All’inizio della mia carriera ho fatto
per molto tempo il cronista di nera. Diciamo che nei giornali locali fare la
nera è un po’ un passaggio obbligato, una sorta di esame di idoneità alla
professione. Il primo morto è il battesimo del sangue. Devi uscire senza porti
tante domande, sapendo che comunque non vedrai uno spettacolo edificante. Che
dovrai aprire occhi, orecchie e attivare tutti gli altri sensi per vedere,
carpire e annusare più informazioni possibili. Contemporaneamente, marcare
stretto i colleghi della concorrenza, perché non facciano cose che avresti
potuto fare tu, amare il fotografo che viene con te più della tua signora, imparare
a dettare a braccio – sperando in una cabina o un telefono pubblico vicini, allora
con c’erano i cellulari – o correre in redazione scrivendoti mentalmente il
pezzo perché sai già che dal minuto 2 da quando varcherai quella soglia,
dal direttore in giù inizieranno a chiederti quanto ti manca, senza magari averti
detto quanto spazio hai a disposizione. E questa è la parte migliore. O più
facile. C’è infatti una variabile, o per meglio dire una costante che, almeno
io, non avrei mai voluto fare. Parlare con la famiglia del morto. Tu e la tua
bella faccia, scortato dal fido fotografo, ti dovevi presentare alla porta di
persone appena travolte da uno tsunami di emozioni, personali, intime, private,
chiedendo di essere invitato a condividerle. Un elefante in una cristalleria. In
quei momenti sarei volentieri sprofondato, speravo meschinamente che ad aprire
fosse una donna, perché una sberla è sempre meglio di un pugno, o di un calcio.
Sapendo peraltro che avrebbero avuto ragione loro. Fortunatamente non mi è mai
successo nulla di grave, se non a volte dover portare a casa qualche mala
parola, anche questa del tutto legittima. Ricordo che una volta tornando
sconsolato, più per la vergogna che per l’umiliazione, dissi alla mia signora:
se mi dovesse succedere qualcosa tratta bene i giornalisti, non è colpa loro.
Certo a volte accadeva che nello spaesamento dovuto all’enormità dell’accaduto
qualcuno ti aprisse, ti facesse sedere e lasciasse scorrere le parole.
In quei casi, l’imbarazzo, se possibile, era ancora più grande: da un lato
sapevo che avrei avuto i complimenti di tutte le gerarchie editoriali e
l’ammirazione dei colleghi per una storia in esclusiva, dall’altro mi sembrava
di aggiungere violenza a violenza, riportando quelle confidenze che mai
sarebbero state fatte ad uno sconosciuto, se non in un momento di estraneazione
dalla realtà. Tutto questo per dire che sono d’accordo con quello che scrive
oggi Michele Serra sull’orrenda vicenda della ragazzina pugliese ammazzata
dall’ex compagno della madre. E’ un mondo senza pudore dove la morbosità del
male si è trasformata in popolarità, a favore di telecamera e di selfie.
“La popolarità del Male, rispetto alla
sua banalità, è uno stadio più avanzato in direzione della sua metabolizzazione
e, direbbe un pessimista, del suo trionfo. Il Male, nell'evo della
comunicazione globale e capillare, dei network e dei social, è una
dimestichezza da ostentare, è un linguaggio da padroneggiare. Nessuno arretri,
nessuno si faccia trovare impreparato o muto, atterrito o vinto, di fronte al
Male. Gli faranno un selfie, molto presto, al Male, posando accanto a lui come
accanto a Messi o a Lady Gaga.
La sfortunata madre della povera ragazza
Nicolina ha concesso una lunga e quasi ciarliera intervista a una trasmissione
Mediaset del mattino mentre la figlia agonizzava in ospedale, colpita in faccia
(in faccia!), mentre andava a scuola, dalle pistolettate di un ex fidanzato di
mamma, uno dei tanti ributtanti maschi omicidi (e poi suicidi) che non
tollerando di essere lasciati da una femmina soffocano l'onta nel sangue.
Non si pretendono, dalla gente semplice,
i toni della tragedia greca. Ma la gente semplice, fino a non tanti anni fa,
sapeva ammutolire. Chiamatelo pudore, dignità, vergogna, chiamatelo come
preferite, ma quando la voce del dolore rimaneva chiusa nelle stanze dei
disperati, il Male non mieteva un successo così corale, e non trovava
inserzionisti pubblicitari, già al mattino presto, disposti a cavalcarlo".
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