emma in particolare, ma anche con l’impossibile Marco.

Io gli ho voluto bene, e credo anche lui me ne volesse. Eravamo sempre contenti quando ci capitava di incontrarci.

Riconosco i suoi meriti per aver reso popolari, di pubblico dominio, problemi su cui nessuna forza politica si è mai impegnata a sufficienza, la questione carceraria innanzitutto.

La sua onestà e la sua cocciuta ostinazione nelle battaglie a favore di cause sacrosante sono una ricchezza politica del nostro tempo.

Se abbiamo molto litigato è perché ci ha diviso una cultura politica che per ognuno di noi era irrinunciabile e l’una dall’altra per molti aspetti distante, ma mai tanto da non vederci, alla fin fine, dalla stessa parte della società. Diversa, per via di una visione della democrazia: come libertà individuale assoluta per lui, il primato del “noi” sull'”io”per me.

Ma santiddio: si è trattato sempre di un confronto politico serio; ed è per questo che ora che è scomparso provo non solo dolore personale, ma anche tristezza politica: per la nostalgia di un tempo in cui noi quasi novantenni abbiamo vissuto, che è stato un tempo bellissimo, perché bellissima è la politica. Quando è veramente politica. Lo è quando ognuno avverte il dovere, la responsabilità, di impegnarsi a rendere il mondo migliore.

Marco Pannella va ricordato per questo; ed è molto.



 

giovedì 28 aprile 2016

Ci chiamavamo compagni

Il 28 aprile 1971 usciva in edicola Il Manifesto. Per celebrare questi 45 anni copio il primo editoriale di Luigi Pintor che spiega perché allora aveva senso un quotidiano comunista, come veniva rimarcato fieramente in testata. La prosa oggi può fare un po' sorridere, un po' meno l'analisi politica di un mondo che è sicuramente cambiato in superficie, ma che ha mantenuto se non allargato le diseguaglianze, mettendo all’angolo la speranza e pregiudicando il futuro.
L’ultimo articolo di Pintor si chiudeva invece così: “Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste”,
Luigi Pintor morirà poco dopo, il 17 maggio 2003. Sono passati 13 anni da allora. Siamo ancora fermi lì.


Un giornale comunista


Luigi Pintor

28 aprile 1971
Molti ci hanno domandato in queste settimane a volte con simpatia, altre volte con astio: ma perché fate un giornale quotidiano? Come pensate di riuscirci? E a che cosa potrà servire?
Una nostra risposta a queste domande, ormai, sarebbe inutile e pedante. Una risposta seria potrà venire solo dalla vita stessa di queste quattro pagine, che da oggi non sono più un’idea ma una realtà esposta al giudizio di tutti.
Ma le intenzioni che ci hanno mosso, ad ogni modo, non sono un mistero.
Sono le stesse intenzioni che ci hanno spinto, trenta anni fa, a rompere con la tradizione borghese che ci aveva regalato il fascismo e la guerra. Sono le stesse che ci hanno animato nella lunga milizia nel partito e nella stampa comunista per la rivoluzione italiana.
Sono le stesse che ci hanno fatto vedere nella ribellione operaia e studentesca di questi anni una nuova occasione storica per l’avanzata del comunismo.
C’è chi ama la società in cui viviamo perché è al decimo posto nella produzione industriale mondiale.
Per noi, è una società impastata di sfruttamento e di diseguaglianza, di cui sono vittime milioni di operai di fabbrica, le popolazioni meridionali prive di speranza, le giovani generazioni senza avvenire.
C’è chi giudica democratico lo stato che abbiamo, solo perché non è fascista e non ha cancellato le libertà formali.
Per noi, è uno stato fondato su leggi e strutture repressive dove polizia e istituzioni, scuola e cultura ufficiale, forze politiche e maggioranze al potere, sono modellate per colpire o ingannare gli sfruttati e gli esclusi.
O ancora c’è chi vive a suo agio nel mondo contemporaneo, giudicandolo passabilmente pacifico.
Per noi è invece un mondo odiosamente segnato dal genocidio imperialista, che solo un rilancio del processo rivoluzionario mondiale può mutare.
Se dunque questo giornale dovesse soltanto servire a una protesta, a una battaglia ideale contro l’ordine di cose esistente, già questa non sarebbe una fatica sprecata. In fondo la stampa operaia ha sempre avuto prima di tutto questa funzione: di stabilire una linea di demarcazione, con animo che Gramsci chiamava partigiano, tra chi è contro l’ordine costituito e chi in esso si adagia.
Ma questo non potrebbe bastare.
Il quadro politico che abbiamo oggi di fronte esige molto più di un rifiuto.
E’ aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio per un intero periodo storico. Se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo, ora, questo giornale.
Tutti ci accorgiamo, ogni giorno, di nuovi pericoli incombenti, di cui la ripresa del teppismo fascista è solo un sintomo. Padroni e governo Agnelli e Colombo, democristiani e presunti socialisti, moltiplicano gli sforzi per chiudere in gabbia il movimento delle masse, intrecciando repressione ed elemosine.
L’imperialismo americano regola il nostro destino, secondo le leggi della divisione del mondo in sfere di influenza.
Il quadro europeo che ci sta attorno è oscurato, come mai nel dopoguerra, dall’involuzione delle società dell’est e dall’azione controrivoluzionaria dei gruppi che vi esercitano il potere.
E sulle grandi organizzazioni del movimento operaio pesa l’antica illusione del riformismo, l’illusione maledetta che cinquant’anni fa condusse a una tragica sconfitta.
Ma anche ci accorgiamo ogni giorno delle grandi possibilità di riscossa esistenti.
Si è da poco celebrata la ricorrenza di una gloriosa insurrezione armata che non ebbe solo una ispirazione antifascista, ma un’ispirazione anticapitalista e rivoluzionaria che ha formato la nostra generazione ed è tuttora viva nella coscienza di grandi masse.
Abbiamo alle spalle un decennio straordinario di offensiva operaia e di rivolta giovanile, che ha dimostrato come le fortezze dell’occidente possono essere prese d’assalto e scosse nelle fondamenta. Ancora oggi duecentomila operai del più grande complesso produttivo nazionale riscendono in lotta contro il vero nemico, contro l’organizzazione capitalistica del lavoro e del consumo. Su scala mondiale, lo scontro di classe non cede il passo né alla ferocia della guerra imperialista né alle insidie della diplomazia delle grandi potenze, e anzi ritrova nuovo alimento nella crescita della rivoluzione cinese.
In questa situazione, noi pensiamo che l’orientamento delle grandi organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia, e per un altro verso i limiti e le divisioni dei gruppi della sinistra, non ridanno la forza necessaria a una prospettiva socialista, e neppure lasciano sperare in un esito vittorioso dello scontro in atto.
Siamo convinti che c’è bisogno e urgenza di una forza rivoluzionaria rinnovata, di un nuovo schieramento, di una nuova unità della sinistra di classe, di un nuovo orientamento strategico complessivo.
Pensiamo che solo per questa via sarà possibile mettere a frutto il patrimonio che le esperienze del passato e del presente hanno accumulato. Perciò ci siamo costituiti in gruppo politico, perciò vogliamo dar vita – con tutte le forze disponibili ma anche con le sole nostre forze – a un movimento politico organizzato come tappa di un processo più generale.
Questo è il nostro programma, e non ci sfiora l’idea che un foglio stampato possa supplire a questo lavoro di costruzione politica.
Ma se questo giornale potrà favorire e accelerare un tale lavoro, offrire uno strumento di conoscenza, di intervento, di mobilitazione, segnare una presenza e stabilire un punto fermo già in questa fase cruciale dello scontro di classe, allora la sua ragione d’essere e la sua verità saranno chiare.
Questo è tutto.
Ed è qualcosa che appare a noi così essenziale che nessun limite, nessun ostacolo e nessun rischio ci è sembrato proibitivo.
Perciò usciamo con solo quattro pagine, senza null’altro che un notiziario politico, senza abbellimenti o manipolazioni, nella persuasione che uno sforzo di semplicità e di chiarezza può valere più di tutto il resto.
Perciò usciamo senza altro denaro che quello che ci è venuto e ci verrà dai compagni e dai lettori, dai quali interamente dipende la vita o la morte di questa impresa.
Perciò ci accontentiamo di forze limitate e inesperte, ma fino in fondo disinteressate e impegnate, scontando difetti e lacune certe.
In fin dei conti, non ci affidiamo ad altro che a un lavoro collettivo: a una passione militante: a ciò che molti chiamano utopia estremismo e noi fiducia nelle masse e tranquilla coscienza: al sostegno di chiunque riconoscerà in queste pagine un impegno comunista e questo impegno vorrà condividere.