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mercoledì 10 ottobre 2007
Italiani da Nobel
Nessuno è sceso in strada sventolando il tricolore, ma l’assegnazione del premio Nobel per la medicina all’italo americano Mario Capecchi (più americano che italo, per la verità, visto che si è imbarcato per gli States a 9 anni e l’ultimo ricordo dell’Italia è lo scorbuto) ha sollecitato ed eccitato quel senso di appartenenza che prende ognuno di noi (mi ci metto anch’io, per non sembrare snob) quando c’è nell’aria sentore di inno di Mameli, tutti sull’attenti, occhi velati e mano sul cuore. Personalmente, tra le tante manifestazioni di orgoglio nazionale, sono molto d’accordo con la riflessione dell’on. Chiara Moroni, origini socialiste, attuale vice presidente dei deputati di Forza Italia. "L'assegnazione del premio Nobel a Mario Capecchi – ha detto Moroni all’Ansa - rappresenta per l'Italia un’occasione di riflessione e di stimolo. Non ci si può limitare a gioire per le origini italiane dello studioso, tentando di appropriarsi della paternità scientifica della ricerca. Il professor Capecchi, negli Stati Uniti, da anni studia le cellule staminali ed è bene ricordare che in Italia, a causa di una legge assurda, è vietata la ricerca su quelle embrionali. Nel nostro Paese – ha osservato ancora la parlamentare - non ci sono le condizioni, le agevolazioni e le opportune iniziative per premiare ed incoraggiare la ricerca. Molte leggi, frutto dell’ingiustificata paura e delle posizioni ideologiche, impediscono di puntare strategicamente in questa direzione. Sarebbe necessario – ha quindi concluso - puntare su una legislazione che ponga l’Italia in linea con la comunità scientifica internazionale ed aumentare i finanziamenti ai 'cervelli' perché possano operare in condizioni accettabili. L'auspicio è che l'Italia possa gioire, in un futuro prossimo, per un premio Nobel figlio della capacità di promuovere ricerca”. Ricordo che qualche anno fa ci fu il tentativo di far tornare i cervelli in Italia: un’operazione più che altro d’immagine, per non dire una farsa, visto che non erano venute meno le ragioni dell’espatrio. Una sorta di campagna acquisti di geni italiani, emigrati non per esterofilia ma solo perché la patria, il tricolore, l’inno di Mameli, occhi velati e mano sul cuore, nella migliore delle ipotesi aveva offerto loro solo la possibilità di borse di studio da fame e decenni di anonimato all’ombra di qualche barone. Al contrario, nelle nazioni dove sono andati ad operare, soprattutto negli Stati Uniti, hanno avuto l’occasione di mettersi in gioco ed esser premiati – sia economicamente, sia in carriera – in base alle loro reali capacità. Per rimanere nella metafora calcistica è come se il Pavullo, suo paese d’origine, chiedesse a Luca Toni di rientrare da Monaco per giocare nella squadra locale. In realtà qualcuno si è lasciato lusingare da quelle sirene sperando che nel frattempo qualcosa fosse cambiato, in termini di finanziamenti ma anche di condizionamenti. Non so onestamente quanti siano rimasti e se si siano pentiti della scelta. Di sicuro, finchè per la ricerca non ci saranno fondi, la laicità dello Stato sarà solo di facciata e anche gli scienziati dovranno fare i conti con l’acquasantiera, i premi Nobel avranno magari anche nomi italiani ma del nostro idioma ricorderanno solo ciao e mamma. O anche no. Come il prof. Capecchi.
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