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lunedì 24 settembre 2012

L'invalido. E sua moglie

Non ricordo come si chiamasse. Forse non l’ho mai nemmeno saputo. Per noi bambini era semplicemente la moglie dell’invalido, come l’invalido era semplicemente l’invalido, il primo uomo che ho visto in sedia a rotelle, credo per un incidente di lavoro. Abitavano a ridosso del campo a sei dell’oratorio dove passavo tutti i miei pomeriggi pre e post compiti scolastici e per noi ragazzini erano l’uomo nero delle favole. Ogni volta che il pallone finiva nel loro giardino ci veniva restituito bucato o il più delle volte veniva semplicemente sequestrato. Mi son sempre chiesto che fine facessero tutti quei palloni! In verità il vero uomo nero era l’invalido perché a volte la signora, di nascosto dall’invalido o quando lui riposava, il pallone ce lo rimandava intatto. Ognuno di noi nella vita ha incontrato il proprio invalido. Questo aneddoto, di quasi 40 anni fa, mi è tornato alla mente nei giorni scorsi assistendo dalla finestra di casa mia ad un episodio che ha visto come protagonisti, due bambini, una bambina, un pallone e un’anziana signora, quest’ultima nelle vesti dell’invalido e di sua moglie. Il quartiere dove abito è un quartiere storico di Brescia, tornato a vivere dopo anni di degrado e abitato da un’alta percentuale di popolazione straniera. Come accadeva 40 anni fa, i ragazzini giocano liberi per strada, con quell’incoscienza che avevo io, che avevamo noi che al campo non potevamo andare, perché c’erano i più grandi, e la palestra manco sapevamo cos’era. Vederlo mi ha riportato indietro nel tempo. La porta disegnata dall’apertura di un garage, il portiere a cercar di parare e l’attaccante a cercar di segnare. Una musica la palla che sbatte contro la saracinesca. Mi stavo cullando in questo amarcord quando un urlo dalla finestra di fronte mi ha frantumato tutta una serie di cartoline dall’infanzia. E non solo. Anche quei bambini avevano incontrato il loro invalido. Non me la voglio prendere con la signora in questione, perché a una certa età si diventa intolleranti, perché capisco che il rumore di un pallone che sbatte su una saracinesca può dare fastidio ecc. ecc. Capisco meno e faccio fatica a giustificare invece il tono razzista con cui ha concluso la sua rivendicazione: andate al vostro paese a giocare? Ma sono bambini. Abitano nel quartiere. Parlano l’italiano meglio di molti autoctoni. I due baby calciatori non l’hanno cagata di pezza e, come noi 40 anni fa, credo abbiano pensato: vecchia rompicoglioni ecc. ecc. La bambina ascoltava attenta e all’invito ad andare al paese d’origine a giocare ha risposto, con l’innocenza dell’età: ma il nostro paese è lontano. La signora ha bofonchiato qualcosa di incomprensibile, perché a volte anche il becerume deve fare un passo indietro. Se avessi potuto l’avrei abbracciata la bambina. Mi sono limitato a sorridere.

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