Di seguito lo stralcio più significativo di un lungo articolo di Mike Davis sulla pandemia suina pubblicato il 1° maggio dal Manifesto
(…) Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni dei commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare lavoratori e animali.Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati sul campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie. Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all'oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell'epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo».
Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione. Sei anni fa Science aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che «dopo anni di stabilità, il virus nord-americano dell'influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione».Dalla sua identificazione all'inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l'inferno. Una varietà altamente patogena ha cominciato a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del Nord, e nuove virulente versioni hanno iniziato ad apparire quasi ogni anno, inclusa un'insolita variante dell' H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l'altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani). Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un'influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l'influenza suina. Quell'ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.Ma cosa ha provocato l'accelerazione di questa evoluzione dell'influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell'influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale - un'ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici - sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli «spostamenti» stagionali sia dei «cambiamenti» episodici del genoma (più raramente può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l'H5N1 nel 1997).Ma l'industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull'evoluzione dell'influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all'industria petrolchimica che all'allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola. Nel 1965, ad esempio, c'erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie. Oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture - la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie.Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah - dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica - capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l'agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo». La commissione ha anche avvertito che l'uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l'aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di Escherichia Coli e Pfisteria (l'apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina e fece ammalare decine di pescatori).Tuttavia ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell'allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall'ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporation, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori. Inoltre questa è un'industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell'espansione dell'influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l'epidemiologia forense dell'esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell'industria delle costolette.Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c'è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell'influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz. Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato.
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lunedì 4 maggio 2009
martedì 28 aprile 2009
Verità di stampa
Giorni fa un importante esponente del parlamento europeo ha sostenuto che la vera nascita dell’Europa ci sarà solo quando, di Europa, ne parleranno i giornali. Non l’ho sentito personalmente, me l’ha raccontato una collega che era presente al dibattito. In effetti, a poche settimane dal rinnovo dell'emiciclo di Strasburgo, non c'è granchè consapevolezza generalizzata sul ruolo e sulle effettive competenze dei membri che andranno a comporlo, e sull'istituzione in sè. Ci ho ripensato leggendo il commento di Norma Rangeri all’ultima puntata di Annozero. Lo spunto l'ha offerto Sandro Ruotolo, inviato a Lampedusa, da dove ha proposto le immagini girate all'interno del mercantile che qualche giorno prima aveva raccolto i naufraghi di due barconi, figli di nessuno respinti dall'Italia e da Malta. Scrive Rangeri: “Non sono le riprese di qualche telegiornale italiano, ma il frutto del lavoro di un reporter tedesco. Insieme a un inviato di Repubblica, il giornalista è arrivato alla nave con un gommone e ha acceso la telecamera per documentare la drammatica situazione. Immagini di ordinaria sofferenza, gli immigrati stesi come un tappeto umano, mancanza di acqua, la ragazza incinta morta. La domanda di Ruotolo è semplice: «Se li avessimo visti subito, se i tg avessero mandato in onda questi volti, le autorità italiane li avrebbero lasciati in mezzo al mare per cinque giorni prima di intervenire con i soccorsi e portarli a Lampedusa?». No, lo dimostra il fatto che appena i due giornalisti si sono mossi, sono arrivati anche i soccorsi e la decisione della Farnesina di accoglierli. Segue una seconda domanda: come mai i nostri tg non hanno battuto sul tempo il reporter tedesco? Qui si entra nel merito della penosa condizione in cui è costretta l'informazione del sistema televisivo italiano: in mancanza di una concorrenza interna, lo scatto giornalistico si allenta, sono tutti più tranquilli e rilassati. Per rompere la routine deve venire uno dall'esterno. In più, gli immigrati sono finiti in mezzo al mare in un momento sbagliato, quando la tv aveva già la sua dose di dolore quotidiano con il terremoto. E in generale, i clandestini, come diceva Gad Lerner (anche lui a Lampedusa), non devono diventare persone, meglio se restano numeri, statistiche, problema di sicurezza nazionale. Non appena fai vedere le loro facce oltre a quelle degli abitanti dell'isola (Annozero ha mostrato il funerale della ragazza morta, con una silenziosa folla di lampedusani che portava fiori al cimitero), rischi che il telespettatore simpatizzi con questo popolo di disperati in fuga”.
giovedì 9 aprile 2009
Il marketing dei morti
In Abruzzo si continua a scavare nella speranza di non dover aggiungere altri nomi alle oltre 270 vittime accertate, ma chissà quanti clandestini rimarranno senza identità anche da cadaveri.
Di fronte a questa tragedia, la Rai trova modo di baloccarsi sui record d’ascolto dei Tg, delle trasmissioni d’approfondimento e persino del contatti al sito internet, rubando minuti in video con cifre e dati esultanti che stridono con quelli dei danni, dei senza tetto, di chi ha perso tutto. Non solo, c’è anche chi riprende e rilancia i comunicati dell’azienda facendo un pastone di tutto: terremoto, il commissario rex, la partita di Coppa dei Campioni. In alcuni momenti, forse, sarebbe meglio fermarsi, fare un passo indietro e uscire dalla competizione e dalle logiche di marketing. Hai vinto? Va bene. Stavolta tienitelo per te: ci fai più bella figura.
RAI: OTTIMI ASCOLTI PER TG1, "PORTA A PORTA" E REX
(AGI) - Roma, 9 apr. - Anche ieri, mercoledi' 8 aprile, l'informazione sul terremoto in Abruzzo e' stata molto seguita: il TG1 delle 7.00 e' stato visto da 1 milione 568 mila spettatori e uno share del 40.31; quello delle 13.30 ha raggiunto 5 milioni 252 mila con il 31.69. L'edizione delle 20.00 ha ottenuto 7 milioni 359 mila con il 31.59. Ottimi ascolti in seconda serata per "Porta a porta" con collegamenti in diretta e ospiti in studio che ha registrato 1 milione 948 mila spettatori e il 18.05 di share. Molto seguite anche le varie edizioni del TG2, come quella delle 13.00 che ha totalizzato 3 milioni 413 mila spettatori e uno share del 22.00. Su Raitre alle 7.30 "Buongiorno Regione" ha registrato il 12.34 di share; l'edizione della TGR delle 14.00 e' stata vista da 3 milioni 16 mila spettatori e uno share del 19.22, mentre quella delle 19.35 ha fatto registrare 3 milioni 21 mila e il 16.16. La serata televisiva su Raiuno prevedeva 2 episodi del telefilm "Rex": il primo ha realizzato 4 milioni 623 mila spettatori e uno share del 16.46 e il secondo 4 milioni 102 mila e il 16.32. Su Raidue l'andata del quarto di finale di Coppa dei Campioni tra Barcellona e Bayern Monaco ha realizzato 2 milioni 758 mila spettatori e il 10.11 di share. Su Raitre il programma di servizio "Chi l'ha visto?" ha registrato 2 milioni 314 mila spettatori con il 9.35 di share. Bene nel pomeriggio di Raiuno la seconda parte di "Festa italiana" con 1 milione 947 mila spettatori e uno share del 20.45 e a seguire "La vita in diretta" sia nella prima parte con 2 milioni 206 mila e il 27.55 che nella seconda con 2 milioni 324 mila e il 25.88. (AGI) Red
Di fronte a questa tragedia, la Rai trova modo di baloccarsi sui record d’ascolto dei Tg, delle trasmissioni d’approfondimento e persino del contatti al sito internet, rubando minuti in video con cifre e dati esultanti che stridono con quelli dei danni, dei senza tetto, di chi ha perso tutto. Non solo, c’è anche chi riprende e rilancia i comunicati dell’azienda facendo un pastone di tutto: terremoto, il commissario rex, la partita di Coppa dei Campioni. In alcuni momenti, forse, sarebbe meglio fermarsi, fare un passo indietro e uscire dalla competizione e dalle logiche di marketing. Hai vinto? Va bene. Stavolta tienitelo per te: ci fai più bella figura.
RAI: OTTIMI ASCOLTI PER TG1, "PORTA A PORTA" E REX
(AGI) - Roma, 9 apr. - Anche ieri, mercoledi' 8 aprile, l'informazione sul terremoto in Abruzzo e' stata molto seguita: il TG1 delle 7.00 e' stato visto da 1 milione 568 mila spettatori e uno share del 40.31; quello delle 13.30 ha raggiunto 5 milioni 252 mila con il 31.69. L'edizione delle 20.00 ha ottenuto 7 milioni 359 mila con il 31.59. Ottimi ascolti in seconda serata per "Porta a porta" con collegamenti in diretta e ospiti in studio che ha registrato 1 milione 948 mila spettatori e il 18.05 di share. Molto seguite anche le varie edizioni del TG2, come quella delle 13.00 che ha totalizzato 3 milioni 413 mila spettatori e uno share del 22.00. Su Raitre alle 7.30 "Buongiorno Regione" ha registrato il 12.34 di share; l'edizione della TGR delle 14.00 e' stata vista da 3 milioni 16 mila spettatori e uno share del 19.22, mentre quella delle 19.35 ha fatto registrare 3 milioni 21 mila e il 16.16. La serata televisiva su Raiuno prevedeva 2 episodi del telefilm "Rex": il primo ha realizzato 4 milioni 623 mila spettatori e uno share del 16.46 e il secondo 4 milioni 102 mila e il 16.32. Su Raidue l'andata del quarto di finale di Coppa dei Campioni tra Barcellona e Bayern Monaco ha realizzato 2 milioni 758 mila spettatori e il 10.11 di share. Su Raitre il programma di servizio "Chi l'ha visto?" ha registrato 2 milioni 314 mila spettatori con il 9.35 di share. Bene nel pomeriggio di Raiuno la seconda parte di "Festa italiana" con 1 milione 947 mila spettatori e uno share del 20.45 e a seguire "La vita in diretta" sia nella prima parte con 2 milioni 206 mila e il 27.55 che nella seconda con 2 milioni 324 mila e il 25.88. (AGI) Red
lunedì 6 aprile 2009
I questuanti del Suv
Quando fai il cronista di nera è quasi naturale frequentare professionalmente carabinieri e poliziotti. Come accade nella vita, con qualcuno nasce una simpatia: reciproca, a pelle, che rientra in quell’alchimia difficile da spiegare che porta naturalmente a fidarsi e abbatte le barriere, ideologiche e di appartenenza. Il comandante della stazione dei carabinieri del mio paese d’origine mi era simpatico. E io lo ero a lui. Un giorno, nei primi anni ’90, andai a trovarlo per dirimere una questione personale: alla morte di mio nonno ci trovammo a dover decidere cosa fare di due vecchi fucili da caccia che l’antenato aveva in casa, pur non frequentando da anni. Per ragioni affettive mio padre voleva prenderli in custodia, nonostante anche lui fosse un pentito del tiro al volatile. Per farla breve, portai con me tutto l’incartamento sui fucili e il maresciallo, a sua volta, recuperò da una vecchia carpetta gialla dell’archivio le relative copie. Per la simpatia di cui sopra iniziammo a scherzare su quante informazioni i carabinieri avevano su ogni singolo abitante e su eventuali dossier. Non era uno scherzo. Di noi, nel senso di famiglia, si sapeva per esempio che eravamo comunisti, peraltro nessuno aveva mai fatto nulla per nasconderlo, che in casa si leggeva l’Unità e il Manifesto (anche, aggiunsi io, visto che i nonni avevano una rivendita di giornali e per noi l’accesso a qualsiasi carta istoriata era facilitato) e altre varie amenità su usi e costumi. Ho ripensato a questa storiella leggendo le notizie sulle dichiarazioni dei redditi da indigenti di molti imprenditori italiani. L’Italia è il paese delle 100 città, delle province, delle regioni, delle migliaia di piccoli comuni dove tutti sanno tutto di tutti, peli del culo compresi. Basterebbe mettere in relazione il tenore di vita, le proprietà “alla luce del sole” di ognuno e le relative dichiarazioni dei redditi per fare tana a milioni di evasori fiscali. Non che questo sia compito dei carabinieri, ma una sinergia tra forze dell’ordine fino alla guardia di finanza, potrebbe essere una soluzione.
giovedì 26 marzo 2009
Idratazione all'acqua santa
Sentita questa mattina a Lateral su Radio Capital: in Italia si obbligano i morti a bere e a mangiare e si fanno morire di fame i vivi. Amara ma molto vera. Come amaro ma altrettanto vero il pezzo di Michele Ainis su La stampa.
giovedì 5 marzo 2009
Memorie
A molti della mia generazione e di quella precedente il 4 marzo viene associato immediatamente ad un anno, il ’43. Quattromarzoquarantatre. Come Italiagermaniaquattroatre. Un titolo, un pezzo di storia, in cui ognuno ci mette ciò che crede. A volte è memoria condivisa, altre no. 4 marzo ’43 è il titolo di una delle canzoni più famose di Lucio Dalla, nonché la sua data di nascita. Il 4 marzo è anche il giorno dell’omicidio di Nicola Calipari: un servitore dello stato, un eroe, dissero tutti di fronte alla sua bara avvolta nel tricolore. A distanza di 4 anni questa memoria più che condivisa è ingombrante. Invece la memoria è importante. Un Paese senza memoria oggi permette agli attivisti di Forza Nuova di manifestare e aprire nuove sedi, in barba alla legge Scelba del 23 giugno ‘52 che vieta l’apologia del fascismo. Domani, chissà….
In memoria di Nicola Calipari
di Giuliana Sgrena
Quattro marzo 2005. Quattro anni fa, sembra ieri, oggi ancora più di un anno fa. Quanto clamore aveva suscitato la morte di Nicola Calipari. Un eroe, si diceva, tutti dicevano, quando è tornato da Baghdad chiuso in una bara. Io non credo agli eroi, proprio io, che sono qui grazie a lui. E non solo io.
Quattro marzo 2009. Un silenzio assordante. Chi si ricorda ancora di Nicola Calipari? Medaglia d'oro al valor militare consegnata a Rosa dal presidente della Repubblica, scuole, strade intitolate a lui, tanti riconoscimenti. E oggi? Dove sono finite le personalità, i politici di ogni tendenza che allora lo avevano celebrato?
Quei militanti di sinistra che, come me, noi, avevano scoperto che essere un servitore dello stato non vuol dire essere solo al servizio del potere ma può voler dire anche intervenire in soccorso dei suoi cittadini? Tutti.
Come dimenticare che un processo - che forse non avrebbe fatto conoscere la verità su quanto successo il 4 marzo 2005 a Baghdad ma almeno avrebbe potuto provarci - è finito nel nulla senza che nessuno protestasse? Eppure, ancora una volta, l'Italia ha rinunciato alla sua giurisdizione, anche di fronte all'assassinio di un suo cittadino celebrato come un eroe. Una sovranità sacrificata in nome dei rapporti con gli Usa di Bush. Con Obama sarebbe stato diverso? Forse, ma è troppo tardi per saperlo. Da noi i governi sono cambiati ma nessuno ha fatto un gesto per avere il processo, per chiedere a Mario Lozano perché nelle varie interviste a giornalisti poco reattivi ha parlato di quella di Calipari come «una missione suicida», per chiedergli perché «in Italia era minacciato», da chi? Negli Usa, un gruppo di avvocati di Los Angeles ha promosso un'azione giudiziaria per chiedere le regole di ingaggio in vigore in tre azioni militari degli americani in Iraq, una è quella che ha visto l'uccisione di Calipari. Il giudice ha riconosciuto la validità della richiesta, il Pentagono non ha ancora risposto, ma forse lo farà. Forse in questo caso il nuovo corso di Obama avrà qualche effetto.
Ma l'Italia, come gli Usa, ha archiviato il caso Calipari. L'Italia è diventato un paese senza memoria. Un paese che ogni giorno si arrende di fronte alla demolizione delle fondamenta delle nostre istituzioni nate dalla Resistenza contro il fascismo, come può ricordarsi di un servitore proprio di quello stato democratico.
Eppure non tutti hanno dimenticato Nicola Calipari e non siamo solo noi a ricordarlo. Spesso, girando per l'Italia, in vari incontri mi viene sollecitato il ricordo di Nicola, un ricordo doloroso, da condividere con gli altri, per non permettere l'oblio. Tante persone comuni, quelle che non dimenticano, anche oggi 4 marzo 2009 si ricorderanno i momenti drammatici di quattro anni fa. Non per celebrare un eroe - per gli eroi ci sono le medaglie - ma per un uomo perbene, uno che come noi difendeva gli stessi valori.
In memoria di Nicola Calipari
di Giuliana Sgrena
Quattro marzo 2005. Quattro anni fa, sembra ieri, oggi ancora più di un anno fa. Quanto clamore aveva suscitato la morte di Nicola Calipari. Un eroe, si diceva, tutti dicevano, quando è tornato da Baghdad chiuso in una bara. Io non credo agli eroi, proprio io, che sono qui grazie a lui. E non solo io.
Quattro marzo 2009. Un silenzio assordante. Chi si ricorda ancora di Nicola Calipari? Medaglia d'oro al valor militare consegnata a Rosa dal presidente della Repubblica, scuole, strade intitolate a lui, tanti riconoscimenti. E oggi? Dove sono finite le personalità, i politici di ogni tendenza che allora lo avevano celebrato?
Quei militanti di sinistra che, come me, noi, avevano scoperto che essere un servitore dello stato non vuol dire essere solo al servizio del potere ma può voler dire anche intervenire in soccorso dei suoi cittadini? Tutti.
Come dimenticare che un processo - che forse non avrebbe fatto conoscere la verità su quanto successo il 4 marzo 2005 a Baghdad ma almeno avrebbe potuto provarci - è finito nel nulla senza che nessuno protestasse? Eppure, ancora una volta, l'Italia ha rinunciato alla sua giurisdizione, anche di fronte all'assassinio di un suo cittadino celebrato come un eroe. Una sovranità sacrificata in nome dei rapporti con gli Usa di Bush. Con Obama sarebbe stato diverso? Forse, ma è troppo tardi per saperlo. Da noi i governi sono cambiati ma nessuno ha fatto un gesto per avere il processo, per chiedere a Mario Lozano perché nelle varie interviste a giornalisti poco reattivi ha parlato di quella di Calipari come «una missione suicida», per chiedergli perché «in Italia era minacciato», da chi? Negli Usa, un gruppo di avvocati di Los Angeles ha promosso un'azione giudiziaria per chiedere le regole di ingaggio in vigore in tre azioni militari degli americani in Iraq, una è quella che ha visto l'uccisione di Calipari. Il giudice ha riconosciuto la validità della richiesta, il Pentagono non ha ancora risposto, ma forse lo farà. Forse in questo caso il nuovo corso di Obama avrà qualche effetto.
Ma l'Italia, come gli Usa, ha archiviato il caso Calipari. L'Italia è diventato un paese senza memoria. Un paese che ogni giorno si arrende di fronte alla demolizione delle fondamenta delle nostre istituzioni nate dalla Resistenza contro il fascismo, come può ricordarsi di un servitore proprio di quello stato democratico.
Eppure non tutti hanno dimenticato Nicola Calipari e non siamo solo noi a ricordarlo. Spesso, girando per l'Italia, in vari incontri mi viene sollecitato il ricordo di Nicola, un ricordo doloroso, da condividere con gli altri, per non permettere l'oblio. Tante persone comuni, quelle che non dimenticano, anche oggi 4 marzo 2009 si ricorderanno i momenti drammatici di quattro anni fa. Non per celebrare un eroe - per gli eroi ci sono le medaglie - ma per un uomo perbene, uno che come noi difendeva gli stessi valori.
lunedì 2 marzo 2009
Merde
Giuseppe Garrone, professore di liceo in pensione, segretario del Comitato Verità e Vita, è una merda.
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