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venerdì 13 luglio 2007

Ode alla BIC

E’ stata la mia prima penna in assoluto: una bic con l’inchiostro nero. Anzi due bic, che mio padre mi portò a casa una sera piovosa di un tardo autunno. Proprio quel giorno la maestra, poco prima del suono della campanella, aveva pronunciato le parole che tutti noi bambini della 1° A aspettavamo da tempo: da domani iniziamo a scrivere con la penna. Mi raccomando, portate una penna normale, una bic. Niente stilografiche, disse la maestra Laura: macchiano il quaderno. Dentro di me probabilmente feci la ola. E con me credo la maggior parte dei miei compagni. Da domani scriviamo con la penna, fu il coro all’uscita da scuola: ai genitori in attesa, ai compagni dell’altra prima, che invece non avevano avuto ancora il via libera. Del resto loro erano la B. Vorrà pur dire qualcosa se nell’alfabeto la B viene dopo la A, pensai bastardamente: bastardo come solo i bambini sanno essere. Allora passare dalla matita alla penna rappresentava un momento di crescita, una svolta nella vita: un po’ come quando all’asilo si passa dai mezzani ai grandi. Per il mondo che ti gira intorno non cambia nulla: sei bello, brutto, stronzo, simpatico esattamente come il giorno prima. Ma tu… tu cammini in maniera diversa, come a dire: non vedi, adesso sono tra i grandi, non sono più mezzano. Assumi anche una postura e uno sguardo diversi. Da grande: come fai a non vedere? Lui è un mezzano. Una specie di nonnismo ante litteram, via.
Prima che mi dimentichi, meglio mettere delle date. Siamo sì nel secolo scorso, ma ampiamente nella seconda metà. Anno del Signore 1970, 6 anni appena compiuti, scuola elementare comunale (paese operaio, non c’era stato tempo di dedicarla a qualcuno: meglio così). 1° A. All’epoca la scuola iniziava il 1° ottobre e il 4 si era già a casa: San Francesco, patrono d’Italia, almeno credo. Non ho mai avuto dimestichezza con i Santi. A casa del resto campeggiava una foto di Luciano Lama, leader assoluto della CGIL, che premiava mia zia con una medaglia d’oro (per il lavoro, non al valore: e anche questo per me continua a fare la differenza) e a casa del nonno c’era un quadro di Lenin. La cicogna mi aveva mollato lì, probabilmente gli avevo rotto i coglioni, non lo so: sta di fatto che la famiglia non te la scegli e almeno all’inizio l’aria che respiri è quella che passa il convento. C’è chi sulla parete ha Padre Pio o la Madonna, chi ha Luciano Lama e Vladimir Il’ic Ul’janov detto Lenin. Magari solo per questioni di pancia: perché è vuota, o perché gli girano a giostra i santissimi, che sono altro da quelli del calendario. Devo dire che tutto sommato non mi è andata malaccio. Sta di fatto che il 4 ottobre si stava a casa, il che voleva dire giocare in cortile tutto il giorno. Che santo fosse (quello del calendario) per noi bambini era un dettaglio. Bastardi? Probabilmente sì, ma a volte i più piccoli scoprono istintivamente verità su cui i grandi perdono tempo a farsi uno sproposito di seghe mentali. Per farla breve, il 1° ottobre si entra in classe. Si saluta la maestra, che mette subito le cose in chiaro: per i prossimi 5 anni (si spera: con me in 1° c’erano tre ripetenti), da ottobre a giugno, passeremo tutte le nostre mattine con lei. Qualcuno ricordo iniziò a piangere. Io valutai: meglio stare a casa con la zia (a cui ho voluto un bene dell’anima) o con questa signora, che peraltro mi sembrava una brava crista, e con tutti questi bambini? Non è che avessi alternative, ma il mio personale referendum ottenne un quorum del 100% e la maggioranza assoluta, cioè io, votò per la seconda ipotesi. Fu così che presi posto e finita la pioggia di lacrime e di moci dal naso da abbandono, tutti insieme, 22 bambini equamente distribuiti tra maschi e femmine, aprimmo il primo quaderno a quadretti ufficiale della nostra nuova vita scolastica. E la nostra manina vergine provò a governare ufficialmente una matita. Iniziammo mettendo in fila le lettere dell’alfabeto. Mettere in fila non è forse l’immagine più adatta, ma l’idea era quella. In ogni caso anche quello fu un momento critico: qualcuno riprese a piangere e il moto ondoso lacrimale, unito al solito mocio e al nero della matita, andò a creare strani effetti sulla pagina bianca. E’ la scuola, bellezza, pensai: bisogna avere pazienza.
Da domani scriviamo con la penna. Arrivai a casa con questa notizia straordinaria, con l’aria di chi si aspetta un plauso: figlio mio, sono fiero di te. Devo dire che il mio entusiasmo non venne ripagato come immaginavo ma tutto sommato non furono nemmeno delle merde e vissi bene quella giornata di passaggio. Solo che passavano le ore e nessuno accennava ad andare a comprarmi una penna: quelle di casa erano di casa, sponsorizzate da bibite o da mobilifici e tappezzieri vari. La maestra era stata chiara: una bic nera. Quando ormai avevo perso la speranza e già mi vedevo entrare in classe sconsolato, a testa bassa, trascinando la cartella, l’unico di 22 bambini a non avere la sua bic nera, arrivò mio padre e con gesto solenne mi consegnò la mia penna. Anzi, dalla tasca della giacca ne tirò fuori anche un’altra: due bic nere. Salvo. Da allora la bic è sempre stata la mia penna. Per ragioni di cuore, sicuramente, ma anche perché difficilmente ti tradisce, smettendo di funzionare nel momento meno opportuno. Vedi quando finisce l’inchiostro e poi, poi scrive anche se ti capita di sudare il foglio con la mano. Nel tempo sono passato dalla nera alla rossa, un po’ per ragioni politiche, un po’ perché mi piace vedere le parole di quel colore: è più fricchettone, meno austero, istituzionale. Se dovessi umanizzare la bic, quella nera me la immagino che si presenta in società alta, elegante, con il vestito lungo (nero, ovviamente). La bic blu mi dà l’idea del Monello di Charlot, camicia di fuori e berretto storto. La rossa… la rossa non voglio immaginarla, perché oggi mi farei del male.
Oggi raramente scrivo con la bic. Ma la penna rimane idealmente il mio strumento di lavoro. Quella con cui ho potuto trasformare in professione la mia passione più grande. Mi dispiace solo di una cosa. Non averlo detto a mio padre. Non avergli detto che forse quella bic ha segnato la mia vita e che un po’ di merito ce l’ha anche lui. Non foss’altro perché è andato a comprarla.

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