Translate

lunedì 13 maggio 2019

La logica della lampara


Non sempre quello che si vede è quello che si vede. A volte è solo apparenza di una verità costruita ad arte. Ci sono due testimoni attendibili che all’alba vedono gettare dagli scogli una valigia trasportata a mano con grande difficoltà. C’è subito appresso una telefonata anonima che denuncia alla polizia un possibile omicidio in una villetta a mare. C’è del sangue in quella casa che corrisponde al sangue trovato nella valigia e soprattutto c’è la ragazza che aveva affittato quella casa che non si trova più: una giovane avvocato occupata del principale studio della città. E guarda caso nella valigia c’è il suo iphone, dal quale la scientifica riesce a recuperare tutto il contenuto: chat, messaggi vocali, immagini e quant’altro sufficienti a chiudere in faccia le porte del carcere, per non aprirle mai più, al titolare dello studio, un notabile in odore di mafia. L’unica cosa che manca è il cadavere, che rimane sullo sfondo, più che in fondo al mare. E questo in un’indagine di omicidio non è indifferente. Troppo semplice comunque, troppo facile per Vanina Guarrasi, vicequestore della Mobile di Catania. Nonostante sia convinta che il grande avvocato mammasantissima la galera la meriterebbe a prescindere, per un’accusa così grave ci vogliono dei riscontri più solidi. E in effetti le cose sono molto più complicate di quanto qualcuno vuol far credere. Anche per questo caso sarà determinante l’appoggio dell’ottuagenario commissario in pensione Biagio Patanè, che già in Sabbia Nera aveva riportato alla luce una storia antica nella quale c’erano i prodromi dell’indagine in vetrina. La verità verrà ricostruita poco alla volta grazie alle intuizioni della Guarrasi e non sarà la verità dell’apparenza. Ecco, io sono ufficialmente innamorato di Vanina Guarrasi e la colpa è di Max di Domenico che conoscendo la mia passione per la Sicilia me l’ha fatta conoscere. Per gli amanti del genere, “La logica della lampara” di Cristina Cassar Scalia è da leggere.

martedì 26 febbraio 2019

L'unica storia


“Abbiamo quasi tutti un'unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo in altrettante storie. Ma ce n'è una sola che conta, una sola da raccontare, alla fine”. Questa è la storia d’amore di Paul, studente inglese di 19 anni. Quella con Susan, 48 anni, madre di famiglia, conosciuta un’estate al circolo del tennis. Con lei, per lei, Paul impara l’amore per sempre e il suo contrario più doloroso. Che non è l’odio, ma la consapevolezza che nemmeno un sentimento sconfinato è in grado di salvare dall’autodistruzione la donna della sua vita: di proteggerla dall’alcol, dalle bugie e dalle verità nascoste che giorno dopo giorno si sono accomodate nella loro cucina. Fino allo strazio dell’abbandono, perché per entrambi non c’è salvezza e per non affogare Paul è costretto a restituirla – restituirla, fa male solo dirlo - alla sua vecchia famiglia. Paul la sua unica storia la racconta a distanza di 50 anni, quando i protagonisti sono quasi tutti scomparsi. Lo fa all’inizio in prima persona, completamente immerso in una dimensione nuova, fantastica, inebriante, trasgressiva. Passa quindi ad alternare la prima alla seconda persona quasi volesse raccontare prima di tutto a sé stesso i fatti e leggerli con maggiore obiettività. Per arrivare poi definitivamente alla terza, dove l’io narratore scompare e quello che è successo viene presentato nella sua cruda realtà. Qualcuno ha scritto, e io sono d’accordo, che come ne “Il senso di una fine”, l’elemento dominante del romanzo di Julian Barnes è il tempo, che trasforma le persone e i sentimenti, esalta e avvilisce le relazioni, alimenta e distrugge l’amore. E al concetto del tempo è legata la funzione della memoria, che permette di rivivere il passato con nostalgia ma con più equilibrato e corretto distacco. “L’unica storia” non è un romanzo di iniziazione sessuale: è un approfondito esame dell’animo umano e di come esso reagisce di fronte ad un sentimento totalizzante, che a volte, come in questo caso, si presenta nel suo aspetto meno convenzionale. (…) ciascuno ha la propria storia d’amore. Anche se è stata un fallimento, anche se si è ormai spenta, o non è mai riuscita a partire, o se fin dal principio era tutta e solo mentale, questo non la rende meno vera. E’ l’unica storia (…).

domenica 24 febbraio 2019

Mio padre è stato anche Beppe Viola


(…) Lì, nella chiesa dove avevo fatto la prima comunione e la cresima, dove ero andata a confessarmi per tutte le palle che raccontavo ai miei, o perché giocavo al dottore con Fabio e sapevo bene che era peccato, in quella chiesa lì, appunto, vidi per la prima volta la cassa da morto, bella lucida, davanti all’altare. E lì dentro c’era papà. Come fa a uscire da lì? Fino ad allora per me era morto Beppe Viola, quello della televisione, quello che fa ridere. Fu solo in quel momento che mi resi conto che a morire era stato il mio papà, e cominciai a stringere io la mano a Enzo, e la gola stringeva me, e finalmente avvertii la prima lacrima calda, lenta, densa e pesante di un dolore e di una solitudine che sarebbero diventati miei compagni per tutta la vita (…). Fu la mamma, dopo aver lanciato una rosa rossa nella fossa, sopra la bara, a rompere il silenzio. “Ciao, Peppi”, disse. L’ultimo loro momento di intimità. Quel “ciao Peppi” lo sento rimbombare dentro di me, un’eco che non si è ancora placata (…). Non disse addio perché nessuno di noi era pronto per un addio. Fu semplicemente un ciao, un ci vediamo, un a dopo. Quasi come una speranza. Un’illusione che questo non fosse altro che uno di quegli scherzi che ci faceva lui, che poi ricompare e tutti ridiamo come matti (…).

Marina Viola, la seconda della 4 figlie di Beppe, a oltre 30 anni dalla morte del padre ha cercato di ricostruirne l’identità attraverso i racconti degli amici più cari, quelli noti e quelli sconosciuti: del bar, dell’ippodromo, della strada. L’ha fatto perché quando muore tuo padre e tu sei ancora una bambina i ricordi con il tempo si affievoliscono e il rischio è che rimanga solo il mito. Ma anche per lasciarlo finalmente andare quel papà che è stato anche Beppe Viola. E’ un bel libro questo firmato da Marina: sull’uomo, sul padre, sul marito, con tutti i suoi pregi e i tanti difetti. A me manca Beppe Viola, manca tanto, come credo manchi a chi fa il giornalista. Immagino alle figlie. Non arriverà mai il momento di dirgli addio.

giovedì 10 gennaio 2019

Il mio Novecento

Una lectio magistralis di una sessantina di pagine che racconta un secolo, il 900, che ha visto - cito a memoria- due guerre mondiali, 187 milioni di morti, dissolversi 4 imperi, la caduta del Muro, la disgregazione del sistema coloniale, l’implosione dell’Unione Sovietica, il Vietnam, la Corea, il conflitto nell’ex Jugoslavia, quello tra Iran e Iraq, l’ancora irrisolta questione palestinese, l’era atomica che oggi impone l’equilibrio mondiale. Bernardo Valli racconta da cronista e da testimone oculare e di penna il suo e il nostro Novecento. Un saggio breve, anzi un libretto di istruzioni da mettere in tasca alle generazioni che non hanno visto e agli scettici d’Europa, che hanno perso la coscienza della vittoria che l’Unione rappresenta in 70 anni di pace.

domenica 6 gennaio 2019

Blackout


Domenica di ferragosto, periferia di Bologna. Nell’atrio di un palazzo di 20 piani stanno per incrociare le loro vite un ragazzo di 16 anni, una giovane donna poco più che ventenne e un uomo di quasi 50. Il 16enne sta per salire per l’ultima volta a casa sua: in stazione a Parma lo aspetta la fidanzata con la quale ha deciso di fuggire: forse a Parigi, o ad Amsterdam, comunque lontano da lì. La donna ha appena finito il turno in un bar del centro. Non vede l’ora di togliersi la divisa volgare con cui è costretta a muoversi tra i tavoli e passare la prossima mezzora sotto la doccia. L’uomo è l’unico a non vivere nel palazzo. L’appartamento che ha affittato nasconde la sua seconda vita, lontana anni luce da quella conosciuta del padre di famiglia e dell’imprenditore di successo. In quel momento, è il primo pomeriggio, nessuno di loro sa ancora che quella torrida giornata di festa sta per diventare il loro incubo per sempre. I tre salgono in ascensore portando con sé sogni e progetti. E lì ci rimarranno per le successive 10 ore. Un tempo infinito, durante il quale nessuno si accorgerà di loro, nessuno li andrà a liberare. Blackout è il primo dei romanzi scritti da Gianluca Morozzi. Se fosse un film, prima della proiezione apparirebbe la scritta: per le immagini e i contenuti è consigliabile solo ad un pubblico adulto. Perché in 10 ore, in quei pochi metri (e non solo) accadrà l’inimmaginabile, con un crescendo emotivo che l’autore racconta con grande abilità, fino all’epilogo finale. Sul quale non mi soffermo, perché anche quello è oltre ogni ragionevolezza, e forse proprio per questo drammaticamente vicino alla realtà, tanto da fare di Blackout, mi sia concesso, un romanzo quasi sociologico, su chi siamo, cosa siamo disposti a fare per, a sopportare e, soprattutto, a non vedere. E se tutto ciò presuppone o pretende il sacrificio di qualcosa o di qualcuno, pazienza.

martedì 20 novembre 2018

Gli anni al contrario


"I grandi, in fondo, non sono che bambini sopravvissuti”. Ci sono romanzi che ti prendono l’anima e non te la lasciano, neanche quando hai finito di leggerli. Perché… perchè a volte toccano nervi scoperti, parlano del tuo mondo: quello che hai vissuto, che in qualche modo hai frequentato, o che ti è passato accanto, sfiorandoti soltanto e accarezzandoti appena. Gli anni al contrario, esordio letterario di Nadia Terranova, l’ho letto un sabato pomeriggio e mi ha trovato inavvertitamente disarmato. Ambientato a Messina tra il 1977 e il 1989, racconta l'intima epopea di una giovane coppia negli anni in cui gli ultimi sussulti ribelli di una generazione venivano cancellati da una triplice deriva: l'approdo alla lotta armata, la piaga dell'eroina, la rivincita degli stereotipi borghesi. Aurora è la seconda di 6 figli, il padre è un ex guardia carceraria, fascistissimo, che porta addirittura i ragazzi in gita a Predappio per farli benedire da donna Rachele. Giovanni è invece il terzogenito di una famiglia borghese: il padre è un noto avvocato iscritto al PCI. Aurora cerca di affrancarsi dal suo mondo e dalle rigidità famigliari attraverso lo studio. Giovanni è un animo ribelle, attratto dagli eccessi, dalle utopie espulse da un partito comunista che per molti giovani dell’epoca odorava di sconfitta. Giovanni e Aurora si incontrano all’Università nel ’77, si amano, sognano la rivoluzione, credono in una società migliore al punto mettere al mondo una bimba, Mara, e giocano a fare i grandi. Ma è un gioco appunto troppo grande, soprattutto per Giovanni che soffre la lontananza, la marginalità dell’isola rispetto ai fermenti delle grandi città italiane ed europee, dove si sta facendo la storia. E questo tormento interiore, questo cane che morde dentro e non dà tregua lo porta sempre più lontano da Aurora e da Mara, che sì ama visceralmente, ma non basta. I sogni diventano allora allucinazioni chimiche, perché solo così si riesce a tenere a bada la bestia e a non pensare. Aurora, che invece i suoi sogni di dottorato li ha abbandonati per Giovanni e per Mara, prova in tutti i modi a capire e ad aiutare l’uomo della sua vita, ma è una lotta impari se il nemico si chiama disillusione ed ha scavato un solco irrimediabile con il passato. Certo ci sono i tentativi di ristabilire un ritmo coniugale ma sono intessuti di silenzi, insicurezze e sensi di colpa. Giovanni toccato il fondo ci prova davvero, per Mara, per Aurora, e ci riesce. Il rapporto prima epistolare dalla comunità terapeutica e poi fatto di incontri settimanali con Mara è di una tenerezza disarmante. La speranza in qualche modo sembra rinascere e c’è ancora tanto tempo davanti: Giovanni ha 35 anni, Mara ha appena iniziato le elementari, Aurora, comunque vada, è l’amore per sempre. All’inizio degli anni 80 viene scoperto un virus che si dice colpisca i tossici e gli omosessuali. E’ un virus bastardo, che si impadronisce del tempo. L’ultima estate Giovanni la passa a Pantelleria da solo con Mara e non ci potrebbe essere finale più bello.
Molti ragazzi di quella generazione, intrisi di ideali politici, di grandi slanci, di sentimenti estremi, sono stati salvati da una passione bambina e grazie a lei sono diventati adulti: il calcio.

sabato 17 novembre 2018

Brunò, il commissario francese




Ho letto di recente Grand Prix di Martin Walker e non mi aveva entusiasmato
particolarmente, Devo dire invece che il romanzo d’esordio di questa serie - Brunò, il commissario francese – è un bel noir. La vicenda è ben raccontata, così come le implicazioni storiche e politiche che la sottendono, i personaggi, a partire dal protagonista, sono disegnati alla perfezione e Walker li fa muovere con grande maestria, in un territorio - St Denis, cittadina del Perigord - che l’autore conosce molto bene e non solo ne apprezza i paesaggi ma anche il cibo e il vino, ingredienti che ormai fanno parte integrante della scrittura gialla. Benoît Courrèges, detto Brunò, è l’unico poliziotto di St. Denis, alle dipendenze dirette del sindaco, con compiti più di salvaguardia e tutela dell’ambiente che di ordine pubblico. Tanto da trovare il tempo anche di allenare la squadra locale di rugby e di insegnare tennis ai ragazzi del paese. Una vita tranquilla, quasi bucolica, quella di Brunò, fino al giorno in cui viene improvvisamente scoperto il cadavere di un anziano algerino, eroe di guerra, ucciso brutalmente e oltraggiato con una svastica incisa sul petto. Un omicidio a sfondo razzista è la prima ipotesi sulla quale Brunò e la squadra di investigatori arrivati da Parigi iniziano a lavorare. E i primi sospetti cadono infatti su un ragazzo di buona famiglia che si scopre essere legato a movimenti di estrema destra. Ma, come spesso accade, la verità sta nei dintorni, e servirà tutto l’acume e la conoscenza dei propri concittadini di Benoit Courrèges per scrivere il finale di questa storia, che affonda le radici nel passato, in uno dei periodi più tormentati della storia francese: la Seconda guerra mondiale. La cosa bella in questo caso, almeno per me, è che alla scoperta della verità non viene fatta giustizia, come vorrebbero la legge, l’etica e la morale. Perché a volte – mettiamola così – c’è un giusto che non corrisponde al vero So che è un terreno molto scivoloso ma se leggerete il libro forse concorderete con me.