La vita, le scelte, che siano intellettuali o molto più
banalmente logistiche - basta per esempio vivere in un’altra città - cambiano i
rapporti. La quotidianità, che è fatta di contatti anche fisici, di affetto e
di scontro, finisce per annacquarsi in
incontri periodici o risolversi in telefonate quasi di cortesia: ciao come
stai, cosa hai fatto oggi, hai mangiato, sei andato dal medico. Non so se sia
giusto, e se sia giusto chiederselo. A volte è la vita, con tutti i suoi
annessi e connessi, a chiederti conto e puoi ritenerti già fortunato se riesci
a seguirne il corso che ti sei scelto. L’importante, in fondo, è che tutti
stiano bene. Certo la lontananza fa perdere tanti aspetti, tanti piccoli gesti,
che se non stupiscono quando a posteriori te li raccontano, perché rientrano nel
carattere, nel modo di stare al mondo di una persona, nondimeno stringono il
cuore, addolciscono il ricordo, danno il senso di un’appartenenza, ideale e
di valori. Mia sorella ed io non abbiamo avuto figli e i miei genitori hanno
finito per fare i nonni di tutti i bambini del condominio, bambini
extracomunitari peraltro ( poi spiego il senso dell’avverbio), perché la crisi
dell’industria tessile sulla quale si reggeva l’economia del paese, aveva
finito per far emigrare tante famiglie, accogliendo negli appartamenti liberi i
rifugiati delle guerre nell’ex jugoslavia e in albania. Il peraltro è riferito
al fatto che mi son sempre chiesto (e lo stesso faceva anche mio padre) come questi
bambini, e i loro genitori, riuscissero a interloquire con mia madre, che parla
quasi esclusivamente dialetto. Ma forse la risposta è molto più semplice di
quanto si possa pensare: la comprensione viaggia su canali dove la
verbalizzazione è una delle possibilità e in alcuni casi nemmeno la più
importante o la prioritaria. Resta il fatto che questi bambini, e queste donne,
hanno imparato i rudimenti dell’italiano, lingua non certo facile, dialogando
con mia madre. E questo ha del miracoloso. Che i miei si fossero mostrati
solidali con queste persone non mi ha stupito, come dice Alda Merini, “…
l’amore della povera gente brilla più di una qualsiasi filosofia. Un povero ti
dà tutto e non ti rinfaccia mai la tua vigliaccheria”. Il piatto di minestra,
la verdura dell’orto, la legna per la stufa, i vestitini per i bambini e i
regali a Natale o a Santa Lucia. Non sapevo però, me l’ha raccontato proprio mia
mamma poco tempo fa, che mio padre per
un periodo si è alzato alle 4 del mattino per accompagnare due ragazzi kossovari
che avevano trovato lavoro in un cantiere a 20 chilometri. Non avevano l’auto e
papà pensava che quel posto fosse un’opportunità che non potevano lasciarsi
scappare, per mantenere la famiglia, per rialzare la testa, per rifarsi una
vita in un paese lontano e non sempre solidale. E lui, papà, non ha esitato.
Accettatelo quel lavoro, vi porto io al cantiere, almeno finché non trovate
un’altra soluzione.
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