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martedì 7 agosto 2007

La medicina e la fede

Credere e curare è il titolo del volumetto firmato dal sottosegretario alla Salute Ignazio Marino, per le Vele della Einaudi (113 pagine, 8 euro): un breve saggio in cui l'autore, chirurgo esperto in trapiantio d'organo, riflette sui cambiamenti imposti alla professione dai progressi della scienza e su come questi avanzamenti impongano di fare i conti con l’etica e le coscienze.

Il progresso scientifico ha rivoluzionato la posizione dell’essere umano nei confronti della vita, delle malattie e della morte. Oggi si può nascere in diversi modi, si può essere curati con terapie straordinarie e tenuti in vita quasi contro ogni logica. Il progresso pone però di fronte a innumerevoli domande: in particolar modo chi è credente – e Marino lo è - è chiamato ad un confronto serrato con la propria coscienza. La fecondazione medicalmente assistita, in primis l’eterologa, così come l’utilizzo degli embrioni a scopi terapeutici, obbligano qualsiasi medico cattolico a chiedersi dov’è il limite etico e morale tra la vita, il dovere di salvare un paziente colpito da una grave malattia e la manipolazione genetica. Secondo Marino, che affronta questi temi con grande rispetto per le diverse posizioni cercando di fare sintesi, si potrebbe iniziare stabilendo un punto fermo tra l’analisi degli embrioni e l’eugenetica. La scienza peraltro è già in grado di dare risposte in merito, arrivando a congelare l’ovocita allo stadio dei due pronuclei, quando cioè i due corredi cromosomici sono separati e non esiste ancora un nuovo Dna. In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi, potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Sono cellule che potrebbero quindi essere conservate senza sollevare interrogativi etici. Biologicamente non c’è una nuova vita, e presumibilmente nemmeno dal punto di vista spirituale. Sull'utilizzo degli embrioni attualmente congelati, l'autore, da medico, esprime una posizione più netta, chiedendosi se non sia più giusto utilizzarli per scopi di ricerca, piuttosto che lasciarli morire. Per chi è cattolico si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse, ma anche in questo caso la scienza può venire in aiuto. Dice Marino: "Si potrebbe forse individuare il momento in cui un embrione perde la capacità di moltiplicare le sue cellule, cioè la possibilità riproduttiva, e non può più essere utilizzato per dare origine a una vita. A quel punto, con un meccanismo simile a quello previsto per la donazione degli organi di un paziente in morte cerebrale, gli embrioni potrebbero essere donati ai laboratori di ricerca. Si potrebbe pensare di elaborare, su basi scientifiche, la definizione di 'morte riproduttiva' così come è stato fatto con il concetto di morte cerebrale (...) Questa definizione, oggi universalmente riconosciuta, ha permesso lo sviluppo della chirirgia dei trapianti ma prima di quel momento il prelievo degli organi da un paziente a cuore battente era considerato un reato". I parlamenti sono dunque in ritardo rispetto sia ai laboratori sia alle tante domande sollevate dal progresso. Qual è il confine tra il diritto alla cura e l'accanimento terapeutico? E' giusto o no tenere in vita una persona allo stato vegetativo? Un medico – dice Marino – deve fare il possibile per guarire il malato, non per aiutarlo a morire. Ma se è moralmente inaccettabile somministrare un farmaco che provochi la morte, è altrettanto vero che una persona ha il diritto di esprimere le proprie volontà, sottoscrivendo per esempio un testamento biologico a cui il medico dovrebbe attenersi in caso di necessità. Riflessioni importanti e dirimenti, che Marino mette sul tavolo della discussione (trovando un attento interlocutore nel cardinal Martini, prelato illuminato e di grande spessore) sapendo che il progresso scientifico attuale difficilmente può essere incasellato in una legge rigida, ed è fondamentale il dibattito continuo e costante tra scienza, religione e politica per non lasciare soli i medici e soprattutto i malati.

Passione e disincanto sono invece le note dominanti nell’analisi della professione. Fare il medico, per Marino, rimane una missione, un servizio verso gli altri: significa non perdere mai “quella forte spinta ideale” che ti consente di credere “nelle immense possibilità del curare e di sconfiggere le malattie”. La malattia, il dolore, fino alle estreme conseguenze della perdita, fanno purtroppo parte della vita di un uomo. Compito del medico non è solo di intervenire meccanicamente sul danno. Il paziente non è una macchina e tantomeno un numero: è una persona con tutte le sue complessità e ricchezze. Non solo: per qualcuno, fuori da quella stanza d’ospedale, la stessa persona rappresenta tutto il mondo. Ecco perché sedersi accanto al suo letto, ascoltare, parlare con chi ti affida la sua vita non è mai una perdita di tempo: è parte integrante della terapia.
Oggi tutti questi ideali di cui si sono nutriti Marino e i medici della sua generazione sembrano però essersi perduti. La professione è dominata dalla tecnologia (il cui valore resta comunque indubbio nel progresso della scienza medica, anche se ha disumanizzato il rapporto con il paziente), ma soprattutto dalle esigenze economiche e di bilancio, che fanno del medico un ‘impiegato’ della medicina. Di fronte a questa situazione molti colleghi si sono rinchiusi nel proprio guscio cercando di sopravvivere, altri se ne sono andati in Africa per ritrovare un senso al proprio agire, altri ancora si sono semplicemente adeguati, cercando di trarne profitto. E quel che è peggio – scrive Marino - i più giovani non vivono tutto ciò come un problema. Che fare dunque? Il primo passo - suggerisce - dovrebbe essere quello di riconoscere che invece il problema esiste. Una volta posta la questione bisogna quindi affrontarla con metodo scientifico. “Solo se saremo capaci di trovare il vaccino per prevenire la perdita di coscienza e di valori, per impedire a noi medici di smarrire il senso della missione, che ci renda immuni dall’intraprendere percorsi non etici - sostiene Marino - avremo nelle nostre mani una risorsa più grande di qualunque tecnologia”.

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