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martedì 20 novembre 2018

Gli anni al contrario


"I grandi, in fondo, non sono che bambini sopravvissuti”. Ci sono romanzi che ti prendono l’anima e non te la lasciano, neanche quando hai finito di leggerli. Perché… perchè a volte toccano nervi scoperti, parlano del tuo mondo: quello che hai vissuto, che in qualche modo hai frequentato, o che ti è passato accanto, sfiorandoti soltanto e accarezzandoti appena. Gli anni al contrario, esordio letterario di Nadia Terranova, l’ho letto un sabato pomeriggio e mi ha trovato inavvertitamente disarmato. Ambientato a Messina tra il 1977 e il 1989, racconta l'intima epopea di una giovane coppia negli anni in cui gli ultimi sussulti ribelli di una generazione venivano cancellati da una triplice deriva: l'approdo alla lotta armata, la piaga dell'eroina, la rivincita degli stereotipi borghesi. Aurora è la seconda di 6 figli, il padre è un ex guardia carceraria, fascistissimo, che porta addirittura i ragazzi in gita a Predappio per farli benedire da donna Rachele. Giovanni è invece il terzogenito di una famiglia borghese: il padre è un noto avvocato iscritto al PCI. Aurora cerca di affrancarsi dal suo mondo e dalle rigidità famigliari attraverso lo studio. Giovanni è un animo ribelle, attratto dagli eccessi, dalle utopie espulse da un partito comunista che per molti giovani dell’epoca odorava di sconfitta. Giovanni e Aurora si incontrano all’Università nel ’77, si amano, sognano la rivoluzione, credono in una società migliore al punto mettere al mondo una bimba, Mara, e giocano a fare i grandi. Ma è un gioco appunto troppo grande, soprattutto per Giovanni che soffre la lontananza, la marginalità dell’isola rispetto ai fermenti delle grandi città italiane ed europee, dove si sta facendo la storia. E questo tormento interiore, questo cane che morde dentro e non dà tregua lo porta sempre più lontano da Aurora e da Mara, che sì ama visceralmente, ma non basta. I sogni diventano allora allucinazioni chimiche, perché solo così si riesce a tenere a bada la bestia e a non pensare. Aurora, che invece i suoi sogni di dottorato li ha abbandonati per Giovanni e per Mara, prova in tutti i modi a capire e ad aiutare l’uomo della sua vita, ma è una lotta impari se il nemico si chiama disillusione ed ha scavato un solco irrimediabile con il passato. Certo ci sono i tentativi di ristabilire un ritmo coniugale ma sono intessuti di silenzi, insicurezze e sensi di colpa. Giovanni toccato il fondo ci prova davvero, per Mara, per Aurora, e ci riesce. Il rapporto prima epistolare dalla comunità terapeutica e poi fatto di incontri settimanali con Mara è di una tenerezza disarmante. La speranza in qualche modo sembra rinascere e c’è ancora tanto tempo davanti: Giovanni ha 35 anni, Mara ha appena iniziato le elementari, Aurora, comunque vada, è l’amore per sempre. All’inizio degli anni 80 viene scoperto un virus che si dice colpisca i tossici e gli omosessuali. E’ un virus bastardo, che si impadronisce del tempo. L’ultima estate Giovanni la passa a Pantelleria da solo con Mara e non ci potrebbe essere finale più bello.
Molti ragazzi di quella generazione, intrisi di ideali politici, di grandi slanci, di sentimenti estremi, sono stati salvati da una passione bambina e grazie a lei sono diventati adulti: il calcio.

sabato 17 novembre 2018

Brunò, il commissario francese




Ho letto di recente Grand Prix di Martin Walker e non mi aveva entusiasmato
particolarmente, Devo dire invece che il romanzo d’esordio di questa serie - Brunò, il commissario francese – è un bel noir. La vicenda è ben raccontata, così come le implicazioni storiche e politiche che la sottendono, i personaggi, a partire dal protagonista, sono disegnati alla perfezione e Walker li fa muovere con grande maestria, in un territorio - St Denis, cittadina del Perigord - che l’autore conosce molto bene e non solo ne apprezza i paesaggi ma anche il cibo e il vino, ingredienti che ormai fanno parte integrante della scrittura gialla. Benoît Courrèges, detto Brunò, è l’unico poliziotto di St. Denis, alle dipendenze dirette del sindaco, con compiti più di salvaguardia e tutela dell’ambiente che di ordine pubblico. Tanto da trovare il tempo anche di allenare la squadra locale di rugby e di insegnare tennis ai ragazzi del paese. Una vita tranquilla, quasi bucolica, quella di Brunò, fino al giorno in cui viene improvvisamente scoperto il cadavere di un anziano algerino, eroe di guerra, ucciso brutalmente e oltraggiato con una svastica incisa sul petto. Un omicidio a sfondo razzista è la prima ipotesi sulla quale Brunò e la squadra di investigatori arrivati da Parigi iniziano a lavorare. E i primi sospetti cadono infatti su un ragazzo di buona famiglia che si scopre essere legato a movimenti di estrema destra. Ma, come spesso accade, la verità sta nei dintorni, e servirà tutto l’acume e la conoscenza dei propri concittadini di Benoit Courrèges per scrivere il finale di questa storia, che affonda le radici nel passato, in uno dei periodi più tormentati della storia francese: la Seconda guerra mondiale. La cosa bella in questo caso, almeno per me, è che alla scoperta della verità non viene fatta giustizia, come vorrebbero la legge, l’etica e la morale. Perché a volte – mettiamola così – c’è un giusto che non corrisponde al vero So che è un terreno molto scivoloso ma se leggerete il libro forse concorderete con me.


 

lunedì 22 ottobre 2018

Sabbia nera



La Sabbia nera del titolo è la cenere che arriva dal Vulcano e avvolge Catania, impadronendosi di ogni cosa, compresi i colori. C’è tanta Sicilia in questo romanzo, terra che amo visceralmente e nella quale torno appena posso. Non è la Sicilia di Camilleri: qui il dialetto è usato pochissimo, ci sono però i luoghi, i sapori, il non verbale, le atmosfere. E c’è Vanina Guarrasi, palermitana, a Catania a dirigere la Mobile, che non è una donna facile: segnata dalle vicende della vita, a volte scontrosa oltre il lecito, dalle poche descrizioni non gnocchissima, perché la buona tavola qualche segno lo lascia, eppure di grandissimo fascino. La vicenda sulla quale deve indagare è vecchia di oltre 50 anni. Nel montacarichi portavivande che si trova nella cucina di Villa Burrano - casa padronale disabitata da tempo ai piedi dell’Etna - vengono scoperti per caso i resti mummificati di una donna. Per risalire alla sua identità e capire cosa nascondono quelle povere ossa, perché qualcosa devono nascondere per forza, la Guarrasi si affida all’esperienza, ai ricordi e all’acume dell’ormai ottantenne commissario dell’epoca. E infatti quel cadavere di cose da raccontare ne ha parecchie. Racconta una vecchia storia di avidità, di risentimento, di potere, anche mafioso, di affari illeciti, di case chiuse, di tenutarie e di figli illegittimi. Un mondo antico, dimenticato, ricordato solo da qualche vecchio e ormai sepolto sotto la cenere dell’Etna, che nasconde e silenzia. Una storia allora chiusa in fretta con le sue belle vittime sacrificali: il proprietario della villa, morto sparato proprio in quella casa, e il suo contabile, che per quell’omicidio si è fatto più di 30 anni di carcere. La donna mummificata arriva a cambiare le carte in tavola. Tanto da provocare, con le sue mute rivelazioni, un altro omicidio, che consentirà a Vanina Guarrasi di mettere a posto tutti i tasselli, riscrivere quella verità di comodo datata 1959 e risolvere il caso. Come in ogni noir ci sono poi le storie parallele. Quella del vicequestore è un romanzo a sé, in gran parte ancora da scrivere e la chiusa del libro, lascia lo spazio per farlo. Con la Guarrasi lavorano altri poliziotti, che Cristina Cassar Scalia caratterizza e fa muovere molto bene. Nota di colore: nella squadra c’è anche l’ispettore Marta Bonazzoli, che invece è gnocca oltre il lecito. Perché lo dico? Perché la Cassar Scalia tra tutte le città del Nord, fa nascere Marta proprio a Brescia, la mia città.






giovedì 18 ottobre 2018

Il tennis secondo me


Marco Reali non era un campione e non lo sarebbe mai diventato. Almeno non più. Un buon giocatore, questo sì, che navigava nei tornei satellite, ai margini del circuito che conta. Quasi non riusciva nemmeno a vivere di tennis, Marco. E a 25 anni ormai non ci pensava più. Non perché nei tornei minori non fosse possibile guadagnare abbastanza. Semplicemente perché anche lì riusciva a superare al massimo un paio di turni. Eppure vederlo giocare era uno spettacolo. Marco Reali aveva tutti i colpi e la racchetta nelle sue mani diventava uno Stradivari. Peccato che quel suono straordinario durasse lo spazio di una partita, a volte di un set. Spesso solo di qualche game. Anche per questo l’avevano soprannominato il Poeta. Certo, perché nella sua borsa, insieme alle racchette, c’era sempre un libro, nel quale potevi vederlo perdersi sulle tribune in attesa di giocare. Ma soprattutto per quel suo modo elegante di colpire la palla, che avevi quasi la sensazione di vedere la bellezza flirtare con la perfezione. E per quella sua capacità di estraniarsi, di andare via, come se la sua testa ad un certo punto guardasse oltre e quello che stava facendo appartenesse ad un passato non più interessante. Alla fine di un match, chi giocava contro il Poeta, anche in caso di vittoria, correva a stringergli la mano, per complimentarsi per primo. In tanti mi hanno assicurato che in quei momenti di pura grazia, Marco Reali non giocava una palla uguale all’altra. Oggi nel mondo lo sa fare solo Roger Federer. All’inizio nessuno si capacitava di come un talento simile fosse rimasto nell’anonimato. Poi, come per tutte le cose, ci avevano fatto l’abitudine. Marco Reali era una mina vagante dei tabelloni. I più titolati del range, anche se non l’avrebbero mai ammesso, speravano di non incontrarlo nei primi turni, dove l’obiettivo è chiudere in poco tempo, per conservare concentrazione ed energia quando ci si gioca l’accesso alle fasi finali. Lo sapeva bene Andrea Gigante, ormai stabile tra i primi 200 dell’ATP e a cui i challenger servivano sia per fare punteggio che per mettere in tasca qualche migliaio di euro relativamente facili. A Sirmione era venuto fondamentalmente per il lago e contava su match da finire in un’ora al massimo, magari al mattino, per poi andare in spiaggia a godersi il sole. Per lui tutti i nomi del tabellone erano perfetti sconosciuti. Tranne Reali. Gigante-Reali era il big match della prima giornata. Quel pomeriggio, sul campo centrale del circolo Vela, le tribune erano gremite. Nonostante fossimo già a metà settembre, quando i due sbucarono dagli spogliatoi faceva ancora caldo. Marco Reali e Andrea Gigante si conoscevano praticamente da sempre. Erano coetanei, entrambi di Cremona. Per un po’ avevano giocato per lo stesso Circolo a Milano. Poi Gigante aveva iniziato a fare sul serio, mentre Reali era diventato il Poeta. Andrea viveva per il tennis, si allenava fino allo sfinimento, ore e ore sul campo a provare e riprovare. Un perfezionista. E tutto quello che aveva ottenuto se l’era sudato e meritato. Marco si allenava perché il tennis era una parte importante della sua vita e non avrebbe potuto farne a meno. Ma non aveva bisogno di provare. Ogni colpo - una volèe, un drop shot, un semplice rovescio in back - brillava di luce propria, di magia. In ogni gesto, in ogni palla che usciva dalla racchetta di Marco Reali c’era tutta l’eleganza del tennis. Due ragazzi che più diversi non si potrebbe, Marco e Andrea. Ma erano amici e si volevano bene. Anzi, Andrea continuava ad insistere con Marco per giocare i tornei di doppio insieme e forse, prima o poi l’avrebbe preso per sfinimento, come spesso faceva con gli avversari. Marco Reali aveva giocato un primo set incredibile, oltre la grazia. E il pubblico si era spellato le mani. Andrea Gigante ci aveva capito poco o nulla ed era riuscito a raccogliere solo due game. Qualsiasi altro tennista avrebbe mollato. Marco quel giorno era pressoché ingiocabile. Andrea no. Non aveva mollato perché era un combattente. E forse anche perché sapeva che in qualsiasi momento il Poeta avrebbe potuto staccare la spina. Le prime avvisaglie si erano viste nella seconda partita. Marco aveva iniziato a specchiarsi un po’ troppo nel suo bel gioco e ad Andrea era riuscito il break sul 4-4, dopo essere stato sotto 40-0, impattando così il conto dei set. La terza partita era poi andata via senza sussulti fino al 3-3, 40-40. Reali aveva servito da destra una prima forte e centrale, uscita di un niente. Sulla seconda, la risposta di Gigante era stata aggressiva e aveva costretto Reali a difendersi con un rovescio troppo corto. Andrea aveva replicato con un diritto incrociato molto profondo che aveva seguito a rete. E qui il Poeta aveva scritto, anche se sarebbe più giusto dire disegnato, il suo capolavoro di giornata. Alla palla pesante di Andrea, Marco aveva risposto con un passante lungolinea altrettanto potente e veloce, per poi rimbalzare dalla parte opposta del campo per andare a recuperare la volèe di rovescio del numero 1 del torneo. Sono frazioni di secondo, lampi che si fissano negli occhi degli spettatori, in alcuni casi per rimanerci per sempre. Marco Reali aveva intuito che il suo amico avrebbe cercato di chiudere il punto dalla parte opposta. Da cosa l’aveva capito? Puro istinto. Come il portiere che sul rigore battezza l’angolo e va sicuro da quella parte. Se Andrea Gigante avesse cambiato direzione all’ultimo secondo l’avrebbe preso in contropiede. Invece Marco era arrivato su quella palla in coordinazione perfetta. Se ci fosse un fotogramma del momento in cui Reali la colpisce sarebbe la foto perfetta. Marco a quel punto aveva due possibilità: alzare un pallonetto difensivo, cosa che avrebbe fatto il 90% dei suoi colleghi, non solo a quei livelli, o giocare in corsa il passante lungolinea di rovescio, un colpo nelle corde di pochi. Ma lui è il Poeta, capace di perdere con tutti ma anche di vincere con chiunque. E allora Marco fa quello che farebbe Federer. Vede con la coda dell’occhio Andrea Gigante che ha ripreso il centro della rete, finta il lungolinea, per poi all’ultimo spezzare il polso e giocare un cross strettissimo di rovescio. Lo spazio tra la racchetta inutilmente tesa di Gigante e il campo è quello di una pallina. Ed è in quello spazio che il Poeta mette a palla. C’era stato un secondo di silenzio, lunghissimo, interminabile, poi il boato del pubblico. Era stata anche l’ultima cosa che aveva fatto Marco Reali in quel primo turno. La magia e poi via nella sua no man’s land. Alla conferenza stampa un collega gli aveva chiesto come avesse potuto pensare ad una soluzione del genere, quando tutti o quasi si sarebbero rifugiati nel lob o al massimo in un passante lungolinea. Il Poeta aveva sorriso: “In verità non ci ho pensato, succede tutto così velocemente che non hai tempo di pensare. Non so davvero cosa avviene. Se però vuoi una spiegazione razionale a freddo, posso dirti che se avessi avuto il tempo di ragionare, al pallonetto non avrei mai pensato, forse al lungolinea. Invece è uscito quel cross incrociato e son contento per questo. Lo sarei anche se fosse uscito o si fosse fermato sul nastro. E’ l’averlo giocato che fa la differenza. Almeno per me”. Marco Reali aveva quindi ringraziato e se n’era andato. Io ero rimasto in sala stampa per scrivere l’ultimo capoverso dell’articolo che sarebbe uscito il giorno dopo. “Sono sicuro che se domani dovessi chiedere alle persone che erano sugli spalti il nome del vincitore, tutte risponderebbero senza esitazione. Ma, senza nulla togliere ad Andrea Gigante, sono altrettanto sicuro che il ricordo più vivo della stragrande maggioranza di loro rimarrà quello scambio. E quella palla”.

sabato 15 settembre 2018

L'Avversario


Mi son ricordato de L’Avversario di Emmanuel Carrère perché la scorsa settimana il protagonista di questa storia allucinante ha inoltrato richiesta al giudice per usufruire del regime di semilibertà. L’Avversario è il racconto di un fatto di cronaca nera tra i più efferati di sempre, non solo in Francia, del relativo processo e della relazione epistolare che l’autore ha avuto con il protagonista. Jean Claude Romand, il 9 gennaio 1993, ha ucciso moglie, figli e genitori, tentando poi, senza riuscirci, di togliersi la vita. Definire Jean Claude Romand è quasi impossibile. Lo è stato anche per gli psichiatri che l’hanno seguito negli anni. Per comodità, in questa breve sinossi, mi limito a dire che era un bugiardo, travolto e fagocitato dalle sue stesse bugie, che l’hanno mangiato dentro fino all’epilogo finale. Tutto è iniziato ai tempi dell’università: un esame non sostenuto è poi diventata la laurea in Medicina, quindi un lavoro di prestigio nientemeno che a Ginevra, all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Diciotto anni di falsità. Una vita parallela vissuta in un’agghiacciante solitudine con sé stesso, senza progetti e senza testimoni, nei parcheggi delle stazioni di servizio, nei bar, in albergo, mentre la moglie, i parenti più stretti, gli amici, credevano, con orgoglio e ammirazione, che fosse al lavoro o all’Università di Digione, dove il giovedì teneva le lezioni, o ancora ad importanti congressi scientifici. Una sceneggiatura talmente assurda, inverosimile, falsa da risultare paradossalmente impossibile metterne in dubbio la verità. Per questo nessuno l’ha mai fatto: una verifica, una telefonata, un’improvvisata al lavoro. Durante il processo è sembrato incredibile alla stessa corte, eppure è andata così. Per mantenersi e soprattutto mantenere la famiglia come la sua posizione richiedeva, Jean Claude Romand aveva convinto i genitori ad affidargli i propri risparmi da investire. Così aveva fatto con lo zio, i suoceri. Infine l’amante. Del resto come non fidarsi del brillante ricercatore dell’OMS? Il figlio che ogni genitore vorrebbe avere o vorrebbe come marito della propria di figlia. Ma un giorno succede l’imponderabile, il granellino di sabbia che fa inceppare il meccanismo. Allora non c’è più tempo. Perché gli altri non devono guardarlo con i suoi stessi occhi: vedere quello che lui vede tutti i giorni da 18 anni. Jean Claude Romand è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dei genitori, della moglie e dei due figli. Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti sconvolti dalla precisione con cui si esprimeva e dalla preoccupazione che aveva di dare di sé un’immagine positiva. Un autocontrollo disumano, un automa incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni adeguando ad essi le proprie reazioni. Nel tempo pare abbia mostrato segni di pentimento e si sia avvicinato a Dio e alla preghiera. Carrère ha assistito alle udienze, ha studiato il fascicolo processuale, ha intrapreso una corrispondenza con Jean Claude Ramond e una volta l’ha incontrato in carcere. Solo tre anni dopo ha iniziato a scrivere un libro magistrale nel racconto di una atroce disumanità di un uomo tutto sommato banale. Scrive Carrère: *Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario”.
 


martedì 11 settembre 2018

Una sera di maggio un sedicenne

Ho raccontato questa storia durante una serata tra amici. Il tema era: qual è l’esperienza più assurda che ti sia capitata. Uno di questi amici mi ha poi invitato a scriverla. Il fatto è realmente accaduto. Mi sono solo preso alcune licenze nella narrazione per renderlo più leggero e, spero, divertente.


Una sera di maggio del 1980 rientro a casa dopo aver dato il mio quotidiano fondamentale contributo al tavolo permanente su schemi, tattica e, ovviamente, fighe, materie per le quali condivido la docenza con altri intellettuali del centro sportivo del paese, e mia mamma mi dice: ha chiamato una al telefono. Una chi? Una, non le solite. E cosa voleva? Cercava te. La logica di mia madre è sempre stata spiazzante. Bene. Ci provo, anche se so già che la richiesta si rivelerà del tutto inutile: se richiama chiedile il nome, magari scopriamo chi è. E infatti potevo risparmiarmi il fiato. Per altre 5-6 volte nell’arco di un paio di settimane, mia mamma, a giorni alterni, mi annuncia che la misteriosa ragazza - “una”, che nel gergo della genitrice era un identificativo più che sufficiente - aveva telefonato di nuovo. Via via anche un po’ incazzata, mia madre, intendo, perché non c’ero mai e toccava sempre a lei rispondere e che figura ci faceva, visto che non sapeva nemmeno dove fosse suo figlio e bla bla bla. Mamme. Finalmente alla sconosciuta riesco a dare un volto e un nome, come direbbero al telegiornale locale. Sto aspettando il pullman che mi riporterà a casa dopo le lezioni e mi sento chiamare. “Sono giorni che ti cerco”. Mi giro. Statura media, mora, capelli raccolti, fermati con una matita. Non bella, ma nemmeno brutta. Diciamo che i miei ormoni al galoppo non avrebbero rallentato la corsa. Soprattutto, mai vista prima. “Scusa?”. “Ti ho telefonato almeno 5 volte, anche ad orari diversi, e non sei mai a casa. Si può sapere dove vai tutto il giorno? Quando studi? Comunque io sono Antonella e volevo invitarti alla mia festa sabato sera. Se vuoi, puoi portare il tuo amico”. Chiude senza darmi possibilità di replica e raggiunge due ragazze che guardano la scena e ridono ad una decina di metri di distanza. Prima però mi dà l’indirizzo. Fondamentale, visto che fino a quel momento non avevo avuto il piacere. Il mio amico in questione, che aveva assistito al siparietto un po’ in disparte, si avvicina, fa un apprezzamento politicamente scorrettissimo e mi chiede a sua volta: chi è?. “Boh, si chiama Antonella. Comunque sabato siamo invitati alla sua festa”. “Dove?”. Glielo dico. “E come ci arriviamo, secondo te?” Ci andiamo in autostop, come del resto si faceva sempre nei fine settimana, prima di avere la patente, per spostarci dal nostro paese verso i centri della movida dell’epoca.
E qui inizia davvero la storia. Ci stiamo alternando all’autostop nel cazzeggio più totale quando vediamo la A112 di una persona conosciuta e che il buon senso ci suggerirebbe di evitare. Troppo tardi. Quello inchioda facendo imprecare gli avventori del bar dall’altro lato della strada e si ferma un bel pezzo più avanti, sbandando leggermente. Porca troia. Spero, anzi speriamo entrambi che la sua meta non coincida con la nostra, così da declinare l’offerta di passaggio. Invece, visto che non ha niente da fare, dice, si offre di accompagnarci. Riparte lasciando sull’asfalto un chilo di pneumatici. Nei venti minuti successivi confesso di aver vigliaccamente abiurato il materialismo storico di Carlo Marx, per abbracciare senza vergogna la religione cattolica, recitando, più o meno correttamente, le preghiere che da bambino aveva cercato di insegnarmi il buon don Melotti. Se Dio vuole, e qui direi che l’esclamazione ci sta bene, arriviamo. Il nostro uomo guarda l’ora e butta lì che intorno a mezzanotte dovrebbe ripassare. “Grazie, andiamo ad una festa e faremo sicuramente più tardi”. A meno di incontrare Aaron Kosminki, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Jack lo Squartatore, per quella sera pensiamo di aver già dato.
Antonella, che ha un anno meno di me, scoprirò poi, ci accoglie sorridente ed euforica. La mia impressione, condivisa dagli ormoni di cui sopra, rimane inesorabilmente quella di qualche giorno prima. E agli ormoni, ahimè, non si comanda. Ma è oltre quella soglia che ci aspettano le vere sorprese della serata. La prima è che nella stanza principale della festa troviamo una ventina di ragazzini. L’età media è imbarazzante. E la musica lo è di conseguenza. Se non bastasse, a sorvegliare sulle mutande di tutti ci sono anche la sorella della padrona di casa e il marito. Quando li vede, il mio amico mi manda a fare in culo, nemmeno troppo velatamente. Se Dio vuole – e siamo a due: l’effetto del viaggio non si è evidentemente ancora esaurito - Il buffet è invitante e visto che ci siamo prendiamo posizione. “Puoi venire un attimo?” Antonella, con la quale ho dovuto ballare due lenti sotto lo sguardo attento dei parenti e quello divertito del mio amico, ormai fisso ai vassoi, mi prende per mano e mi guida verso la cucina. E’ in quel momento che, non so perché, probabilmente l’istinto, l’angelo custode, Carlo Marx, o tutti e tre insieme, ho una strana sensazione, come di disagio. Passando di fianco allo stronzo, che continua imperterrito ad abbuffarsi, ma che trova il tempo di dirmi: “non vorrai mica, spero?”, accompagnando il concetto con l’inequivocabile gesto corrispondente, riesco a ribattere: “massimo 5 minuti e torno”. Eiaculazione precoce? Fanculo. La cucina è una stanza abbastanza ampia. C’è addirittura un divano sul quale sono seduti la sorella di Antonella e il cognato. Lo guardo per la prima volta. E’ un uomo alto, con i baffi, un aspetto e un look antichi, nonostante a occhio non abbia più di 25-30 anni. Antonella mi lascia improvvisamente al centro e si mette alla mia destra, più o meno a metà tra il divano e il sottoscritto. La porta è alle mie spalle. Aperta. Dettaglio che avrà una sua importanza. Aspetto che il baffo mi chieda che busta voglio: la uno, la due o la tre. Invece mi saluta. Anche lui conosce il mio nome. Penso alle buste e mi vien da ridere. E in effetti quello che sta per andare in scena, io non lo so ancora, sarà a dir poco surreale. Intuisco che non è il caso di fare il buffone perché il baffo ha la postura di chi si appresta a fare un discorso importante. Anche se all’inizio non realizzo dove voglia andare a parare. Forse perché la busta l’ha scelta lui e comanda il gioco. In effetti la prende un po’ alla larga: dalla festa passa ad una concione sulla scuola, all’importanza dello studio, poi improvvisamente vira sulla famiglia e si commuove quasi parlando delle unioni solide, come la sua e quella della moglie. Per me, che oltretutto sono un fighetto del classico, quelli del baffo sono discorsi da bar, ma sorrido e annuisco ebete. La cosa divertente e preoccupante insieme è che il baffo sembra essere fiero della sua prolusione. Per non ridergli in faccia, pare brutto, faccio quello che faccio tuttora quando sono costretto ad una cosa di cui mi importa meno di zero. Tolgo l’audio. E aspetto che passi. Vedo le labbra muoversi sotto i baffi, le espressioni del viso, il modo di gesticolare. Guardo la sorella di Antonella che tiene costantemente gli occhi bassi. Per tutto il tempo, non ho idea quanto sia durato: probabilmente cinque minuti, ma avrebbero potuto essere 5 ore o 5 giorni, non ha aperto bocca. In effetti se ci penso non so che voce abbia. Forse è muta. Oppure si vergogna di quello che sta dicendo il marito. E questo sarebbe un punto a suo favore. Decido di riattivare l’audio, sperando abbia finito. Non ha finito. “Tu stai facendo il liceo classico, quindi dovrai andare per forza all’università: il tuo diploma, diciamolo, non vale niente”. Vorrei dissentire, prima di tutto perché non si dice facendo ma frequentando: l’italiano è importante. Ma, ahimè, il copione prevede che sia sempre lui a parlare. “La facoltà l’hai già scelta? Sai già se andrai a Milano o a Brescia?” Dico sì, ma non riesco ad aggiungere: filosofia. E col senno di poi sarebbe stato meglio. Un filosofo è poco più di un barbone, nessuno aspira a tirarselo in casa. Che il mio sogno sia da sempre fare il giornalista – e qui il verbo è più che indicato - lo tengo per me. Anche perché, chi ti conosce baffo? Cosa sono tutte queste domande? Non capisco. Ed è strano che non capisca, perché sono un ragazzino sveglio e intuitivo. Invece, evidentemente, in quella casa mi sto trasformando, o forse lo sono già, nel figlio scemo di Tarzan delle scimmie. Con tutto il rispetto per Tarzan. E anche per le scimmie. Sono bloccato al centro della stanza, il baffo non mi fa parlare e, soprattutto, non mi ha lasciato scegliere la busta, cosa che peraltro ho sempre sognato di fare. “Antonella fa segretaria d’azienda “: ancora, ma allora è un vizio. “Dopo il diploma verrà a lavorare nell’azienda del padre”. Scopro così che il padre ha l’aziendina, dove lavorano tutti, baffo compreso, il quale dà per scontato che io sappia di cosa si tratta. Non lo chiedo perché ho paura che apra un altro capitolo. “Nel frattempo tu puoi decidere se dedicarti solo allo studio o venire a dare una mano da noi: ti paghiamo naturalmente, perché anche se sei il fidanzato di Antonella, noi non sfruttiamo nessuno”. Alt. Fermi tutti. Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Il fidanzato di Antonella? Lo ripeto a me stesso tre volte, anticipando di un paio d’anni l’urlo della vita di Nando Martellini. E anch’io sto per urlare: voi siete matti, ma matti tanto. Ho sedici anni, mi piace giocare a calcio, tra l’altro sono anche bravo, studiare, mi piacciono le ragazze (va beh, ho pensato fighe), in ogni caso Antonella, sorry, non rientra in nessuna di queste categorie. E poi la vedo stasera per la seconda volta. Non abbiamo neanche limonato, per dire. Valuto però che quest’ultimo concetto non solo c’entra nulla ma darebbe modo al baffo di intentare un processo alle intenzioni. Meglio evitare. Sento un rumore alle spalle. Il mio amico è appoggiato alla porta con un piatto in mano. Sorride. Ahhhh, allora è uno scherzo, penso. Siete dei bastardi. Comunque mi sento sollevato e verbalizzo il pensiero: “Ok è uno scherzo. Cazzo, mi stavo spaventando. Bravi. Beh adesso possiamo tornare di là. Mi è venuta sete”. No, non è uno scherzo. Il cognato si incazza pure e dice qualcosa sui pranzi della domenica e sul fatto che appena mi laureo e trovo un posto di lavoro, ci saremmo sposati. “Sposati chi, scusa?”: finalmente riprendo pienamente possesso delle mie facoltà mentali. “Tu e Antonella, di cosa abbiamo parlato finora?”. Mi giro di nuovo. Il mio amico non sorride più. Non so se è il neon ma mi sembra impallidito. Tiene il milionesimo tramezzino in mano e la bocca semiaperta. Questo è uno sciroccato. Sono tutti sciroccati. So solo che non devo contraddirlo perché chissà cosa potrebbe fare. E che devo pensare in fretta a come sganciarmi. Visto il prologo a questo punto mi aspetto che per lasciarmi andare mi faccia sottoscrivere qualcosa. Un impegno. Una lettera che verrà ceralaccata da un notaio e che mi legherà per sempre a questi pazzi scatenati. Dentro di me lo so che non è possibile. Ma mettetevi nei miei panni. Ho 16 anni. Sono uscito per andare ad una festa, libero e bello, quantomeno libero, e mi trovo fidanzato e promesso sposo a mia insaputa, anche qui anticipando di decenni eventi ben più gravi per il Paese. Concedete che non fossi preparato? In quel momento temo che nemmeno Carlo Marx possa aiutarmi. Mi viene in soccorso la sorte. Nella stanza da ballo si sentono delle voci e dei rumori. Il baffo scatta, urtando il mio amico, che posa il piatto e mi trascina letteralmente fuori. Antonella piange. La sorella mi guarda e lì capisco che se potesse verrebbe via con noi. Mi ritrovo per strada e iniziamo a correre. Ci fermiamo dopo un chilometro su una panchina seminascosta a riprendere fiato. Sia mai che il baffo venga a cercarci. Il mio socio mi chiede di spiegargli cosa cazzo è successo. Non si capacita. Lui. Figuratevi io. Mi racconta quello che ha sentito. Io la parte che non conosce. E’ tutto talmente assurdo che non riusciamo nemmeno a ridere. Per rientrare dobbiamo affidarci all’autostop. Apro la porta di casa ad un orario insolito per essere sabato sera. Ma va bene così. Non dimentichiamo che c’è sempre Aaron Konsminski a piede libero. Antonella l’ho poi intravista un paio di volte. Abbiamo evitato entrambi di incrociarci e non è stato difficile. L’ho incontrata dopo anni: passeggiava sul lungolago abbracciata ad un uomo più grande di lei. Mi ha sorriso senza salutare. Ho fatto altrettanto

lunedì 3 settembre 2018

La belva nel labirinto


Giuseppe Lombardi, detto il Pepp, da 40 anni il miglior idraulico di Lambrate, si prepara per una serata in balera, ma in mente ha un obiettivo che prescinde dal ballo. Anche Gabriel si prepara, come fa tutte le sere, a diventare Gabriela e ad andare in balera, ma anche il suo di obiettivo prescinde dalle danze. I due si incontrano e recitano la loro parte almeno fino a un certo punto. Quando l’idraulico già pregusta una notte di follie erotiche, lei gli sfila il portafoglio ...e se la dà a gambe. Lui prova a inseguila ma l’età e la forma fisica non sono dalla sua parte. Al Pepp non resta che appoggiarsi ad un’auto in sosta per riprendere fiato. All’interno c’è il cadavere di un uomo, ucciso con 4 colpi di pistola. E accanto al cadavere, scopriranno gli uomini del vicequestore Norberto Melis, c’è una carta, un arcano dei tarocchi, contrassegnato da due M e da un’annotazione che sembra una data. Ma quello dell’uomo non è il solo cadavere nell’auto. Nel bagagliaio c’è il corpo di una ragazza, uccisa dopo essere stata seviziata. Per il vicequestore della Mobile di Milano l’indagine si presenta da subito complicata, un’indagine più sociale e sociologica che di polizia. Di morti ammazzati ce ne saranno altri, complessivamente cinque: un giovane studente di famiglia bene con simpatie nazifasciste, due ragazze qualunque, quelle che la cronaca definirebbe acqua e sapone, un travestito e un prete di strada. Persone agli antipodi, senza alcun legame, con esistenze lontane anni luce. Perché dunque proprio loro? Cosa le lega una all’altra? Perché un legame ci deve essere per forza. Forse mai come stavolta bisognerebbe ricordare quello che disse Simenon: il delitto non conta, conta quello che accade o è accaduto nella testa di chi lo commette. Melis impiegherà oltre 3 mesi, da inizio giugno a fine settembre ‘87, per mettere insieme i tasselli necessari a identificare i responsabili, o meglio: il contesto allucinante che ha alimentato il crimine e dove i colpevoli sono probabilmente l’ultimo dei mali.
Hans Tuzzi ha una scrittura elegante, ricercata nelle citazioni e nei riferimenti letterari anche se mai esibita. Il commissario Norberto Melis è un uomo altrettanto raffinato, di buone letture, con un alto senso etico e della giustizia, pur non dedicandosi anima e corpo alla professione. Melis non è un eroe maledetto, con una vita sfasciata: ha una compagna, Fiorenza, altrettanto colta e alla sera gli capita di frequentare gli amici. Il protagonista dei gialli di Tuzzi esce cioè dai cliché: forse non è nemmeno bello e simpatico, o perlomeno non fa nulla per esserlo. Pensa molto, si aiuta con i classici e arriva a scrivere verità mai belle e spesso scomode. La belva nel labirinto è ambientato a Milano alla fine degli anni ‘80. Ma in realtà è senza tempo, perché parla di cattiveria, di odio per la diversità, di anaffettività. Sostanzialmente della banalità del male: perché basta solo un attimo di distrazione