Domenica di ferragosto, periferia di Bologna. Nell’atrio
di un palazzo di 20 piani stanno per incrociare le loro vite un ragazzo di 16
anni, una giovane donna poco più che ventenne e un uomo di quasi 50. Il 16enne
sta per salire per l’ultima volta a casa sua: in stazione a Parma lo aspetta la
fidanzata con la quale ha deciso di fuggire: forse a Parigi, o ad Amsterdam,
comunque lontano da lì. La donna ha appena finito il turno in un bar del
centro. Non vede l’ora di togliersi la divisa volgare con cui è costretta a
muoversi tra i tavoli e passare la prossima mezzora sotto la doccia. L’uomo è
l’unico a non vivere nel palazzo. L’appartamento che ha affittato nasconde la
sua seconda vita, lontana anni luce da quella conosciuta del padre di famiglia
e dell’imprenditore di successo. In quel momento, è il primo pomeriggio,
nessuno di loro sa ancora che quella torrida giornata di festa sta per
diventare il loro incubo per sempre. I tre salgono in ascensore portando con sé
sogni e progetti. E lì ci rimarranno per le successive 10 ore. Un tempo
infinito, durante il quale nessuno si accorgerà di loro, nessuno li andrà a
liberare. Blackout è il primo dei romanzi scritti da Gianluca Morozzi. Se fosse
un film, prima della proiezione apparirebbe la scritta: per le immagini e i
contenuti è consigliabile solo ad un pubblico adulto. Perché in 10 ore, in quei
pochi metri (e non solo) accadrà l’inimmaginabile, con un crescendo emotivo che
l’autore racconta con grande abilità, fino all’epilogo finale. Sul quale non mi
soffermo, perché anche quello è oltre ogni ragionevolezza, e forse proprio per
questo drammaticamente vicino alla realtà, tanto da fare di Blackout, mi sia
concesso, un romanzo quasi sociologico, su chi siamo, cosa siamo disposti a
fare per, a sopportare e, soprattutto, a non vedere. E se tutto ciò presuppone
o pretende il sacrificio di qualcosa o di qualcuno, pazienza.
Nessun commento:
Posta un commento