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mercoledì 25 marzo 2015

A Campiglio la Madonna non c'era

Il 5 giugno del 1999 a Campiglio la Madonna non c’era, e se c'era guardava da un’altra parte. Quel giorno Marco Pantani si stava preparando alla passerella di Milano: ancora una tappa e il Giro d'Italia sarebbe stato suo per la seconda volta. Qualcuno però aveva previsto che quella storia, bella, entusiasmante, eroica, avesse un altro finale. Anzi, l'aveva già scritto. La mattina del 5 giugno invece di uscire dall’albergo in maglia rosa, Marco Pantani esce circondato dai carabinieri. Tanti carabinieri. Neanche fosse un mafioso. Cosa ha fatto il Pirata, l’idolo, il mito di chi ama il ciclismo? Ha forse stuprato una cameriera? No, in uno dei controlli a sorpresa disposti dalla federazione - talmente a sorpresa che la sera prima tutti sapevano, tanto che al mattino Pantani ritarda addirittura la colazione in attesa degli addetti al prelievo, persi per strada – in uno di questi controlli, dicevo, a Marco Pantani trovano l’ematocrito fuori dalla norma. Il regolamento della federazione ciclistica dice che in caso di supero dei parametri stabiliti, l’atleta deve essere fermato, a salvaguardia della sua salute. Significa che l’uomo corre un pericolo e per questo va tutelato. Come? A buon senso uno si aspetta che Pantani venga trattenuto in stanza, accompagnato in ospedale, di vedere fuori all’albergo un’ambulanza. Invece ci sono le gazzelle dei carabinieri. E le telecamere. Marco cos’hai da dire ai tuoi tifosi? Che domanda del cazzo è? Eppure gliela fanno. Perché in quel momento Pantani diventa il dopato, il drogato, l’uomo da sputare. L’ematocrito alto per la vulgata significa che sono state assunte sostanze dopanti. Non gli viene concesso nemmeno il beneficio del dubbio. Probabilmente è lì che Marco Pantani inizia a morire. Sicuramente è l’inizio della fine di un uomo che era salito talmente in alto che la sua caduta era diventata paradossalmente più vantaggiosa economicamente di qualsiasi vittoria. E se chi gestisce questi interessi, personaggi a cui l’etica, la stessa vita, importa una sega, si trova a fianco il silenzio pilatesco o la connivenza silenziosa delle istituzioni, non c’è partita. Marco Pantani non doveva finire quel giro d’Italia. Lo sanno anche nell'ambiente, perchè il PIrata è diventato un capopopolo che si batte per i diritti del gruppo e i capipopolo a chi comanda non piacciono. Lo sa addirittura un malavitoso napoletano che lo dice in carcere a Renato Vallanzasca: se hai dei soldi giocateli ma non su Pantani. Perché il pelatino verrà fermato, gli dice: non sa come ma è certo che sarà così. Vallanzasca cercherà di dirlo ai giudici. Lo scriverà in una lettera anche a mamma Tonina. Ma può essere credibile uno come Vallanzasca? Ovviamente no. Il delatore del povero Enzo Tortora, che era notoriamente un uomo specchiato, sì. Il bel Renè no. Questa è comunque solo una delle tante note stonate di una vicenda che ha voluto trovare a tutti i costi un capro espiatorio, che ha sacrificato sull’altare dell’ipocrisia un giovane uomo che aveva il torto di andare più forte degli altri. E in Italia chi è bravo all'inizio piace. Tanto, anche. Per un po’. Poi rompe i coglioni. Perché mette ancora più in evidenza la mediocrità degli altri. E questo non va bene. E più uno è bravo e più deve cadere in maniera ignominiosa per soddisfare l’affronto e per permettere al coro di avere ancora erezioni. La storia di Pantani è piena di misteri. Marco Martinelli ha provato a portarla a teatro e nelle tre ore e passa di spettacolo, intitolato semplicemente "Pantani", la racconta bene, lasciando al termine una senso di disagio e di impotenza. L'Italia esige e vive di eroi. Ma non sa difenderli. Peggio: non vuole.

martedì 17 marzo 2015

Atti osceni in luogo privato

Antonio D’Orrico su Sette usa toni entusiastici nei suoi confronti. Marco Belpoliti (L’Espresso) definisce il suo romanzo uno dei più belli delle ultime stagioni. Un endorsement gli arriva anche da Emmanuel Carrere, genio della letteratura francese. E ditemi se è poco. Marco Missiroli è a mio modo di vedere uno tra i più interessanti scrittori italiani. Atti osceni in luogo privato è un romanzo di crescita, sentimentale, erotica, culturale; è un romanzo di perdita, di grandi passioni e di grandi dolori, di donne soprattutto, come punto di riferimento e come salvezza, che è libertà di continuare a stupirsi e, in un certo senso, di esistere.

Il sunto lo prendo da Libreriamo, mentre l’intervista a Missiroli è dell’Arena.

“Questa è una storia che comincia una sera a cena, quando Libero Marsell, dodicenne, intuisce come si può imparare ad amare. La famiglia si è da poco trasferita a Parigi. La madre ha iniziato a tradire il padre. Questa è la storia, raccontata in prima persona, di quel dodicenne che da allora si affaccia nel mondo guidato dalla luce cristallina del suo nome. Si muove come una sonda dentro la separazione dei genitori, dentro il grande teatro dell’immaginazione onanistica, dentro il misterioso mondo degli adulti. Misura il fascino della madre, gli orizzonti sognatori del padre, il labirinto magico della città. Avverte prima con le antenne dell’infanzia, poi con le urgenze della maturità, il generoso e confidente mondo delle donne. Le Grand Liberò – così lo chiama Marie, bibliotecaria del IV arrondissement, dispensatrice di saggezza, innamorata dei libri e della sua solitudine – è pronto a conoscere la perdita di sé nel sesso e nell’amore. Lunette lo porta sin dove arrivano, insieme alla dedizione, la gelosia e lo strazio. Quando quella passione si strappa, per Libero è tempo di cambiare. Da Parigi a Milano, dallo Straniero di Camus al Deserto dei Tartari di Buzzati, dai Deux Magots, caffè esistenzialista, all’osteria di Giorgio sui Navigli, da Lunette alle “trentun tacche” delle nuove avventure che lo conducono, come un destino di libertà, al sentimento per Anna. Libero Marsell, le Grand Liberò, LiberoSpirito, è un personaggio “totale” che cresce con noi, pagina dopo pagina, leggero come la giovinezza nei film di Truffaut, sensibile come sono sensibili i poeti, guidato dai suoi maestri di vita a scoprire l’oscenità che lo libera dalla dipendenza di ogni frase fatta, di ogni atto dovuto, in nome dello stupore di esistere”.

Da L’Arena

http://www.larena.it/stories/178_interviste/1095993_una_vita_tra_oscenit_e_tumulti_alla_mcenroe/?refresh_ce#scroll=2997



Rimane impresso nella mente, Libero Marsell — le Grand Libero, come chiamano a Parigi il ragazzo italiano che si è trasferito in Francia con la famiglia — protagonista di Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli, 249 pagine, 16 euro) di Marco Missiroli, il riminese trentaquattrenne, già vincitore del Campiello opera prima 2006, e che con questo suo quinto romanzo è stato incoronato dalla critica («habemus un nuovo grande scrittore italiano», Antonio D'Orrico, «Sette» del «Corriere»). Romanzo di formazione, sentimentale ed erotica, ci porta nella vita e nei sentimenti di Libero, che incontriamo dodicenne e che diventa adulto in corso di narrazione, conoscendo il mondo delle donne e leggendo libri fondamentali. Un romanzo che ha la leggerezza dei film di François Truffaut e sensibilità poetica.

L'oscenità come provocazione che libera, in nome dello stupore di esistere. A partire dall'inizio del romanzo: Marco Missiroli, vuole descrivercelo?

Il viaggio del mio protagonista comincia da una ferita: quando, dodicenne, scopre la madre inequivocabilmente inginocchiata di fronte al migliore amico di famiglia. Il ragazzo rimuove la scena, ma si trova a un bivio: rimanere la persona invisibile che è — senza amici, senza particolari passioni — o diventare se stesso, quello che promette il suo nome. Libero. Lo diventerà, seguendo l'istinto erotico (che non è mai di conquista, ma di conoscenza: non mi interessa la carnalità) e attraverso la lettura di libri.

I romanzi da leggere sono in parte consigliati dal padre, che Libero chiama Monsieur Marsell: un genitore distaccato?

No, è amatissimo. Ha chiamato il figlio Libero e cerca di ispirargli un gran senso di libertà. È adorata dal ragazzo anche la madre, che pure gli ha complicato edipicamente la vita, come ho già spiegato. Libero impiegherà tutto il romanzo a capire la figura materna, ma ci riuscirà. Il padre viene a mancare quasi da subito, ma rimane nel libro, importantissimo: è la coscienza morale, politica e sentimentale di Libero.

Qual è l'altro personaggio, oltre ai genitori, che inizia il ragazzo felicemente alla vita?

La bibliotecaria, Marie. È il grande cuore del romanzo. Costituisce il legame tra il protagonista e i lettori. I lettori in generale, anche coloro che non stanno leggendo il mio romanzo. Marie sa educare Libero attraverso i libri: non con testi che hanno solo il compito di acculturarlo, ma con libri che sono, invece, legati al sentimento che lo anima al momento. Dapprima gli consiglia Albert Camus, che folgora il ragazzo: Lo straniero gli comunica il senso di spaesamento e lo invita a rifiutare la freddezza e a meravigliarsi del mondo. Da Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, accoglie l'allarme a evadere dal trantràn. Il poeta Walt Whitman gli insegna l'arte di aspettare e quella della seduzione, come affrontare i lutti e come godere delle piccole gioie, che sono quelle che fanno andare avanti. Ma chi gli entra proprio nella pelle è William Faulkner con Mentre morivo. È il romanzo che lo compenetra durante la perdita della madre. Gli insegna che la morte è anche e soprattutto rigenerazione. Avrebbe dovuto intitolarsi Mentre vivevo perché, in realtà, è un libro sulla vita. Come avevamo deciso per il mio romanzo, in un primo momento, il titolo Mentre amavo. Poi ho preferito Atti osceni in luogo privato.

Libero abita in due città: la Parigi degli anni Settanta, poi la Milano degli Ottanta. Come le vive?

Parigi è la città dell'adolescenza e della primissima giovinezza. È un luogo di sogno. Milano rappresenta la scoperta della consapevolezza, la consistenza dolorosa che lo fa uomo. Per la prima volta Libero si sente nel mondo. A Parigi lascia una ragazza amatissima, la sua prima vera passione, Lunette. Un passaggio difficilissimo, per lui, perché Lunette non va dimenticata, ma introiettata. Avrà una bulimia di donne, prima di incontrare quella giusta: ciascuna importante, mai strumento, perché a me, come ho detto, non interessa il sesso in sè. L'universo femminile rappresenta la vita. Le donne rimettono tutte al mondo Libero, a cominciare dalla madre.

C'è un altro tema, più lieve, che attraversa il suo romanzo: il gioco del tennis. Campeggia da protagonista John McEnroe: ma perché, con una delle sue «oscenità», lo fa diventare raffigurazione della madre morente?

McEnroe è un personaggio dal molto talento, dalle molte bizze, inimbrigliabile: come Madame Marsell, la madre di Libero. Il campione poteva urlare cose irripetibili al pubblico, come perdere con classe signorile. Madame Marsell decide di uscire di scena così: con incanto, gioiosamente, come fece anche Frida Kahlo. È il più grande atto d'amore. La madre fa mostra di grande dignità perché ha vinto molto, anche se adesso perde. È il McEnroe di Parigi, del Roland Garros. E lascia una grande eredità: tutti i tumulti che ha vissuto con grande libertà. Perché esser vivi significa esistere tumultuosamente.

La morte della madre coincide con la formazione di una nuova famiglia. La compagna di Libero partorisce un figlio: Alessandro. Il suo protagonista è diventato, finalmente, all'altezza del proprio nome?

Nel lettone con la moglie Anna, il pensiero a Madame Marsell appena scomparsa, stringendosi al petto il figlioletto neonato, Libero può assaporare per la prima volta una sorta di completezza e serenità. Sta per compiere trentasei anni, la pienezza lo attenderà in futuro a cinquanta, sessant'anni. Per ora deve accontentarsi di un sentimento non ancora gestibile. Ma può, finalmente, generare il suo nome, che accenna a cieli sconfinati, attraverso il figlio.

Alessandra Milanese

mercoledì 25 febbraio 2015

Uno di noi

Due uomini. Due storie. Percorsi apparentemente inconciliabili. Il direttore di un quotidiano comunista e l’uomo dei servizi segreti. Costretti, loro malgrado, non solo a incontrarsi, ma a fidarsi l’uno dell’altro, a mettere da parte i vissuti e le diffidenze e fare fronte comune, perché nell’inferno di Baghdad c’e una donna da riportare a casa, prigioniera dei ribelli sunniti. Per l'uno è soprattutto un’amica e collega. Per l’altro un’italiana da salvare. Per il resto del Paese, Giuliana Sgrena, inviata del Manifesto. I primi sono giorni convulsi, i più pericolosi per un ostaggio. C’è da capire se chi tiene Giuliana ha convenienza a trattare o meno e in che termini. Il dirigente del Sismi sa cosa fare e inizia a muovere le sue pedine in Medio Oriente. Una sera di pioggia, alle spalle di Montecitorio, l'uomo dell'intelligence spiega cosa ha in mente e il direttore del Manifesto forse lo vede per la prima volta: una stretta di mano e i due uomini diventano semplicemente Nicola e Gabriele. Oggi sarebbero buoni amici, se la notte del 4 marzo di dieci anni fa Nicola Calipari non fosse stato ucciso dal fuoco amico, nell’estremo tentativo di proteggere con il suo il corpo tornato libero di Giuliana Sgrena. Giuliana non doveva tornare viva e Nicola aveva troppi nemici nei Servizi, sicuramente si muoveva a dispetto delle imposizioni e delle intransigenze degli americani. Scrive Gabriele: “Nicola voleva cambiare le regole del gioco, andare oltre la semplice trattativa sulla somma da pagare per il riscatto. Aveva intuito che si poteva rispondere e trattare anche politicamente. E c’era riuscito. I rapitori erano sunniti, cercavano di non essere tagliati fuori dal processo di ricostruzione del paese. Chiedevano un riconoscimento e un ruolo. E quelle condizioni che dopo l’uccisione di Nicola non hanno avuto un seguito, avrebbero forse potuto ritagliare per l’Italia e per la stabilità dell’Iraq un futuro diverso”. A dieci anni da quel mese lunghissimo, di fronte al disastro iracheno cresciuto sull’emarginazione della componente sunnita che è stato il carburante che ha provocato l’incendio jihadista dell’Isis, l’intuizione di Calipari appare come un’incredibile incompiuta. Ma allora i nemici sul campo erano troppi. E troppe le coincidenze sospette. A partire da quel posto di blocco nei pressi dell’aeroporto da cui sono partite le raffiche che ferirono Giuliana e uccisero Nicola. Nessuno ha pagato e pagherà mai per quella morte. "La morte di Nicola Calipari è stata risolta classificandola come qualcosa di fatale. Come si fa con le ingiustizie del mondo quando vengono accettate per paura di dar loro un nome". Gabriele Polo tieni vivo il ricordo di Nicola nel libro “Il mese più lungo. Dal sequestro Sgrena all’omicidio Calipari”. Il giorno dei funerali, su una foto a tutta pagina, il Manifesto dedicò a Calipari uno dei titoli più belli e struggenti del quotidiano di via Tomacelli: Uno di noi.

Letti anche:
Gianluca Morozzi: L'età dell'oro
Giorgio Fontana: Per legge superiore
Antonio Manzini: Non è stagione
Alessia Gazzola: Una lunga estate crudele
Stefano Benni: Le beatrici

lunedì 16 febbraio 2015

Libri letti nel 2014

Fare il pendolare in treno aiuta. Di seguito l'elenco dei libri letti nel 2014 e che mi sento di consigliare agli appassionati del genere noir:
Alessia Gazzola : L’allieva; Un segreto non è per sempre; Le ossa della principessa; Sindrome da cuore in sospeso.
Antonio Manzini: La costola di Adamo; Pista nera.
Francesco Recami: La casa di ringhiera; Gli scheletri nell’armadio; Il segreto di Angela.
Giorgio Fontana: Morte di un uomo felice.
Mario Costa: L’ultima scommessa.
Alessandro Robecchi: Questa non è una canzone d’amore.
Diego Da Silva: Non avevo capito niente; Mia suocera beve; Mancarsi; Sono contrario alle emozioni.
Simonetta Agnello Hornby: Boccamurata.
Paolo Nori: Siamo buoni se siamo buoni.
Massimo Lugli: Il guardiano; Le strade dei delitti; Ossessione proibita; Gioco perverso.
Nicola Fiorin: Lentamente muore; Il migliore dei mondi possibili; Il canto delle sirene.
Andrea Camilleri: La banda Sacco; Inseguendo un’ombra; Morte in mare aperto.
Gianrico Carofiglio: Le regole dell’equilibrio; Una mutevole verità.
Gianrico e Francesco Carofiglio: La casa nel bosco
Massimo Carlotto: Il mondo non mi deve nulla.
Gianni Farinetti: Rebus di mezza estate; Prima di morire.
Marco Malvaldi: Il telefono senza fili.
Giovanni Floris: Il confine di Bonetti.
Emmanuel Carrere: L'Avversario.

venerdì 13 febbraio 2015

Scuse

Se per ogni volta che Trenitalia si è scusata (anche con me) per il disagio di un ritardo avessi guadagnato un euro a quest'ora avrei perlomeno estinto il mutuo.

venerdì 16 gennaio 2015

Salse e palpebre

Salgo in treno e come ogni mattina cerco un posto isolato per poter leggere ed evitare i conversatori seriali. Poso lo zaino, mi metto gli occhiali e apro il libro della settimana. Nei sedili di fianco ci sono due ragazze e un ragazzo. A occhio hanno dai 25 ai 30 anni. Sono sicuramente colleghi di lavoro: lo si capisce dai riferimenti d’ufficio, dalle attività condivise e bla bla bla. Ad un certo punto la conversazione vira sul privato. Una delle due ragazze dice: a parte periodi intensi come questo, un buon giorno per uscire la sera è il giovedì, a patto che il venerdì tu non abbia riunioni particolari e il lavoro da fare è più o meno impostato. Domenica sono andata a ballare la salsa, ho fatto l’una e mezza e ne sto pagando ancora le conseguenze. La sera, quando sono le 11, mi cala la palpebra. Neanche fossi una cinquantenne. Gli altri annuiscono ridendo. Io, cinquantenne, incasso. Così imparo ad ascoltare. Volevi leggere, no? Leggi e fatti i cazzi tuoi. Comunque, non per bullarmi, ma di solito alle 11 io sto ancora facendola la salsa. E contemporaneamente buttando la pasta. Quando va bene. Perché a volte le vite vanno così. Al mattino mi alzo alle 6 e mezza, anche se dormirei nell’acqua e quando suona la sveglia mi verrebbe istintivo di violare il secondo comandamento, ma poi penso al mutuo e questo mi basta (ancora) per trascinarmi sotto la doccia. Va bè, me la sto prendendo troppo. Alla sua età avrei detto la stessa cosa. E mio padre, allora cinquantenne, faceva il doppio lavoro per mantenerci.

venerdì 9 gennaio 2015

Je suis Charlie

Potranno strappare tutti i fiori, ma non potranno mai fermare la primavera. (Pablo Neruda)