Negli anni ‘60 se nascevi nella periferia del mondo non
avevi alternative: o giocavi bene a pallone o non eri nessuno. E io,
fortunatamente, a pallone giocavo bene. Al campo di fianco alla chiesetta di
San Filippo, patrono del paese, che noi monelli, chissà poi perché, chiamavamo
chiesolina, di solito ero tra i due che facevano le squadre, o comunque ero
sempre la prima scelta di chi vinceva il bim bum bam. Diciamo che gli anni tra
il 63 e il 66 sono stati prolifici di ragazzini che ci sapevano fare con il fobal e un paio di noi sono anche finiti
in serie A. Comunque non è questo il tema del post. Il tema è il campetto
dell’oratorio. Campo a 7 (a stare larghi), dove noi passavamo interi pomeriggi
in partite di minimo 2 ore, esclusi i supplementari, fino al "chi segna questo
vince", inventandoci sfide intestine tra contrada di sopra e contrada di sotto,
quando non eravamo impegnati a difendere con orgoglio l’onore del paese contro
i coetanei dei centri limitrofi, a cui
ricambiavamo poi la visita a qualche giorno di distanza. Trasferta
rigorosamente in bicicletta. Gli accordi su giorno e ora degli incontri
venivano presi al telefono da chi all’epoca aveva la fortuna di avere l’apparecchio
in casa. Per l’occasione segnavamo anche il campo con la calce, recuperata da
un cantiere vicino e apparecchiavamo la porta con la segatura che, già vestiti
con le scarpe bullonate, andavamo a prendere con una carriola, sempre del
cantiere, nella segheria del padre di uno di noi. Al campo non c’erano
spogliatoi a disposizione, quindi si arrivava da casa già in tenuta da calcio.
Che poi la tenuta da calcio consisteva in una maglietta più o meno dello stesso
colore e i calzoncini, quelli che la mamma non ti aveva messo a lavare nel frattempo. I due lati lunghi
del campo erano delimitati, da una parte da un muro a secco e da una rete di un
paio di metri che si affacciava sulla via che portava alla parte più vecchia
del paese, la contrada alta. Dal lato opposto da un altro muro e da una rete
che separava il rettangolo di gioco dall’orto della caserma dei
carabinieri e dal cortile di un’altra casa semi abbandonata. In entrambi i casi
lo spazio tra il muro e la riga del fallo laterale era largo poco più di un
paio di scarpe 42. Uno dei lati corti era protetto da una rete abbastanza alta
ma non sufficiente per impedire ad alcuni palloni di andare a finire nella casa
dell’invalido (ne ho già parlato in un post passato) e da lì scomparire,
malgrado le suppliche e le scuse, o venire restituiti bucati. Di fianco alla
casa dell’invalido c’era la mia scuola elementare. L’altro lato corto si apriva
invece direttamente sulla facciata di due case: al primo piano di una c'era il
bar della signora Rara, l’altra era un casermone abitato solo al 5° e ultimo, ma comunque sempre a rischio vetri se la palla sorvolaba la traversa, come dicevano i cronisti di Tutto il calcio minuto per minuto.
Già allora, rispetto ai campi degli altri paesi, era una cosa inguardabile,
senza tanto senso. Ma era il nostro campo, il nostro San Siro, l’Olimpico, dove,
fieri, non permettevamo a nessuno di venire a vincere. La cosa che mi ricordo
di più di quelle sfide era il clima. Cessavano le rivalità tra
contrade e nel Cogno giocavano quelli più bravi, che erano riconosciuti da
tutti, senza polemiche. Il campo era la mia vera casa, sin dal mattino. Dalla
prima alla quinta, in qualsiasi stagione, con qualsiasi clima, prima di entrare
alle 8 si tiravano due calci al pallone che tenevamo gelosamente in classe e
all’intervallo delle 10.30 si organizzava la partita. A mezzogiorno suonava la
campana e all’una la maggior parte di noi era già al campo della chiesolina pronta per il
consueto pomeriggio di calcio. Nell’attesa del numero sufficiente si faceva una
partita a biglie in uno degli angoli o si scambiavano le figurine dei calciatori.
Oggi quel campo non c’è più. Al suo posto han costruito due villette. La
caserma dei carabinieri è diventata un piccolo condominio. Così la scuola
elementare. Il bar della Rara è chiuso da tempo. La casa dell’invalido invece è
sempre lì. Senza più l’invalido. L’ho scoperto di recente perché al paese vado
solo a salutare mia madre e non mi è più capitato di fare a piedi i percorsi
della mia infanzia. Non so come dire, ma ho provato un dolore quasi
fisico, la tristezza di una perdita. Un pezzo non banale della mia storia era stato
cancellato per sempre. La maggioranza degli abitanti di oggi il campo della
chiesolina, la caserma dei carabinieri, le scuole elementari non li ha mai visti. Del
bar della Rara e dell’invalido non hanno probabilmente mai sentito parlare. Dai
facciamo una partita. Chi fa le squadre? Bim bum bam. Chi segna questo vince.
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