Pietro
e Giulio. Il primo, maresciallo dei carabinieri alle soglie della pensione, il
secondo, poco più che ventenne, studente di giurisprudenza. Si incontrano in un
centro riabilitativo. Pietro sta recuperando da un intervento di protesi
all’anca, Giulio da un incidente in auto. Iniziano a parlare, ma non di
banalità o del tempo. Il loro è quasi un dialogo platonico. Pietro Fenoglio nella
parte di Socrate guida il suo Teeteto a riflettere sulla conoscenza, sui
concetti sfuggenti di verità e menzogna, sull’idea stessa del potere. Qualcuno
ha scritto, e io sono d’accordo, che questo ultimo lavoro di Carofiglio è un
manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da
personaggi di straordinaria autenticità: voci da una penombra in cui si
mescolano buoni e cattivi, miserabili e giusti. La trama si regge sulle storie del
maresciallo, personaggio un po’ fuori dagli schemi: colto, interessato all’arte
e alla letteratura, un uomo con un altissimo senso della giustizia. Pietro e
Giulio sono in un momento delicato della loro esistenza: entrambi non sanno
cosa li aspetta. Il maresciallo non osa immaginare la sua vita in pensione.
Giulio non sa cosa farà da grande. Nei loro incontri, e nel loro raccontarsi,
troveranno insieme alcune risposte ma inevitabilmente
anche nuove domande. Unico appunto: in alcuni momenti sembra che i due
protagonisti perdano di autenticità: il loro modo di parlare, di interrogarsi,
stride un po’ con quello a cui siamo abituati. E non solo nei romanzi. La
versione di Fenoglio è un piacere, intellettuale ed estetico: per chi ha voglia
di concedersi pagine belle.
Ho scoperto di recente nel mio
tour quotidiano da Feltrinelli della trasposizione cinematografica del libro di
Romolo Bugaro, film presentato anche alla Mostra di Venezia. Romolo Bugaro è un
avvocato di Padova, per professione si occupa di fallimenti: tanti negli ultimi
anni, conseguenza della decrescita repentina che ha travolto centinaia di
attività nate alcuni decenni fa in pieno boom economico. La cronaca ne parla
quotidianamente, in termini anche tragici, con imprenditori che si tolgono la
vita perché non riescono a far fronte agli impegni o per vergogna. “Effetto
domino”, che ho letto l’anno scorso, racconta la crisi economica nel Nord Est e
lo fa senza sconti: una narrazione cruda quella di Bugaro, un pugno nello
stomaco che non ti dà scampo fino alla fine. Al centro della storia c’è una
speculazione edilizia o per meglio dire l’operazione della vita dei due
protagonisti: la riqualifica di duecentomila metri cubi di terreno, che dovrebbero
diventare una nuova prestigiosa area urbana nella campagna veneta. Un progetto
enorme, che si alimenta e vivedell’ambizione e della voglia famelica di uomini che si nutrono solo di
business, che si alzano al mattino con l’unico scopo di legare il loro nome, e
il portafogli, a qualcosa di grandioso, indipendentemente dalla sua reale
utilità, non parliamo dell’etica. Ma ad un certo punto qualcosa si rompe, e non è colpa di nessuno. Divergenze interne a una
delle banche finanziatrici bastano a far andare tutto a rotoli: per gli
imprenditori a capo dell’impresa e poi giù a catena, per i fornitori, i
fornitori dei fornitori, che a loro volta avevano investito, anticipato, dato
credito, le loro famiglie, il contesto sociale. L’effetto domino, appunto. Che
nessuno ha voluto arginare, quando forse si era ancora in tempo. Perché
“fermarsi voleva dire perdere tutto (…). E nessuno avrebbe distrutto
l’investimento più importante della sua vita”. Lo consiglio e sono curioso di
vedere il film.
Ho amato “Niente caffè per
Spinoza” da subito, dal titolo. Ne ho letto una 30ina di pagine da Feltrinelli
a Parma dove mi capita, per ragioni famigliari, di passare del tempo in attesa.
Al primo piano ci sono poltroncine confortevoli, si può attingere dagli
espositori e leggere tranquillamente. Al piano terra c’è invece una zona
riservata ai ragazzi per studiare. Amo la Feltrinelli di Strada Farini anche
per questo. Sto divagando, ma mi sembrava importante dirlo. Giro tra le corsie
e mi lascio guidare dalle emozioni. Sono convinto che siano i libri a
chiamarci, non il contrario. Ed è assolutamente inutile opporsi. In un primo
momento “Niente caffè per Spinoza” l’ho visto e gli ho girato intorno come
Gatto Silvestro con Titti, perché quel giorno avevo un altro obiettivo. Il
tempo di sedermi e di non riuscire a concentrarmi sull’obiettivo e son tornato
sui miei passi. Di solito, quasi sempre, sempre, quando inizio un libro da
Feltrinelli poi lo compro. Mai come stavolta però sono contento di essermi
fatto guidare dall’istinto. Elisa è una donna giovane, alla ricerca di tante
cose, ma prima di tutto di una ragazza che si occupi della casa e di suo padre
anziano, cieco e malato. Elisa vive in Svizzera, con un marito, più o meno, e
due figlie adolescenti. Anche Maria Vittoria è alla ricerca di tante cose, per
esempio di fare pulizia nella sua vita, a partire dai pesi inutili, il marito e
la suocera. E per farlo ha bisogno di trovare un lavoro. Il signor Luciano,
anzi il Professore, ex insegnante di filosofia, ha invece bisogno di
continuare, per quanto gli rimane, a trovare le risposte giuste dai maestri del
pensiero: da Epitteto, Epicuro, Aristotele, da Galilei, Hume, Spinoza,
Schopenhauer, ma soprattutto dall’amato Pascal. Nasce tra i due una complicità
bellissima, a tratti commuovente. Mentre Maria Vittoria, tra un caffè e una
minestra, gli legge i filosofi, il Professore, che ha imparato a vedere nel
buio, o forse lo sa da sempre, le insegna la cosa fondamentale: nei libri si
possono trovare le idee per riordinare anche la vita. Sul palcoscenico del
romanzo, scritto benissimo, ambiente tra Livorno e Pisa, ruotano altri
personaggi: gli amici del Professore, ex insegnanti a loro volta, che
quotidianamente vengono a prelevarlo per una passeggiata e per discutere di quanto
scrivono i giornali. C’è la Vally, l’anziana cognata, c’è la vicina di casa e
il medico al piano di sotto, che cerca con discrezione di occuparsi del suo
corpo malandato. I segni e le ombre di quando era ancora viva la moglie. Ci
sono 2 ex allievi che passano periodicamente, perché non si finisce mai di
imparare. Le giornate trascorrono così, apparentemente tutte uguali, cadenzate
dalle abitudini e dalle piccole manie tipiche degli anziani: ma sono giornate
impreziosite dalle citazioni, che in modo discreto danno un senso al procedere
del tempo. Così sino alla fine, che poi non è mai un assoluto, perché è la
conoscenza che guida. E quella si impara ma soprattutto si trasmette. Il
Professore l’ha fatto per tutta la vita e trova fino all’ultimo il modo di
farne dono. Sia materialmente, regalando i libri: uno alla volta, per dare
tempo al tempo, sia maieuticamente: anche Maria Vittoria, come Teeteto con
Socrate, è travolta dalla fame di conoscenza e l’ultima sera gli confida che
riprenderà a studiare. Il romanzo di Alice Cappagli, laurea in filosofia,
violoncellista nell’orchestra della Scala, ha un unico difetto. L’ho
finito.