(…) Lì, nella chiesa dove avevo fatto la prima
comunione e la cresima, dove ero andata a confessarmi per tutte le palle che
raccontavo ai miei, o perché giocavo al dottore con Fabio e sapevo bene che era
peccato, in quella chiesa lì, appunto, vidi per la prima volta la cassa da
morto, bella lucida, davanti all’altare. E lì dentro c’era papà. Come fa a
uscire da lì? Fino ad allora per me era morto Beppe Viola, quello della
televisione, quello che fa ridere. Fu solo in quel momento che mi resi conto
che a morire era stato il mio papà, e cominciai a stringere io la mano a Enzo,
e la gola stringeva me, e finalmente avvertii la prima lacrima calda, lenta,
densa e pesante di un dolore e di una solitudine che sarebbero diventati miei
compagni per tutta la vita (…). Fu la mamma, dopo aver lanciato una rosa rossa
nella fossa, sopra la bara, a rompere il silenzio. “Ciao, Peppi”, disse.
L’ultimo loro momento di intimità. Quel “ciao Peppi” lo sento rimbombare dentro
di me, un’eco che non si è ancora placata (…). Non disse addio perché nessuno
di noi era pronto per un addio. Fu semplicemente un ciao, un ci vediamo, un a
dopo. Quasi come una speranza. Un’illusione che questo non fosse altro che uno
di quegli scherzi che ci faceva lui, che poi ricompare e tutti ridiamo come
matti (…).
Marina Viola, la seconda della 4 figlie di
Beppe, a oltre 30 anni dalla morte del padre ha cercato di ricostruirne
l’identità attraverso i racconti degli amici più cari, quelli noti e quelli
sconosciuti: del bar, dell’ippodromo, della strada. L’ha fatto perché quando muore
tuo padre e tu sei ancora una bambina i ricordi con il tempo si affievoliscono e
il rischio è che rimanga solo il mito. Ma anche per lasciarlo finalmente andare
quel papà che è stato anche Beppe Viola. E’ un bel libro questo firmato da
Marina: sull’uomo, sul padre, sul marito, con tutti i suoi pregi e i tanti
difetti. A me manca Beppe Viola, manca tanto, come credo manchi a chi fa il
giornalista. Immagino alle figlie. Non arriverà mai il momento di dirgli addio.
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